TaccolaBanche popolari, il Pd accetta una riforma dimezzata

Banche popolari, il Pd accetta una riforma dimezzata

«Sulla riforma delle popolari non si torna più indietro. È come per l’euro». Era stato perentorio, in un’intervista all’Avvenire del 6 febbraio, il ministro dell’Economia e Finanze Pier Carlo Padoan. Ma le ipotesi di una modifica sostanziale al decreto sulle popolari sembrano destinate a concretizzarsi: ci sarà tetto al voto per gli azionisti e forse un limite al numero di azioni che ciascun soggetto può possedere. Rimarrà insomma la trasformazione delle prime dieci cooperative bancarie in società per azioni, ma non ci sarà quello scrollone alle «posizioni di privilegio» che era stato previsto. In altri termini: per come si sta configurando la riforma sarà possibile la creazione di un paio di “superpopolari” (o “supernove”, come le ha chiamate un report di Equita di qualche giorno fa) ma saranno molto difficili gli ingressi di fondi o banche straniere. 

L’emendamento è stato proposto dal deputato del Pd Vittorio Gitti, eletto con Scelta Civica. I relatori della legge di conversione del decreto sono i deputati Marco Causi e Luigi Taranto. Causi (Pd) ieri ha chiesto al governo di valutare la possibilità di limitare l’esercizio di voto in assemblea dopo la trasformazione in spa. «È una riforma molto importante, attesa da anni – detto – e ha l’obiettivo di rafforzare il sistema bancario italiano in termini offensivi e non difensivi». 

Ufficialmente dal governo c’è stata solo una posizione di cauta apertura da parte del sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta: «Quando entreremo nel merito della proposta la valuteremo». Ma fonti sentite da Linkiesta fanno sapere che, al di là delle formule di rito, ci sarebbe l’accordo con il governo per appoggiare il tetto del diritto di voto (in una quota non ancora precisata, probabilmente al 3% o al 5%), a cui si potrebbe aggiungere un limite al numero di azioni che si possono possedere. Il testo prevederebbe la possibilità di fare patti di sindacato. Se più soggetti si mettono assieme con quote del 2-3% l’uno, non vale il limite complessivo del 5 per cento (o della soglia che sarà fissata). Del tutto tramontata, invece, l’ipotesi di un voto scaglionato, in cui il peso dei voti diminuisce al crescere del numero di azioni (per esempio, se le prime 1.000 azioni valgono 10 voti, le successive 1.000 ne valgono 5 e così via). Troppo difficile che questo meccanismo sia accettato da Banca d’Italia e Bce. Per il tetto al voto c’è invece un precedente importante, fanno notare le fonti sentite da Linkiesta: quello di Unicredit, che ha un limite al voto per ciascun soggetto del 5 per cento, una formula che ha superato i vagli delle autorità italiane ed europee. «Ovviamente siamo aperti a tutti i suggerimenti migliorativi – aveva detto Padoan a L’Avvenire su possibili modifiche in Parlamento -. L’importante è che i principi fondamentali non siano messi in discussione, non siano stravolti». 

I numeri delle banche popolari in Italia (escluso il circuito Bcc). Fonte: The Boston Consulting Group. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui

