La società degli schermi neri è la nostra

La società degli schermi neri è la nostra

Rendere credibile qualcosa di paradossale è uno dei migliori risultati che un’opera di finzione possa ottenere. Il rapimento di un membro della famiglia reale la cui condizione di riscatto è che il primo ministro faccia sesso con un maiale in diretta tv; un pupazzo virtuale candidato alle elezioni; riprendere la storia d’amore con il marito morto grazie a un software che ne simula il carattere: sono spunti provocatori, con una forte componente assurda, ma che nella serie Black Mirror di Charlie Brooker diventano immediatamente plausibili, dannatamente vicini.

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Black Mirror è una serie britannica, ideata e prodotta da Charlie Brooker, giornalista e show runner, trasmessa in prima visione su Channel 4 nel 2011. Si tratta di una serie antologica (come Alfred Hitchcock presenta o Ai confini della realtà), in cui ogni episodio racconta una storia diversa con un cast sempre nuovo. Al momento sono state mandate in onda due stagioni di tre episodi ciascuna, più un bonus: l’episodio natalizio diffuso il dicembre scorso, grazie al quale si è tornato a parlare di una delle serie più belle degli ultimi anni.

Gli episodi sono autoconclusivi ma il filo rosso che li lega è piuttosto evidente: è lo schermo nero del titolo, che il creatore definisce «quello che potete trovar su ogni muro, su ogni scrivania, nel palmo di ogni mano: il freddo e scintillante schermo di una tv, di un monitor o di uno smartphone». La tecnologia dunque, il modo in cui influenza la vita e la libertà delle persone, una tecnologia che prende alla lettera, che realizza ciò che sosteneva Marshall McLuhan, per il quale i media non sono meri strumenti di comunicazione – che veicolano cioè contenuti e trasmettono informazioni – ma tecnologie che modificano il corpo, protesi che consentono di espandere i sensi oltre i limiti naturali.

Certo, la critica alle insidie e alla pervasività del mondo altamente tecnologizzato (e mediatizzato) non è certo cosa nuova e spesso ha un vago sapore semplicistico e misoneista (si stava meglio quando si stava peggio e via discorrendo), fa però la differenza il fatto che Brooker di tecnologia ne capisca, non è un nostalgico della penna d’oca o del profumo delle lettere cartacee: è un insider, un uomo del nostro tempo che lavora nei media e che si interroga in modo lucido sui loro meccanismi e sulle possibili evoluzioni.

Giornalista e autore satirico, Brooker ha avuto spesso a che fare con il tema del futuro e degli universi distopici: nel 2005 inaugurò una rubrica per G2, un supplemento del Guardian, intitolata “Supposing”, in cui affrontava in modo ironico diversi scenari ipotetici, in una sorta di “cosa succederebbe se”. Nel 2008 invece va in onda la sua prima serie tv di successo, Dead Set, una miniserie di cinque puntate che tratta il tema dell’invasione zombie da un punto di vista privilegiato: la casa del Grande Fratello e la produzione che ruota intorno allo show. Futuri apocalittici, spunti grotteschi e mondo dei mass media sono tutti elementi destinati a tornare.

Brooker si salva dall’ovvio perché costruisce un universo tecnologico plausibile, quantomeno dal punto di vista narrativo. Tutte le storie sono ambientate in un futuro prossimo, pieno di oggetti riconoscibili, senza abiti bizzarri (al più si può notare la tuta da ginnastica minimal del secondo episodio) o architetture strampalate. Il più vicino al mondo che conosciamo è proprio il pilota: The National Anthem (Messaggio al primo ministro), ovvero l’episodio del maiale. Se lo spunto può risultare così grottesco da sembrare inverosimile, c’è da restare strabiliati da quanta presa ha invece la trama sullo spettatore: l’attesa, il crescendo di “lo farà o non lo farà”, i dettagli più surreali (il maiale sarà una femmina?): in tutto ciò il nostro sguardo viene a coincidere con quello dei cittadini-telespettatori, in un sensazionalismo morboso che si consuma davanti ai teleschermi, mentre, come diceva qualcuno, «la vita è altrove».

Già dalla prima puntata emerge dunque uno degli aspetti portanti: la spettacolarizzazione esasperata, da quella più ovvia, operata dai mass media (le strade di Londra completamente vuote perché la gente è impegnata a osservare un capo di stato che fa sesso con un maiale in diretta televisiva), a quella più surreale, come i personaggi che assistono muti, intenti solo a fotografare, mentre una donna viene inseguita da sicari mascherati nell’episodio White Bear (Orso bianco), il secondo della seconda stagione e, probabilmente, il mio preferito, di cui però è pressoché impossibile parlare senza rischio di spoiler.

