Nella Francia multietnica crescono diffidenza e paura

Nella Francia multietnica crescono diffidenza e paura

La stazione di Garges-Sarcelles è a quindici minuti circa di treno dalla Gare du Nord di Parigi. All’uscita della stazione, oltre il piazzale, si staglia una barriera di palazzoni. È una città brutta e abnorme, costruita a metà degli anni ’50 e poi esplosa come una sorta di borgata nel corso degli anni. A dispetto dell’architettura da socialismo reale – filari lunghi centinaia di metri di palazzoni squadrati, senza balconi e con anguste finestre quadrangolari – non sembraa che gli abitanti se la passino male: il tram che attraversa la città è nuovo, i marciapiedi puliti e c’è un mercato con prezzi stracciati.

In questa città-dormitorio concepita dagli architetti Jacques Henri Labourdette e Roger Boileau, che in un ventennio realizzarono oltre 13.000 appartamenti, pullula una vita intensa. Africani, indiani, algerini, tunisini, turchi, senegalesi: oltre novanta nazionalità sono presenti sul territorio di Sarcelles, di fatto un vero e proprio mosaico di nazionalità e culture. Tra le comunità religiose, c’è anche quella ebraica sefardita, che raggruppa una delle più importanti diaspore verso l’Europa di ebrei provenienti da Egitto, Marocco, Tunisia ed Algeria. Ventuno sinagoghe e  decine di scuole ebraiche hanno fatto sì che Sarcelles fosse nel tempo soprannominata la “Piccola Gerusalemme”. A Sarcelles, come in Terra Santa, ci sono anche moschee, chiese cattoliche, chiese copte, protestanti, caldee, evangeliche.

Georges Haddad è un ebreo tunisino ed è presidente di un’associazione israelita attiva sul territorio di Sarcelles. Lo incontro lungo una larga arteria al limite del quartiere ebraico. Uscendo dal tram dove abbiamo appuntamento c’è un caffé che si chiama “Chez David”. Un signore barbuto con la kippah che passa di lì ci fa segno con la mano. «Shalom», ci saluta. «Ma il bar è gestito da turchi – mi dice Haddad sorridendo mentre entriamo nel bar di fronte -, Anzi, per la precisione: da assiro-caldei fuggiti con gli Armeni durante la diaspora del 1915, 5.000 anime che fuggirono dalla Turchia, soprattutto negli anni ’70». Sarcelles è anche la capitale di quest’altra diaspora d’Oriente. Nel bar il cameriere che ci serve caffé e croissant è indù.

«La città dormitorio di Sarcelles – racconta Haddad –  è stata edificata a partire dal 1957 in seguito al processo di decolonizzaizone dell’Africa del Nord». Guardando fuori dai vetri del caffé mi fa segno con la mano, verso il limite del quartiere: «La città è divisa in due – continua -. Da un lato coloro che hanno potuto comprare i propri appartamenti, dall’altro quelli che vivono in affitto in appartamenti dell’edizia popolare. Di solito i più poveri sono gli africani, che sono gli ultimi arrivati e che vivono dall’altra parte. Qui a Sarcelles la più importante comunità è comunque quella ebraica, su 57.000 abitanti circa ci sono tra i 15 ed i 17mila ebrei. È la seconda comunità ebraica dell’Ile-de-France dopo quella di Parigi. In cinquant’anni sono sorte sinagoghe, comunità, centri culturali, sale di preghiera e ben cinque scuole ebraiche». 

«Qui la situazione è tranquilla, ma ogni volta che c’è un problema in Medio Oriente, la tensione sale»

Difficile che l’attualità non abbia fatto capolino su una realtà come Sarcelles: «Qui normalmente la situazione è tranquilla – spiega Haddad – ma ogni volta che c’è un problema in Medio Oriente, la tensione sale. Il 20 Luglio scorso, ad esempio, durante la manifestazione in sostegno di Gaza, la situazione è degenerata e diversi negozi ebraici sono stati attaccati. Sono cinquantadue anni che vivo qui, non avevo mai visto nulla di simile. Il problema, tuttavia, non è solo religioso o etnico, ma anche sociale. Da un lato ci sono medici, avvocati, infermieri, dall’altro tanta disoccupazione giovanile, che colpisce soprattutto la popolazione araba o africana e che raggiunge anche il 20% della popolazione attiva».

Usciamo dal caffé per andare a fare un giro nel quartiere ebraico. Ci sono macellerie kosher, boulangeries che vendono lo challah, il pane dello shabbat al sesamo, lavanderie, negozi che espongono menorah e immagini di rabbini illustri. Ogni venti metri ci fermiamo per salutare qualcuno. A qualche centinaio di metri da lì, c’è la grande sinagoga di Sarcelles. Due poliziotti con la mitragliatrice spianata sorvegliano l’entrata e al lato del marciapiede staziona una camionetta della polizia. Non appena tiro fuori dal mio zaino la macchina fotografica esce dalla camionetta un poliziotto che mi chiede documenti e tesserino stampa. In breve vengo circondato da poliziotti che mi squadrano da capo a piedi: il clima è ancora tesissimo, le sinagoghe sono gli obiettivi più sensibili. Il poliziotto fa molte domande, poi rientra nella camionetta per accertamenti. Il responsabile della sicurezza della sinagoga non vuole farci entrare. «Sono 52 anni che vivo qui, nessuno mi ha mai vietato di entrare in sinagoga», ripete Haddad.

