Sudafrica, i difficili conti con il passato

Sudafrica, i difficili conti con il passato

Venerdì 30 gennaio il governo sudafricano ha annunciato il rilascio in libertà condizionale per Eugene de Kock, uno dei leader delle squadre della morte durante l’apartheid, dopo vent’anni passati in carcere. La sua storia è emblematica di un paese che rimane profondamente diviso e che continua a rielaborare il doloroso passato della divisione razziale e le sue responsabilità.

L’annuncio è stato fatto dal ministro della giustizia Michael Masutha, che l’anno scorso aveva rifiutato una simile richiesta di scarcerazione. Ieri ha commentato la decisione dicendo di aver agito «nell’interesse della ricostruzione della nazione e della riconciliazione». Il luogo e la data precisa della scarcerazione non sono stati resi pubblici.

Il nome di de Kock – che ha compiuto 66 anni giovedì – è legato agli aspetti più brutali dell’apartheid, il regime di segregazione razziale terminato nel 1994 che permetteva alla minoranza bianca di restare al potere nel paese. Nel 1996 era stato condannato a due ergastoli e 212 anni di carcere per 89 capi di imputazione da un tribunale di Pretoria per i rapimenti, le torture e le uccisioni di attivisti e oppositori del regime sudafricano compiuti dalla sua unità di “controinsurrezione”.

Soprannominato Prime Evil, “il male puro”, de Kock era un colonnello della polizia e dal 1983 il comandante di un reparto denominato ufficialmente C-10 (e più tardi C-1) ma noto soprattutto come “Vlakplaas”, dal nome della fattoria a una ventina di chilometri di Pretoria in cui aveva sede.

Qui vennero commesse alcune delle più gravi atrocità contro gli oppositori dell’apartheid, in una lunga serie di operazioni segrete ma autorizzate dai massimi vertici degli apparati di sicurezza del regime bianco. Molte decine di persone, rapite dal Vlakplaas, vennero torturate per ottenere informazioni, tenute prigioniere o uccise.

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La squadra venne fondata su iniziativa del comandante della polizia di sicurezza Dirk Coetzee nel 1979 e inizialmente contava quindici membri. Quattro anni più tardi il comando passò a de Kock, allora 33enne. Mentre Coetzee lasciava che le azioni più violente venissero portate avanti dai suoi subordinati, de Kock – che secondo alcune testimonianze definiva Coetzee «un codardo» – se ne incaricava a volte in prima persona. In diversi casi, le vittime vennero legate con una corda e poi messe sopra esplosivi che venivano fatti saltare, in modo da uccidere la vittima e cancellare le prove.

Uno stato di polizia

La discriminazione razziale della maggioranza nera fu messa in pratica fin dalla nascita dello stato sudafricano, nel 1910. Allora, il pensiero di una parità di diritti tra bianchi e neri veniva vista come un’assurdità dai dominatori del paese, i discendenti dei coloni olandesi e inglesi. La divisione razziale venne ampliata e sistematizzata, assumendo il nome apartheid (letteralmente “essere separati”) nel 1948, quando salì al potere il National Party.

Con una serie di provvedimenti legislativi, in pochi anni oltre l’ottanta per cento del territorio sudafricano venne assegnato di diritto alla minoranza bianca. I neri vennero segregati nella parte rimanente, con ondate successive di rimozioni forzate e demolizione di abitazioni, fino a quando, nel 1960, venne imposto l’uso di passaporti interni.

Vennero stabiliti standard educativi inferiori per i neri, l’esclusione da alcuni lavori e la totale separazione in ogni ambito pubblico e privato. Nel 1960, la protesta contro le limitazioni della libertà di movimento sfociò in una sanguinosa repressione, a cui seguì la messa al bando di tutte le organizzazioni anti-apartheid, come il Pan-African Congress e l’ANC – che da allora in poi accettarono anche la violenza come strumento di lotta. Gli apparati repressivi del BOSS (Bureau of State Security) crebbero di dimensioni e di potere e portarono all’arresto di molte centinaia di migliaia di persone negli anni successivi.

Figlio di un importante magistrato sudafricano, de Kock crebbe in un ambiente familiare e sociale in cui la separazione razziale era sentita come una necessità, un sistema da preservare ad ogni costo. Suo padre faceva parte del Broederbond, una società segreta bianca i cui membri dominarono incontrastati il paese nel secondo dopoguerra.

Da ragazzo, de Kock sognava di entrare nell’esercito, ma venne scartato perché balbuziente e si arruolò nella polizia. Il punto di svolta della sua carriera avvenne a trent’anni, nel 1979, quando fu tra i fondatori dell’unità Koevoet, un gruppo paramilitare autore di numerose uccisioni di membri dello SWAPO, il movimento di liberazione della vicina Namibia. Di lì venne trasferito al Vlakplaas, proprio mentre il regime poliziesco sudafricano raggiungeva un nuovo picco di brutalità.