Una forma del tutto particolare di spettacolarizzazione del privato si verifica anche nel terzo episodio della prima stagione: The Entire History of You (Ricordi pericolosi), i cui diritti sono stati acquistati da Robert Downey Jr. per realizzarne un lungometraggio. In questa storia la crisi della coppia protagonista passa attraverso un dispositivo tecnologico: un meccanismo impiantato dietro l’orecchio che permette di registrare per intero la vita di ognuno, di poterla rivedere davanti ai propri occhi e addirittura – qui l’aspetto spettacolarizzante – di poterla mostrare ad altri, proiettandola su schermi e pareti come le diapositive delle vacanze negli anni ’90. Le esperienze personali prendono corpo, si reificano, e si offrono allo sguardo altrui, in tutta trasparenza – e ci fanno tastare con mano l’importanza delle questioni della privacy e del diritto all’oblio introdotte dai social network.

C’è dunque un’attenzione alla dialettica tra gli effetti delle nuove tecnologie sulla dimensione pubblica e su quella privata tra i punti di forza della serie. Secondo il New Yorker, Black Mirror «racconta l’amore ai tempi dell’azienda globale» e senza metterla in termini così riduttivi, bisogna riconoscere che il rapporto di coppia è oggetto di un’attenzione privilegiata. Riveste un’importanza fondamentale nello strepitoso episodio natalizio – che per complessità sembra quasi costituire una summa dei temi trattati negli altri sei episodi – e ritorna nel doloroso esordio della seconda stagione, in cui l’elaborazione di un lutto viene condotta con l’aiuto di una copia virtuale del defunto.

Il concetto di mind uploading e il ruolo vicario della tecnologia non può che essere un tema portante (e per molti versi l’elemento più inquietante) di una storia che cerca di raccontare il nostro futuro prossimo, in una continua dialettica tra reale e virtuale. È un concetto che ritroviamo anche nel terzo episodio della seconda stagione, The Waldo Moment (Vota Waldo!), in cui un pupazzo virtuale, sboccato e populista, guadagna talmente tanti consensi da diventare un personaggio politico di tutto rispetto. Il pupazzo nasce come gag di un attore comico che lo fa muovere e parlare e che, parallelamente al successo della sua creatura, sprofonda in una forte crisi personale.

Come nel primo episodio, Brooker torna a parlare di media, di politica e dell’industria dell’intrattenimento (elementi in realtà strettamente intrecciati) ma in particolare ci parla dell’importanza della figura pubblica contro la specificità dell’individuo, del rapporto creatore-creatura e soprattutto dell’intercambiabilità della mente dietro la macchina, perché Jamie Salter, il creatore di Waldo, a un certo punto verrà semplicemente sostituito e abbandonato alla sua crisi personale senza che il suo alter ego virtuale ne risenta minimamente. In Italia molti hanno voluto vedere nella figura di Waldo una fin troppo facile analogia con Beppe Grillo. Ma al di là dei titoli di facile appeal che gridano al vaticinio, si tratta della rielaborazione 2.0 di un’idea già splendidamente raccontata da Sidney Lumet in Quinto potere.

Se il primo e l’ultimo episodio sono i più vicini alla nostra attuale epoca, il più distopico è certamente il secondo, l’unico che imbastisce un universo ad hoc e non si limita a introdurre upgrade tecnologici ma porta alle estreme conseguenze il concetto di gamificatione la pervasività dei talent show. E come ogni distopia che si rispetti, l’intreccio è costruito a partire da un individuo non allineato, un Winston Smith dalla soggettività ancora critica e indipendente (ma per quanto?) in un mondo in cui la libertà è ridotta a puro consumo virtuale.

È forse questo l’episodio a cui meglio si adatta il paragone che, nel mondo anglosassone, è stato adottato a più riprese per parlare di Black Mirror, ovvero The Twilight Zone di Rod Serling – per noi Ai confini della realtà –, serie horror-fantascientifica, andata in onda tra il ’59 e il ’64 (con due riprese, una negli anni ’80 e un’altra nei primi 2000). L’accostamento è ovvio: si tratta di due serie antologiche che affrontano tematiche simili, entrambe create da autori televisivi molto coscienti del mezzo e dalla forte impronta satirica. La serie di Serling però, dominata interamente dallo spettro della guerra fredda, più che alla costruzione di un futuro distopico è improntata al gusto del bizzarro e si lascia andare a suggestioni di volta in volta diverse: l’ufologia, la fiaba nera, il grottesco da grand guignol.

Black Mirror invece è più compatta, con un nucleo tematico maledettamente coerente che fa sì che ogni episodio, per quanto a sé stante, vada a comporre insieme agli altri il ritratto di un futuro prossimo in cui la tecnologia si emancipa sempre più dal suo creatore. Con un particolare occhio all’emotività individuale e alle questioni etiche che gli scenari futuri potrebbero aprire, Brooker riflette su una serie di interrogativi: la tecnologia ci rende più liberi? E qual è la faccia liberticida di quella stessa libertà? Quali conseguenze può avere la sofisticazione tecnologica su questioni legate a doppio filo con la sospensione della libertà, come i concetti di giustizia e punizione? Possono sembrare domande banali, come si è detto, ma non è banale il modo in cui sono poste. Esse emergono spontaneamente dal futuro prospettato dalla serie, così plausibile da sembrare vicinissimo: in fin dei conti la società degli specchi neri è la nostra.

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