«A Londra i sogni sono una cosa seria»

«A Londra i sogni sono una cosa seria»

Maurizio Palumbo, 28 anni, è a Londra da otto mesi e se si guarda alle spalle vede un campo minato. È un ingegnere informatico laureato all’Università Federico II di Napoli, con tre anni di esperienza a Bologna nel settore dei trasporti. Non ha lasciato l’Italia in preda alla disperazione, disoccupazione o delusione. Lo ha fatto con un contratto a tempo indeterminato per raggiungere gli alti obiettivi – personali e professionali – che si è dato. «Restlessness» la chiamano gli inglesi. Irrequietezza. E anche per la voglia «di essere io a guidare la mia vita», dice. «Lavoravo per una società di consulenza che avrebbe potuto trasferirmi da un momento all’altro in qualsiasi parte d’Italia». Ma questo non ha reso le cose più facili. «Quando fai una scelta del genere, tutto cambia. E capita anche di passare intere settimane a soffrire», racconta Maurizio, che nella capitale londinese ha imparato sulla propria pelle quanto sia difficile farcela. Perché gli ostacoli da affrontare sono parecchi. I capi britannici non fanno da chioccia e appena arrivati ci si sente un po’ lasciati a se stessi. «Bisogna essere fin da subito autonomi, e rompere poco le scatole». Secondo. Gli inglesi a pranzo non mangiano. «Scendono al supermercato, si comprano un sandwich e lo mangiano davanti al computer. Se cerchi occasioni per inserirti, conoscere i colleghi, capire quali opportunità cogliere, o semplicemente “staccare mezzora dal lavoro”, scordati il pranzo tra colleghi all’italiana. Terzo, e tostissimo. L’inglese. Riuscire a capire i madrelingua britannici, specie durante affollate riunioni di lavoro, non è cosa scontata. E se devi lavorare e raggiungere gli obiettivi che ti vengono dati, le cose possono mettersi molto male. «In Italia non mi è mai capitato di sentirmi dire: “Non ti vogliamo in gruppo perché non sei capace”. Ero uno che faceva la differenza. Qui invece sì. È stato un colpo durissimo, difficile da digerire, anche se sapevo che il vero ostacolo per me erano la lingua e le differenze culturali».

Ma Palumbo non è tipo da stare con le mani in mano, o darsi facilmente per vinto. E mentre racconta tutto questo, i suoi occhi sorridono. A Londra è arrivato grazie a un sito internet aperto per farsi notare nell’ambiente dei trasporti ferroviari, il suo settore di specializzazione, e grazie alla rete di contatti costruita su Linkedin (7000 ad oggi). Grazie a tutto questo, è stato contattato da diversi recruiter europei, compreso quello che lo ha portato a Londra, la scorsa primavera.

Nella City, Maurizio inizia a lavorare per una società di consulenza ferroviaria. È maggio. Quando viene mandato nella sede di Derby, a Nord, per una due giorni di formazione sui valori aziendali, si scontra con lo scoglio dell’inglese. Ha colto solo il 20 % di tutto quello che gli è stato detto. La stessa difficoltà si ripresenta in ufficio quando prova a raggiungere gli obiettivi che l’azienda gli pone: portare nuovi clienti, vendendo i servizi di consulenza. «Ma come faccio a convincere i clienti a comprare una cosa se io non capisco loro e loro non capiscono me?». I primi tre mesi per Maurizio sono un disastro. «L’azienda ti dà un obiettivo economico da raggiungere settimanalmente. Mettiamo diecimila pound. Perché il tuo risultato sia accettabile, devi raggiungere almeno l’80% di quella cifra». Ma Palumbo non mai va oltre il 40 per cento. La difficoltà di relazionarsi con i colleghi complica le cose. «Per farcela qui devi imparare a fare networking, devi sapere a cosa stanno lavorando gli altri e proporti per condividere progetti».

Ai problemi con la lingua si sommano quelli culturali. «Non capisci mai quanto ai tuoi colleghi faccia piacere chiacchierare o no. All’inizio ho iniziato a farmi un sacco di problemi: “Non mi sto integrando, mi odiano tutti”, pensi. Poi capisci che qui sono tutti più riservati. E se ci vai a prendere una birra è solo perché c’è un fine lavorativo. A Londra, nella City, ci sono panchine singole, per una sola persona. “Questa è l’emblema di Londra”, ho detto un giorno a un collega indicandone una. Lui mi ha risposto spiegandomi che quelli che parlano troppo, qui, li chiamano “Babblers”, chiacchieroni, come gli irlandesi».