Verità e riconciliazione

Tentando ad ogni costo di mantenere il dominio di 4 milioni di persone sui 40 milioni della maggioranza nera, il regime del National Party – al potere ininterrottamente dal 1948 al 1994 – si servì anche di squadre dedite alla tortura e all’uccisione di attivisti, quando non erano in grado di farli condannare in tribunale. «La questione se quello che facevamo fosse legale o meno non entrava a far parte del quadro – ha detto de Kock – come lo facessimo non era importante. I risultati lo erano».

Molte migliaia di persone morirono in carcere, mentre le ondate di proteste che si succedettero negli anni vennero stroncate dalla polizia – come i moti di Soweto del 1976 contro l’introduzione dell’afrikaans obbligatorio nelle scuole, in cui furono uccise centinaia di persone.

L’ultima stretta repressiva e violenta, la Total Strategy dell’allora leader sudafricano P.W. Botha, fu messa in atto negli anni Ottanta, poco prima che il governo della minoranza bianca si rendesse conto che l’apartheid non era destinato a durare. Fu in questo momento storico che de Kock fu messo a capo del Vlakplaas.

L’11 febbraio 1990 il presidente F.W. De Klerk fece rilasciare Nelson Mandela, il leader dell’ANC in carcere da ventisette anni, aprendo una nuova fase per la storia sudafricana. Quattro anni più tardi si tennero le prime elezioni aperte anche ai neri, che portarono alla vittoria dell’ANC e alla fine dell’ apartheid – oltre che all’arresto di de Kock.

Il famoso giornalista sudafricano Max du Preez ha scritto a luglio dello scorso anno che de Kock è «responsabile di più morti che qualsiasi altra persona in Sudafrica oggi», ma ha aggiunto che è anche quasi l’unica persona ad aver parlato apertamente delle sue azioni durante l’apartheid. «Ha parlato dei ruoli dei suoi capi politici e dei generali. Ha aiutato la polizia a spiegare e a risolvere altri abusi dei diritti umani. Ha incontrato molte famiglie delle sue vittime e ha chiesto perdono».

Dopo l’arresto, le rivelazioni dell’ex ufficiale di polizia furono tra le più traumatiche per il nuovo Sudafrica, descrivendo nei dettagli numerose operazioni portate avanti dagli apparati di sicurezza. È raro che i responsabili dei peggiori crimini dei regimi repressivi esprimano rimorso e volontà di espiazione, senza trincerarsi dietro un muro di auto-giustificazioni: ma questo è stato senz’altro il caso di Eugene de Kock.

L’uomo fu infatti coinvolto nel celebre processo di rielaborazione collettiva degli anni dell’apartheid portato avanti in Sudafrica a partire dal 1996, il tribunale straordinario chiamato Commissione per la Verità e la Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, TRC). In una serie di udienze, la prima nel settembre del 1997, descrisse l’omicidio di molti attivisti anti-apartheid e del Congresso Nazionale Africano (ANC) anche fuori dal Sudafrica, in Angola, Zimbabwe, Swaziland e Lesotho, dicendo chi erano i responsabili della polizia sopra di lui coinvolti nei casi e che avevano ordinato le operazioni.

Già al termine della prima udienza chiese di poter incontrare le vedove di tre poliziotti neri al cui omicidio aveva collaborato, incontro che poi gli venne accordato. In un altro caso, de Kock parlò delle sue azioni davanti a una folla radunata a Port Elizabeth, chiedendo perdono e mostrando compassione per le vedove delle persone uccise. Ricevette un applauso dai presenti. Nel 2012, la figlia di un’attivista dell’ANC uccisa da de Kock di nome Portia Shabangu lo perdonò pubblicamente. Ha espresso più volte rimorso per le sue azioni commesse durante quella che ha descritto come «una guerra nell’ombra».

Qualche anno prima, la psicologa sudafricana Pumla Gobodo-Madikizela, già membro della TRC, incontrò de Kock in una serie di colloqui mentre questi era recluso nel carcere di massima sicurezza di Pretoria. Il risultato di quelle conversazioni, svoltesi nell’arco di sei mesi, è stato un bel libro pubblicato nel 2003, A Human Being Died That Night, in cui un donna cresciuta in un ghetto per neri di Città del Capo incontra l’incarnazione di tutto il male fatto dal regime bianco e razzista e si interroga sull’identità personale, la compassione e la solidarietà umana. Nel 2013 ha debuttato anche uno spettacolo teatrale tratto dal libro, del drammaturgo inglese Nicholas Wright.

Reazioni contrastanti

La sudafricana eNCA riporta che la reazione alla notizia della scarcerazione di de Kock è stata molto varia sui social network, divisa tra chi ritiene che de Kock non abbia ancora pagato per i suoi crimini e chi invece sostiene che la sua scarcerazione possa aiutare il processo di riconciliazione nazionale.

Parlando con BBC, Sandra Mama, vedova di un uomo ucciso da de Kock nel 1992, ha detto che la decisione di concedere la libertà condizionata è stata giusta: «Penso che chiuderà un capitolo della nostra storia, perché abbiamo fatto molta strada». Ha aggiunto che de Kock ha agito per ordine di persone che non hanno pagato per le loro responsabilità.

Al contrario Victor Makoke, parente di un’altra delle vittime di de Kock, aveva detto il mese scorso ad AFP che de Kock è «un selvaggio» e che «deve marcire in carcere».

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