Come ogni 19 settembre, anche quel giorno di fine anni Ottanta molti fedeli si accalcano fuori dal Duomo di Napoli. Aspettano un miracolo che si ripete ogni anno. Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, in quelle stesse ore dovrebbe accadere qualcosa di altrettanto clamoroso perché la Nazionale italiana olimpica di calcio, impegnata ai Giochi di Seul del 1988, possa perdere contro lo Zambia.
È mattina in Italia, quando la televisione sta per trasmettere le immagini della partita. Un tocco quasi esotico, per gli italiani, non abituati a vedere le partite a quell’ora. Un tocco che si aggiunge al già esotico avversario. Lo Zambia è arrivato ai Giochi Olimpici con il curioso appellativo di Chipolopolo, “proiettili di rame”, dal nome del metallo che il Paese esporta in grande quantità. Poche ore prima della partita, nell’albergo che ospita entrambe le squadre, i giocatori dello Zambia si meravigliano del fatto che gli italiani se ne stiano tra loro, in disparte, senza salutarli. Ridono e scherzano, qualcuno li indica col dito, ma nulla più. Gli africani invece li conoscono più o meno tutti, i loro avversari: ci sono il portiere Stefano Tacconi e il centrocampista Massimo Mauro della Juventus, il difensore napoletano Ciro Ferrara, l’attaccante del Milan Pietro Paolo Virdis. Nomi importanti, ma tagliati dal commissario tecnico Azeglio Vicini per l’Europeo che si è giocato in Germania qualche settimana prima e dove gli Azzurri sono arrivati fino alla semifinale.
Con lo Zambia, il calcio africano non è approdato per la prima volta in un torneo internazionale. Dopo l’esperienza diciamo così folkloristica dello Zaire al Mondiale del 1974, il movimento è cresciuto tanto. Dal Camerun del Mundial spagnolo, passando per il Marocco e l’Algeria a Messico ’86. Con la conseguenza che alcuni giocatori cominciano ad arrivare in Europa: famosissimo il caso di Madjer, l’algerino del Porto che nella finale di Coppa Campioni del 1987 è diventato il “Tacco di Allah”, perché in quel modo ha segnato consegnando la coppa al Porto contro il Bayern Monaco.
Tra i tanti arrivati, ce n’è uno che è passato dal caldo dello Zambia alla bruma belga. Per fare carriera, Kalusha Bwalya ha lasciato il club più vincente del suo Paese, il Mufulira Wanderers, per andare a giocare nel Cercle Brugge. Che altri non è che il cugino più povero del Club Brugge. Così, i Giochi diventano per lui una vetrina. Ma la prima partita non è andata granché: 2-2 con il modesto Iraq. E l’Italia nel frattempo ha rullato il Guatemala con 5 gol. Normale quindi che in quell’albergo di Seul, Mauro e compagni non li degnino di grandi sguardi.
Quel giorno di settembre, allo stadio di Gwangju fa un caldo umido, di quelli che ti fa appiccicare la maglietta sulla pelle. Il ct italiano è Francesco Rocca. Quando giocava nella Roma, da terzino, lo chiamavano “Kawasaki”, perché correva come un pazzo. Ma gli unici a correre, fin da subito, sono gli africani. Mauro, che quel giorno gioca regista di centrocampo, capisce subito che quel giorno non è aria. Lo capisce Galia, che quel giorno avrebbe magari fatto meglio a stare in panca, ma deve giocare al posto di Evani, che si è infortunato. E lo capisce Tacconi, che vorrebbe contendere a Zenga il primato in Nazionale e invece, al primo tiro, non riesce a trattenerlo. E sì, il gol è di Kalusha Bwalya. Gli Azzurri ci capiscono poco: corsa, lotta, tocchi di prima, chiusure puntuali su tutti i palloni.