Passano i mesi e le performance di Maurizio non migliorano. Sempre fermo al 40 per cento. Il «capo dei capi» però capisce che i suoi sono soprattutto problemi di comunicazione, di inserimento, di poca esperienza da venditore. «Una sera, dopo una birra tra colleghi gli ho detto: “I don’t want to fail”. Lui mi ha risposto che se fallivo io falliva anche lui che mi aveva preso. E mi ha detto: Non fallirai». Maurizio è la prima persona presa in azienda dall’estero. Ed è per loro “una caso” da studiare. Il tempo di prova viene esteso a sei mesi. È ottobre, quinto mese dall’inizio, e durante una riunione di lavoro Palumbo riesce a captare che un collega sta lasciando il posto. Qualcuno deve continuare il suo progetto. «Non mi interessava quello cui stava lavorando, ma mi sono offerto comunque per farlo». Alle spalle ha già quattro tentativi falliti di lavoro di gruppo. Il manager però accetta di affidargli il compito. Per farcela, Maurizio lavora anche il sabato e la domenica. A fine mese la sua curva nel diagramma aziendale sale. Ottanta per cento. Obiettivo raggiunto.

«“I sogni sono una cosa seria”, ho letto una volta girovagando su Internet. Ed è vero. Più alzi la mira e più crescono i sacrifici che devi fare. Ma anche i rischi cui vai incontro». E i sogni vanno presi sul serio. Ci si deve preparare per realizzarli. «Prima di partire sapevo che sarebbe stata dura. Anche il mio primo anno a Bologna è stato tosto. Ma sono arrivato con la consapevolezza che è normale. Mi sono preparato leggendo anche qualche libro di psicologia sulle difficoltà di chi espatria. Perché sono molti quelli che non ce la fanno. Quando non riesci a comunicare nella lingua del posto, rischi di chiuderti in te stesso, e sfiori il pericolo di stati depressivi. Non è così semplice. Ma se ti prepari ad affrontare tutto questo, quando provi uno stato di malessere, sai che è frutto del trasferimento, e capisci che prima o poi passerà. E resisti». Dopo otto mesi lodinesi, capitano ancora giornate difficili, racconta Maurizio. «La serenità, quella che ti mette nella condizione di poter dare il meglio di te, deve ancora arrivare. Ma faccio il possibile per trovare piacere in tutto quello che faccio. Perché so che è la felicità che porta il successo, non il contrario. Bisogna cercare felicità e positività ovunque. Cercare il piacere di fare e mettersi in uno stato positivo. Così puoi fare cose buone».

A gennaio Maurizio Palumbo si è licenziato. Grazie alla sua rete di contatti su Linkedin e al suo sito internet, è stato contattato da una grossa azienda londinese che si occupa di trasporti, difesa e aerospazio. «Si chiama Thales, ed è una delle quattro-cinque realtà internazionali di spicco nel mio settore. Nell’azienda di prima facevo il venditore e non ero soddisfatto. Qui invece posso usare al meglio le mie competenze tecniche – noi italiani siamo molto più preparati in questo – e ho un obiettivo che mi aiuta ad essere più positivo. Non devo raggiungere solo risultati economici ma lavoro alla interoperabilità dei treni, applicando gli standard europei che consentono di uniformare i sistemi di comunicazione di tutti i mezzi d’Europa. Faccio qualcosa di buono per il mondo. Se un mio collega francese deve tornare a casa, può viaggiare da Londra a Parigi in sole due ore e mezza, per dire».

Sul suo cartellino personale, in Thales, c’è la bandiera italiana. «Ognuno porta scritto da dove viene. È una realtà internazionale. E finalmente qui si mangia a pranzo, scherza. Ho un gruppetto di colleghi-amici. È incredibile. Io sono l’unico italiano. Ma gli altri sono spagnoli, greci, portoghesi. Ci attraiamo a vicenda, è inevitabile».

Maurizio è sincero. «Non pensavo di arrivare qui in così poco tempo. Quello che in Italia fai in dieci, dodici anni, qui lo puoi fare in otto mesi». Ma la strada da percorrere è ancora lunga. Palumbo lo sa, e sta a testa bassa. C’è ancora tanto lavoro da fare, ma sempre con la consapevolezza che «se anche alla fine non sarò arrivato dove voglio arrivare, sarò soddisfatto comunque. Perché so che ci ho provato, e ho cercato in ogni momento di farcela».  

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