«L’educazione universale ha creato un’immensa classe di quello che potrei chiamare il Nuovo Stupido».
A scrivere questa frase fu, nel 1934, lo scrittore Aldous Huxley, all’interno del suo libro di viaggio Beyond the Mexique Bay. Se c’è una conquista della modernità che oggi riteniamo universalmente positiva, uno dei principali motori di sviluppo e emancipazione in tutte le società, è l’alfabetizzazione: ma l’autore di Brave New World, in quegli anni, era in buona compagnia nel pensare che l’educazione universale fosse tutt’altro che desiderabile.
Così, nel 1921, D. H. Lawrence scriveva questa esortazione in Fantasia dell’inconscio: «Chiudete tutte le scuole, tutte insieme». E poco più avanti: «La grande massa dell’umanità non dovrebbe mai imparare a leggere e scrivere – mai».
Per Huxley, Lawrence e molti altri tra i maggiori autori dell’inizio del Novecento, le conquiste dell’era moderna nel campo dell’istruzione – e non solo – dovevano essere guardate con sospetto.
L’avanguardia di quelle trasformazioni fu il Regno Unito, dove, a partire dal 1870, una serie di atti parlamentari promosse il principio dell’educazione universale e gratuita per tutti, senza distinzione di classe sociale o di genere, dando accesso all’istruzione a un numero di persone senza precedenti nella storia.
Si stima che intorno al 1840, in Inghilterra, il tasso di analfabetizzazione fosse del 33 per cento circa per gli uomini e del 50 per cento per le donne. Prima della fine del secolo, il distacco di genere sarebbe stato annullato e il numero di analfabeti sarebbe sceso a meno di una persona su dieci.
Una parte consistente della classe intellettuale del tempo si sentì minacciata dalla comparsa di quelle nuove schiere di lettori. Le prese di posizione di scrittori come Huxley e Lawrence sono la spia del disagio nei confronti della società di massa. Da un lato, sostengono, i nuovi lettori non saranno in grado di apprezzare veramente l’arte; dall’altro, il timore per lo più inespresso è quello di non avere più un ruolo nel nuovo spazio pubblico che si stava venendo a creare.
La reazione di rifiuto della società di massa arrivò a una esplicita volontà, da parte degli artisti, di non farsi capire. Questa almeno è la tesi – che ricevette anche alcune critiche – di un bel libro pubblicato nel 1992, e stranamente non tradotto in italiano, del critico britannico John Carey. In The Intellectuals and the Masses, Carey, a lungo professore ad Oxford, argomenta a lungo che proprio la volontà di escludere le masse dalla fruizione della letteratura sia una delle spinte fondamentali alla base della letteratura modernista, una delle principali correnti artistiche europee del primo XX secolo: quella, per intenderci, di T.S. Eliot, James Joyce, Virginia Woolf, Ezra Pound.
Al di là delle conseguenze letterarie, i modernisti spesero molte parole per attaccare quelle che oggi ci appaiono come le massime conquiste del Novecento europeo. A fianco dell’istruzione universale in generale (e dell’alfabetizzazione femminile più nello specifico) ci sono alcuni bersagli curiosi, come le prime fotocamere disponibili per il mercato di massa – chiamate già da Baudelaire «un sacrilegio» – o il cibo in scatola. Una novità, quest’ultima, variamente condannata o parodiata, ad esempio, da E. M. Forster, Knut Hamsun, Graham Greene, George Orwell («potremmo scoprire col tempo che il cibo in scatola è un’arma più mortale delle mitragliatrici») e T. S. Eliot.
Ma un altro strumento della modernità si meritava particolare disprezzo: i giornali. Nel 1896, un brillante giornalista di nome Alfred Harmsworth – più tardi Lord Northcliffe – fondò, poco più che trentenne, il primo quotidiano destinato esplicitamente a un pubblico di massa, il Daily Mail.
Guidato dall’idea di «dare al pubblico ciò che vuole» e con lo slogan «il giornale dell’uomo impegnato», la nuova impresa editoriale ebbe un grandissimo successo. Il primo numero, pubblicato il 4 maggio 1896, stabilì un nuovo record mondiale nella tiratura, e finché Northcliffe fu in vita (morì nel 1922) il quotidiano rivaleggiò con il New York World e il New York Journal per il maggior numero di copie vendute. Nel 1902 la tiratura superò il milione di copie.