Lì vicino c’è un centro commerciale e, all’interno, un  supermercato kosher molto simile a quello preso in ostaggio da Ahmedi Coulibaly alla Porte de Vincennes di Parigi. Fuori alle vetrine pulite hanno acceso decine di candeline e qualcuno si ferma per pregare o s’inginocchia per leggere i messaggi lasciati per terra. Yohan Cohen è una delle vittime della presa di ostaggi del supermercato. Aveva vent’anni ed era di Sarcelles. «Giocava pure nella squadra di basket locale – mi racconta Haddad – il Maccabi di Sarcelles. Alla prossima partita ci sarà una commemorazione» . I nostri passi rimbombano nei corridoi lucidi di marmo del centro commerciale. Gente in giro ce n’è poca: «Lì vicino – mi indica Haddad – c’era un ristorante in cui due anni fa ci fu un attentato. Una granata gettata in mezzo alla gente, che fortunatamente non esplose. Ora il ristorante è chiuso ed il proprietario non l’ha mai più aperto».

Saluto Haddad e m’incammino su una lunga strada che parte dal retro della stazione. Alla fine della strada sorge un mercato coperto che vende di tutto. Tra i palazzi, il profilo di un minareto sormontato dalla falce di luna e dalla stella. È la grande moschea di Sarcelles. Qui mi attende Hammadi Kaddouri, originario del Marocco, presidente dell’associazione musulmana “Foi et Unicité. Gli chiedo del clima che si vive dopo gli attentati qui a Sarcelles: «Qui ci conoscono tutti e non abbiamo problemi – spiega-. Temiamo quelli che vengono da fuori. Io faccio parte del Consiglio Francese del Culto Musulmano ed abbiamo contato cinquantasette atti islamofobi dopo gli attentati. Moschee attaccate, incendiate, scritte violente sui muri delle sale di preghiera. Ci sono circa trecento fedeli che vengono a pregare qui e a volte abbiamo anche noi paura. Abbiamo dei vigili, ma anche un nostro sistema di agenti per la sicurezza dei fedeli».

«Ho l’impressione che a volte per diventare famosi in questo paese basti insultare l’Islam»

Passiamo a parlare delle vignette satiriche che raffigurano Maometto. Il volto di Kaddouri si incupisce: «Ho l’impressione che a volte per diventare famosi in questo paese basti insultare l’Islam – spiega -. Charlie Hebdo non aveva una buona situazione economica prima che accadesse tutto questo. Certo dopo lo scandalo delle caricature e l’attentato sono diventati dei martiri a livello internazionale. È facile dunque. Se vuoi notorietà basta che insulti il profeta dell’Islam e da un giorno all’altro diventi celebre. Se qualcuno vuole insultare la nostra religione si sappia che lo fa esclusivamente per farsi pubblicità».

Il problema è che a difendere l’Islam siano dei terroristi: «Quella gente con noi non ha niente a che fare – continua Kaddouri -. L’Islam non si pratica attraverso atti violenti ma attraverso un buon comportamento con il proprio vicino, con  le altre religioni, con le altre associazioni, con gli atei, con i politici. Poi, certo, per noi musulmani è brutto vedere quelle caricature, fanno male: è come se qualcuno insultasse mio padre, oggi, domani, dopodomani. Io resterei comunque calmo, certo, ma potrei avere un fratello che invece non accetta gli insulti e reagisce con violenza».

«Penso che qui ci siano alcuni Imam di cui bisognerebbe sorvegliare le prediche»

Fuori dalla moschea il guardiano mi segue severo con lo sguardo. Ora ne sono certo: a Sarcelles i giornalisti non sono i benvenuti. Supero le luci accecanti del mercato che si riflettono sui banchi ricolmi di pesce e m’incammino verso la Chiesa Evangelica di Sarcelles. Qui incontro Jean-Claude Boutinon, il pastore, peraltro dottore in teologia presso l’École Pratique des Hautes Études di Parigi: «In passato, le relazioni con le altre comunità erano relativamente buone. Una volta –racconta -: c’è stato un problema alla sinagoga e sia io, sia l’imam sia il sacerdote cattolico siamo intervenuti». Domenica 11 gennaio anche lui era a Place de la République a Parigi, a manifestare il suo sdegno per le stragi dei giorni precedenti: «Ho visto delle persone che mostravano dei cartelli con su scritto “l’Islam non c’entra niente”- racconta – Rispetto la loro opinione, ma la trovo azzardata. È come se dicessimo che durante le crociate il cattolicesimo non c’entrava niente. Non si tratta di fare un amalgama tra Islam e terrorismo ma occorre ricordare che spesso i terroristi dicono che ciò che fanno è dettato dal Corano. Quel che è peggio è che in parte hanno ragione perché certe cose sono davvero scritte nel Corano».

Per Boutinon le comunità islamiche dovrebbero porsi parecchie domande: «Tutti i califfi successori di Maometto sono stati assassinati. Cos’è dunque l’Islam? Una religione pacifica, gentile o una religione che si presta alla jihad e alla guerra santa?  – si chiede – Non ho visto uomini politici o prese di posizione che evochino questo problema. L’imam di Drancy ad esempio è una persona gentile, fa degli sforzi, ma penso ce ne siano altri di cui bisognerebbe sorvegliare le prediche». Forse la nomea di «Piccola Gerusalemme» non è del tutto meritata.

@marco_cesario