Pizza ConnectionCon le equazioni si vincono le guerre

Con le equazioni si vincono le guerre

Breve storia del “War Game” tra guerra e matematica

Cosa c’entra la guerra con la matematica? Procedendo con una osservazione superficiale si potrebbe dire niente. Eppure basta una partita al famoso gioco da tavolo Risiko! per rendersi conto che le cose non stanno così. Per conquistare la Kamchatka infatti si contano le armate, si sceglie di agire con attacchi più o meno numerosi e si gettano dei dadi. Guerra, strategia e matematica, tutto insieme. Per quanto Risiko! sia un gioco, questi elementi vanno a braccetto anche sul campo di battaglia che dall’antichità a oggi è diventato sempre più complesso e sfumato.

Proprio per la complessità dei fattori che incidono sulle guerre moderne i matematici tramite modelli e war games, che i militari siano d’accordo o meno, sono diventati una presenza indispensabile.

Da monito l’inizio della disfatta dell’impero zarista: la battaglia di Tannenberg del 1914. Il generale Samsonov ignora completamente un wargame che aveva previsto i tempi per l’incontro tra la prima e la seconda armata delle truppe russe per sferrare l’attacco alle linee tedesche. Samsonov e i suoi superiori ignorarono le previsione di quella “simulazione” dando inizio al disfacimento dell’esercito zarista. Eppure proprio la loro applicazione si diffuse nel corso della guerra franco-prussiana a cavallo tra il 1870 e il 1871.

Welles War Game: fonte Simulation and Modeling of Systems of Systems

«L’impiego sistematico dei wargames – spiega a Linkiesta il matematico Lamberto Aliberti, già Ceo della Maspa Italia, società leader nella system dynamics e autore anche di war games – si fa risalire al 1811, ad opera del Consigliere militare prussiano von Reisswitz, con un’opera in cui descrive un gioco detto Kriegsspiel, cioè Wargame, in verità inventato dal padre. Oltre al nome, il suo apporto è l’averlo indirizzato “alla rappresentazione di manovre tattiche”, cioè al campo militare, mentre per il padre era solo un gioco e nient’altro. Kriegsspiel usava una specifica scala per il campo da gioco (1:2373) e una tavola di sabbia anziché una carta geografica e, per le regole, faceva appello a un arbitro. I militari l’accolsero con un entusiasmo mai più riservato a strumenti del genere. Nel 1824 un generale dichiarava: “Non è un gioco! E’ la formazione alla guerra!”.

L’impiego sistematico dei wargames si fa risalire al 1811

Insomma, la matematica ci vuole, come si domanda Aliberti «si può fare una guerra senza strategia, cioè senza un’analisi delle forze nemiche, dei loro punti di forza e debolezza? Arrivare, nel migliore dei casi, a immaginarsi le mosse loro e le nostre? Siccome la strategia dovrà essere applicata, possiamo prescindere di vararla, senza un minimo di dimostrazione? Questo porta alla necessità della logica prima e della matematica poi».

Intervista al matematico

Nel corso del secondo conflitto mondiale arriva la matematica, e gli investimenti nello studio di war games sempre più raffinati

«La storia registra numerosi successi dei wargames durante la seconda guerra mondiale, ma forse nessuno è stato più impressionante della vittoria navale americana sul Giappone. Il comandante del Pacifico, ammiraglio Chester W. Nimitz, si espresse così in una classe del Naval War College nel 1960: “la guerra col Giappone è stata ricreata in anticipo, in aule come questa, da così tante persone e in tanti modi diversi, che nella guerra vera non è successo niente che sia stata una sorpresa – assolutamente nulla, tranne i kamikaze verso la fine”. Un bellissimo modo di descrivere il vero portato dei modelli, e non solo quelli militari: far emergere le oscurità e complessità di un sistema reale, in tutti i loro dettagli, così quando si passa dagli studi all’azione, ogni accadimento, ogni mossa del nemico o del competitor, in economia, abbia una risposta tempestiva ed efficace.
Da quel momento i wargames militari hanno seguito i progressi della tecnologia. I nuovi prodotti sono i simulatori di pilotaggio, bombardamenti compresi, sistemi strategici informatizzati, pronti all’uso. Sono utilizzati in tutto il mondo dalle forze armate dei paesi più avanzati. Gli Stati Uniti continuano ad essere all’avanguardia».