Che il tetto al diritto di voto non stravolga il senso del provvedimento è da vedere, dato che il ministro ha insistito sul fatto che le dieci maggiori banche fossero «obbligate a cambiare governance». Ha poi aggiunto: «Sono molto sorpreso di quei commentatori, anche autorevoli, che dicono “così colpite le banche che vanno bene”», per concludere: «Se mi si dimostrerà che sono incompetente, a questo punto me ne andrò immediatamente». Di certo annacquare la riforma delle banche popolari viene incontro alle richieste di mediazione di Assopopolari, l’associazione di categoria delle cooperative bancarie, che nelle scorse settimane ha nominato un team di tre saggi (Angelo Tantazzi, Piergaetano Marchetti, Alberto Quadrio Curzio) per mettere a punto un’autoriforma del settore. Da un punto di vista politico il Pd sceglie di puntellare l’alleanza di governo con Ncd, alla vigilia della prova delle riforme (Italicum e riforma costituzionale del Senato). Il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Maurizio Lupi, era stato tra i più critici della riforma e si era detto «convinto» nei gioni scorsi che alla fine si sarebbe trovato un punto di incontro tra il governo e le banche coinvolte. Lupi ha dato voce a un vasto mondo cattolico che dal varo del decreto aveva fatto sentire le sue proteste (a partire dall’articolo del 18 gennaio di Leonardo Becchetti su Avvenire, “Giù le mani da Bcc e banche popolari”). Lo stesso Ncd aveva ventilato l’ipotesi di lasciarsi le mani libere in Aula. La mossa serve anche a sterilizzare l’opposizione di Stefano Fassina, esponente della minoranza Pd, che, secondo quanto riporta Libero il 7 febbraio, sarebbe stato pronto a presentare un emendamento che ripristinasse il voto capitario per le banche popolari. 

Le fonti sentite da Linkiesta non nascondono che lo scopo ultimo della modifica al decreto sia rendere più difficili le acquisizioni delle banche da parte di soggetti esteri. «Guardate cos’è successo a Cariparma o a Bnl dopo l’acquisizione da parte di gruppi bancari francesi – è il ragionamento – e quanto si sono ridotte le erogazione e la presenza a lungo termine nelle aziende in difficoltà». La modernizzazione della governance e lo sdradicamento di poteri consolidati nella gestione delle cooperative bancarie, continua il ragionamento, sarebbe assicurata dalla trasformazione in Spa e dalla creazione di superpopolari. Nessuno stravolgimento, quindi, rispetto alla linea Padoan. Milano Finanza ha riportato delle manovre per la creazione di almeno due poli bancari, citando una nota di Equita: «Ci sembra uno scenario realistico che secondo noi porterà alla creazione di due poli principali di popolari, Supernove, che ruotano attorno a Ubi Banca  e alla Popolare di Milano /Banco Popolare . La creazione di due Supernove avrebbe un impatto positivo sulla valutazione del settore del 25%»

Ma è vero che le banche popolari abbiano investito di più nell’economia reale (leggi imprese) rispetto alle altre banche? «Se lo hanno fatto, lo hanno fatto male», sottolinea Fabio Bolognini, fondatore della società di consulenza finanziaria Linkerbiz. «Le banche popolari negli anni della crisi hanno avuto due tipi di atteggiamento. C’è chi, come Banco Popolare, ha ristretto il credito. E chi, come Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, ha aumentato il credito, almeno se si considerano le capogruppo e non le altre società del gruppo. Entrambi i tipi di politiche creditizie hanno però portato a grane. Non contesto che abbiano supportato le imprese, ma hanno imbarcato più sofferenze (i crediti non più esigilibili perché legati a debitori insolventi, ndr) degli altri». «Sia Veneto Banca che Banca Popolare di Vicenza – continua – dopo gli asset quality review della Bce sono state costrette (al pari di quasi tutte le altre banche popolari, ndr) ad alzare gli accantonamenti». 

Un quadro elaborato dalla società di revisione e consulenza Pwc mostra chiaramente come il problema sia dell’entità delle sofferenze, sia della copertura meno robusta rispetto agli altri istituti di credito, riguardi soprattutto le banche popolari.

Fonte: Pwc. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui

Un secondo quadro mostra invece quanto le popolari abbiamo dovuto aumentare gli accantonamenti a seguito dell’asset quality review. 

Fonte: Pwc. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui

Quali sarebbero gli effetti sul credito di una trasformazione delle banche popolari in Spa? Per Bolognini perché ci sia un cambiamento sull’erogazione di prestiti non è importante la trasformazione in società per azioni ma la possibilità che le banche possano fare adeguati aumenti di capitale quando è necessario. «Le banche che non sono quotate e non hanno prezzi trasparenti hanno molta difficoltà a fare aumenti di capitale – commenta -. Ci sono istituti che hanno effettuato questi aumenti non collocando le azioni sul mercato, ma scaricandole sui clienti, che sono rimasti “impiombati”: so di casi di clienti che cercano di vendere le azioni da un anno senza successo». 