Gli articoli del Daily Mail erano per lo più brevi e non temevano di sporcarsi le mani occupandosi di società e di retroscena politici, con un’attenzione aggiuntiva per quello che potesse interessare al pubblico femminile – a cui erano specificamente dedicate due colonne del giornale. I titoli, anche se inizialmente di piccolo formato, erano molto più numerosi che negli altri giornali.
Il concetto di “notizia” venne allargato oltre la sfera dell’economia e della cronaca politica per includere anche la cosiddetta human interest story, ovvero storie di persone ordinarie raccontate con coinvolgimento emotivo. Il ruolo di Northcliffe nella fondazione del nuovo giornalismo popolare diventò ancora più chiaro con il lancio, nel 1903, del primo tabloid, il Daily Mirror.
È facile capire perché raccontare all’“uomo della strada” storie facili da leggere e che suscitino emozioni possa apparire una pericolosa concorrenza per gli autori letterari. Se alcuni scesero a patti con il nuovo stato delle cose e pubblicarono narrativa sui quotidiani, molti altri preferirono lanciare battaglie culturali dalle pagine delle loro riviste.
T. S. Eliot, ad esempio, scrisse nel 1938 su Criterion – la sua rivista, che non andò mai oltre un pubblico di circa ottocento abbonati – che i giornali avevano l’effetto di «rendere [i lettori] una massa compiacente, irriflessiva e prevenuta»; simili pensieri, che coinvolgevano anche il “nefasto” mondo pubblicitario, erano espressi dal critico F. R. Leavis sulle pagine di Scrutiny – un’altra rivista che negli anni Trenta non superò mai le 750 copie. Nello stesso 1938, Evelyn Waugh pubblicò il romanzo Scoop – una satira del mondo del giornalismo – che contiene frasi come «Le notizie sono quello che vuole leggere un tizio a cui non importa poi molto di nulla».
I modernisti avevano un illustre esempio nel filosofo che per molti di loro costituiva un punto di riferimento imprescindibile. Il censore più violento della nuova informazione cartacea fu infatti Friedrich Nietzsche, che condannò i giornali prima ancora di averne vista la versione popolare: in Così parlò Zarathustra si dice che le persone «vomitano la loro bile e la chiamano giornale», mentre in Volontà di potenza «disprezziamo ogni tipo di cultura che è compatibile con la lettura, e non parliamo della scrittura, dei giornali».
Questo disprezzo ha i suoi riflessi, più o meno velati, anche in molte opere d’arte del tempo. Ancora Eliot, in Preludi (1915): «E corte dita quadrate che riempiono le pipe, / e giornali della sera, e occhi / sicuri di certe certezze». In questi pochi versi ci sono molti elementi della diffidenza per la nascente piccola borghesia urbana: la caratterizzazione fisica della mancanza di grazia («corte dita quadrate»), la subalternità intellettuale persino verso quello che dicono gli evening newspapers.
Come mostra Carey, la lettura dei giornali era solo una delle caratteristiche della «massa» da cui i modernisti cercavano in ogni modo di distanziarsi. Le case dei sobborghi, il desiderio di acculturazione, l’interesse sentimentale per i bambini, i fisici poco curati e la fede nella democrazia: tutte le caratteristiche del mondo moderno erano descritte, di volta in volta, con un misto di disprezzo e paura.
Il disagio verso la «massa», una rappresentazione e una creazione intellettuale con frequenti tratti di disumanizzazione, si fa sentire anche oltre l’inizio del Novecento. Qualche decennio più tardi la Scuola di Francoforte e gli intellettuali che ne hanno ripreso le idee fondamentali, come Dwight MacDonald (il creatore della categoria di masscult) hanno criticato in termini solo un poco più sfumati i “prodotti culturali” che, frutto di una produzione seriale, danno l’illusione di fruire di opere d’arte a chi in realtà non possiede gli strumenti per apprezzare ciò che è bello e ha valore.
Sentiamo un eco dello stesso disagio nei confronti della maggioranza – la stessa sensazione di far parte di una minoranza assediata – nelle tirate recenti che lo scrittore Jonathan Franzen ha dedicato alla condanna dei social network e dei nuovi meccanismi editoriali, con la famosa descrizione di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, come di «uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse».
Nessuno si sognerebbe mai di promuovere oggi la chiusura delle scuole o l’abolizione dell’educazione universale: ma le vecchie parole di condanna verso i «giornali della sera» ci ricordano il rapporto, spesso problematico, che gli artisti hanno verso il mondo che li circonda. Gli stessi artisti che meglio lo rappresentano per le generazioni a venire.