Bravi e scaltri, i Chipolopolo. Si fanno pure beffe dei nostri, quando nel secondo tempo, su punizione, Bwalya insacca: la difesa azzurra si era schierata, convinta fosse di seconda. L’altra beffa arriva sul quarto gol, con Bwalya che si prende il lusso di passeggiare in area prima di segnare. L’Italia perde 4-0. Lo Zambia uscirà dal torneo con lo stesso punteggio ad opera della Germania Ovest ai quarti, ma della tripletta di Bwalya si parlerà ancora molto. Non in Italia, dove preferiamo soprassedere. In Africa gli consegnano il Pallone d’Oro continentale e per lui si aprono le porte del Psv Eindhoven fresco campione d’Europa.
Ancora non lo sa Bwalya, ma la scelta di andare a giocare in Olanda gli salva la vita. Nel 1993, anno in cui la Bbc Radio gli assegna il premio di “African Footballer of the Year”, lo Zambia si sta giocando l’accesso ai Mondiali di Usa ’94, in un incontro importantissimo contro il Senegal. Bwalya, impegnato con il Psv, resta d’accordo con la Federazione che raggiungerà Dakar direttamente dall’Olanda per unirsi ai compagni. Il 28 aprile, l’aereo con a bordo la nazionale precipita in mare al largo del Gabon. Muoiono in 30: 18 calciatori, 7 membri della Federcalcio e 5 dell’equipaggio. Per Bwalya, è un altro punto cruciale della carriera. La cosa più importante, adesso, è vincere la Coppa d’Africa per ricordare i compagni. C’è poco tempo però e il morale è a terra, dopo che il sogno Mondiale è svanito per un soffio. La Federazione assembla una selezione nazionale nel giro di pochi mesi e va in Tunisia per giocarsi il torneo. Primo turno, quarti, semifinale, finale: per i proiettili di rame è una cavalcata. Di squadra. Sì, perché Bwalya segna solo uno dei 4 gol con i quali viene superato il Mali in semifinale. Sembra tutto scritto. In finale c’è la Nigeria, che va sotto dopo 3 minuti. Ma la Coppa d’Africa va alle Super Aquile, che rimontano con due gol di Amunike: è comunque un miracolo. Due anni dopo, in Sudafrica, lo Zambia arriva terzo.
Dopo il ritiro dal calcio giocato, per Bwalya è quasi naturale il passaggio sulla panchina della nazionale, da commissario tecnico. Qualsiasi cosa, per il suo Paese. Anche rientrare in campo per raddrizzare una partita. Succede nel 2004, sulla strada per il Mondiale tedesco. Contro la Liberia, i proiettili di rame non pungono. Così, al minuto 24 del secondo tempo, fa segno all’attaccante Fichite di accomodarsi in panchina. Il giocatore lo guarda stupito, quando Bwalya ha indosso la sua stessa divisa. A un minuto dalla fine, segna di testa per l’1-0 finale. Non basterà per andare al Mondiale. E dopo l’uscita dal primo turno di Coppa d’Africa, per lui arrivano le dimissioni. Ma non la fine nell’impegno nel calcio. Diventa presidente della Federcalcio dello Zambia ed entra nella Commissione tecnica della Fifa per i Mondiali.
Lo Zambia rende omaggio ai morti del ’93, 3 giorni prima di vincere la Coppa d’Africa (Franck Fife/Afp)
Ma il destino ha in serbo per lui un’ultima sorpresa. Nel 2012, lo Zambia torna a giocare la Coppa d’Africa. E lo fa in Gabon, che con la Guinea Equatoriale organizza il torneo. Sì, è il destino che chiama. Il 12 febbraio, a Libreville, lo Zambia vince la sua prima Coppa d’Africa. Ad alzare la coppa c’è anche Bwalya, da capo della federazione. I giocatori sono in ginocchio, stretti nel cerchio di centrocampo. Solo 3 giorni prima, su una spiaggia di Libreville, lui e la squadra avevano portato i fiori vicino al mare che si era portato via un’intera nazionale.