In questo contesto, continua il consulente finanziario, non è affatto detto che un’acquisizione da parte di una banca straniera peggiori il credito. «La stessa Cariparma – spiega – acquistata da un gruppo francese (Crédit Agricole, ndr), ha mantenuto il ruolo di banca regionale e per quanto mi risulti non ha diminuito le erogazioni e le iniziative sul territorio». «Sono scettico, piuttosto – continua – sul fatto che ci siano dei capitali stranieri che veramente acquistino queste banche, che sono aziende obsolete, piene di persone e di sportelli». Chi potrebbe entrare, aggiunge, sono fondi di investimento con prospettive di tenuta a breve termine. La domanda, tuttavia, è a chi venderebbero una volta che decidessero di uscire: difficilmente alle fondazioni bancarie in crisi di liquidità. 

«Non ci sono motivi – conclude Bolognini – per giustificare un motivo per tenere in piedi l’attuale sistema. Non ci sono prove che le spa non funzionino. Ci sono invece prove che il voto capitario crei problemi, e i casi di gestione poco trasparente di Banca Etruria, Banca Marostica, Banco Popolare prima dell’arrivo dell’attuale amministratore delegato Pier Francesco Saviotti, e della stessa Banca Popolare di Milano lo dimostrano. Se il sistema di voto cambia, entrano aziende con una certa pretesa di trasparenza». 

Secondo Luca Barni, blogger de Linkiesta (“Banchiere di provincia) e direttore della Bcc di Busto Garolfo e Buguggiate, «è un falso problema pensare che l’erogazione del credito cambi in funzione della forma giuridica, cooperativa o spa. A fare la differenza sono le dimensioni: è un dato oggettivo che dall’inizio della crisi il credito si è ridotto di 200 miliardi e di questi 185 sono imputabili ai minori prestiti erogati dalle prime cinque maggiori banche». Per Barni anche l’arrivo di un operatore straniero non va visto come fumo negli occhi: «Quando arriva un gruppo straniero sicuramente vuole un ritorno e questo mi obbliga a essere più efficiente. Non lo vedo male, a meno che chi arrivi cambi la logica del credito: se si passa dal credito alle imprese, più tipico delle banche italiane, agli utili fatti con la finanza, si stravolge un modello e se ne impone un altro che è stato alla base della crisi finanziaria della fine degli anni Duemila». 

Luca Orsini, proprietario della società di investimento One Investments (uno dei soci de Linkiesta, ndr), incoraggia il governo a tirare dritto. «La riforma delle banche popolari è la cosa migliore che ha fatto il governo Renzi» commenta. «Uno dei capisaldi della democrazia aziendale deriva dal fatto che chi mette i soldi debba avere potere in misura proporzionale ai soldi che ha messo – continua -. Le banche  possedute da una serie di famiglie sono gestite in maniera più efficiente. In altre banche non c’è un rapporto diretto tra management e capitale, come in tutte le popolari, anche quelle strutturalmente sane. Il fatto di stare sul territorio e prestare soldi non loro fa sì che diano credito molto peggio rispetto a quelle che prestano i soldi propri, come dimostrano i dati su sofferenze e accantonamenti». Una critica che si estende al voto maggiorato previsto dal decreto Competitività del giugno 2014: «Se l’intento del legislatore è di permettere la continuazione di aziende familiari dando un peso maggiore a chi era già presente, è un intento nefasto. Questa è una totale distorsione, vogliono tornare indietro al capitalismo di relazione: ovvero, dare potere a una classe dirigente che ha fallito platealmente. Basta vedere quante grandi aziende sono state distrutte e quante, pochissime, sono state create negli ultimi anni. L’aumento del peso di chi ha pochi soldi – conclude – è l’immagine del fallimento del capitalismo all’italiana».

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