Il futuro economico della Grecia è ancora tutto da discutere, ma l’Eurozona, Italia compresa, è già preoccupata. A spaventare è soprattutto uno dei punti principali del programma di Alexis Tsipras: la Grecia, si legge, «abolirà gli accordi sottoscritti con la Troika degli usurai e rinegozierà i debiti». Eccoci al punto che fa tremare i polsi: dei 322 miliardi di euro del debito di Atene, in base ai calcoli fatti da Bloomberg, i governi dell’area euro vantano crediti per circa 195 miliardi. La sola Italia, per 40. Il resto è in mano a Fondo monetario internazionale (10%), Banca centrale europea (8%), Banca centrale greca (3%) e soggetti privati (17%). Il timore è che il giovane leader di Syriza lasci tutti a secco, Stati e risparmiatori.
Andiamo con ordine: gran parte dell’enorme debito greco pre-Troika è già stata ristrutturata con il salvataggio del 2010 e con le successive ristrutturazioni del 2012. Il mercato secondario – quello degli investitori non istituzionali e dei risparmiatori – possiede una fetta molto sottile della torta. Questo perché i risparmiatori hanno già pagato il prezzo della crisi greca tra il 2010 e il 2012 con le svalutazioni dei titoli acquistati. Al momento, quindi, il rischio sembra molto più basso rispetto a quello che corrono i creditori istituzionali, ovverosia Stati, banche e fondi. Del resto, lo ha detto in varie interviste anche il capo economista di Syriza, John Milios: l’obiettivo non è toccare il debito in mano ai privati.
Ammesso che riesca a fare carta straccia degli accordi presi dal suo predecessore, il taglio a cui ora punterebbe Tsipras sarà quindi a carico dell’Europa e dei governi dell’Eurozona. Anche per loro, peraltro, i rischi sono contenuti. Gran parte del debito greco, dopo la ristrutturazione, ha infatti già una scadenza lontana 25 anni e il tasso di interesse medio pagato è dell’1,5%, ben al di sotto di quello che paga l’Italia sui suoi Btp. Nel peggiore degli scenari possibili, a pagare il conto più salato sarebbero la Germania (60 miliardi) e la Francia (46 miliardi). Se si calcola invece l’incidenza del credito sul Pil nominale, l’Italia scenderebbe al settimo posto e la Germania al nono, mentre ai primi posti si piazzerebbero Portogallo, Cipro e Slovenia. Non esattamente le più solide economie del continente.
Altro dettaglio non irrilevante: il finanziamento italiano alla Grecia è avvenuto principalmente attraverso l’Efsf (European Financial Stability Facility), il fondo europeo per la stabilità finanziaria. Che non ha fondi propri, ma gode delle garanzie offerte dai Paesi membri che hanno facoltà di emettere titoli. Questi titoli sono garantiti pro rata dagli Stati stessi, con lo scopo di prestare il ricavato ai Paesi in difficoltà come la Grecia. L’aiuto attraverso il fondo Efsf è terminato per tutti i Paesi europei nel 2012. L’unico per il quale è stato esteso è la Grecia. Più precisamente, fino al 28 febbraio 2015, quando Tsipras avrà di nuovo bisogno di soldi per tirare avanti, visto che l’ultima iniezione da 7 miliardi che la Troika avrebbe dovuto girare ad Atene a fine anno è stata congelata in attesa del responso elettorale. L’Italia contribuisce all’Efsf con una quota di aiuti virtuali del 19 per cento, pari a 139 miliardi di euro, su un totale di 726.
Al momento, vale la pena ribadirlo, quei 139 miliardi non sono stati effettivamente stanziati dall’Italia. Si tratta comunque di titoli di cui l’Italia dovrà rispondere se la Grecia deciderà di non pagare. Uscite di cassa non previste, quindi, e che per questo potrebbero generare, secondo gli esperti, un rischio sistemico in un Paese che già gratta il fondo del barile. O addirittura – ma qui entriamo nel campo delle catastrofi – generare il default dello stesso Esfs.
Agli aiuti virtuali vanno poi aggiunti i prestiti bilaterali. Nel 2010 l’Italia ha dato alla Grecia 10 miliardi di euro (su 53 totali), raccolti emettendo debito pubblico. L’Italia, in più, ha sostenuto la Grecia anche attraverso la Bce, di cui detiene il 12,3% del capitale, e l’Fmi, di cui è “socia” con il 3,2 per cento. Al netto dei 139 miliardi “virtuali”, eccoci quindi arrivati alla famosa esposizione totale di 40 miliardi di euro. Ed ecco quindi spiegato perché il rischio di un taglio netto del debito greco avrebbe scarsi effetti sui risparmiatori: perché, molto semplicemente, i risparmiatori non hanno in mano quasi nulla.
Dopo la ristrutturazione e la svalutazione di oltre il 53% dei titoli di Stato, a possedere e a comprare bond greci sono rimasti in pochi. Il problema semmai è il passato: «Ci sono stati molti risparmiatori che prima del default greco hanno acquistato bond greci e ancora oggi si ritrovano con questa problematica», spiega Laura Binarelli, avvocato del Codacons. «In passato le banche hanno continuato a vendere titoli senza informare i clienti del rischio che correvano, nonostante sapessero già tempo che la Grecia non avrebbe avuto la capacità di onorare il proprio debito sovrano, scaricando di fatto la responsabilità sullo Stato greco. Tra il 2010 e il 2012 abbiamo avviato alcune azioni legali per il risarcimento, arrivando anche a delle vittorie».
Secondo Elio Lannutti, presidente di Adusbef, «è vero che lo Stato ha erogato soldi alla Grecia attraverso il Fondo salva Stati, ma ci sono ancora vecchie obbligazioni greche appioppate dalle banche ai piccoli risparmiatori per un ammontare, secondo le nostre stime prudenziali, di circa 4 miliardi di euro». E se davvero ci sarà una ristrutturazione del debito, «come ogni ristrutturazione comporterà dei tagli a partire come minimo dal 50% del valore dei titoli». Intanto, qualche giorno prima delle elezioni, due banche greche come Eurobank e Alphabank hanno chiesto alla Banca di Grecia di poter accedere al sistema di liquidità di emergenza previsto dalla Bce. I correntisti, davanti al pericolo di un blocco dei prelievi nel caso di un taglio del debito, hanno ritirato in un solo mese liquidità per oltre 3 miliardi. Non sarà un terremoto, quindi. Ma non è escluso che anche qui qualche scossa arrivi.