Non tutti i war games sono perfetti però

«Certo, sconfitte, come nella guerra del Vietnam, hanno dimostrato che i wargames non sono perfetti. E come possono esserlo? Specie se si trascura il fattore politico-sociale, come è avvenuto, forse volutamente, in quel caso. E peggio si è fatto nella guerra d’Iraq, voluta da Bush, ignorando nel modo più crasso, giusto per fare un esempio, la divisione del paese in tre etnie, ferocemente rivali. Se non altro però lo scacco ha mosso una riflessione in tal senso, oggi più viva che mai, quando la guerra da scontro sul terreno fra entità omogenee è diventata marcatamente asimmetrica. Tanto che ora, negli ambienti più avanzati, fra i modellisti, non si parla più di wargame ma di political-warsimulation, richiamandosi del resto a quel Clausevitz, che descriveva la guerra come continuazione della politica, in altre forme».

Come si integrano con i moderni scenari di guerra, anche cibernetica?

«Per quanto riguarda i conflitti di oggi, aggiungo alle osservazioni precedenti una notizia dello scorso dicembre, uscita sul Financial Times e ripresa dai mass media di tutto il mondo. Il titolo: “Nato holds largest cyber war games”. Il racconto: nei boschi di betulle, che circondano la città estone di Tartu, a 50 km dal confine con la Russia, la Nato si sta preparando per la guerra cibernetica.
Da questo avamposto del Baltico, l’alleanza ha condotto il più grande gioco di guerra digitale al mondo. La sicurezza era così stretta che l’esercitazione non è stata rivelata, se non dopo che era iniziata, per paura di un’intrusione di hackers. Vi hanno partecipato più di 670 soldati e civili, 80 organizzazioni, di 28 paesi, una dimensione maggiore del doppio di qualsiasi precedente cyberwar. Lo sforzo è stato reso necessario da palesi debolezze delle reti informatiche NATO, che devono affrontare più di 200 attacchi di hackers  al giorno, 100 dei quali sono soltanto e-mails di spam, degli altri ben 30 risultano essere altamente sofisticati tentativi di cyber-spionaggio. L’articolo ci dà il destro di una sottolineatura: si tende ad utilizzare il termine wargame, sia per lo strumento, sia per il suo impiego. È chiaro che i signori della NATO non si sono trovati fra le betulle per manovrare un computer, ma si sono divisi i ruoli, hanno preso atto di una serie di attacchi, hanno dato le loro risposte, probabilmente ognuno le sue. Questa per noi è un’esercitazione o un’applicazione. Gli attacchi, realistici, ma finti, erano  prodotti da un supercomputer, ubicato chissàdove, con un modello a produrli e a ricevere le risposte, mostrandone le conseguenze (grado di successo o insuccesso). E per noi wargame è il modello. Che poi per impiegarlo i 670 soldati abbiano dovuto soggiornare tra le betulle, in Estonia, col freddo di dicembre, è un mistero».

«Dei wargames avanzati potrebbero far molto bene alla salute di questo nostro malmesso pianeta. Intanto far cessare le guerre, che si sa destinate alla sconfitta. E già questa è una grandissima cosa. Poi far subentrare una riflessione profonda e quantificata, sui danni che una guerra fa sempre anche a chi vince»

Ci sono esempi di war games che hanno prodotto strategie fallimentari sul campo?

«Non mi risulta che qualche generale abbia fatto in pubblico una simile accusa. Eppure i rapporti militari-scienziati non sono normalmente idilliaci. Quindi ne devo dedurre che non se ne è mai avuta l’occasione. È storia invece che succeda spesso l’inverso: fallimenti sul campo, che si verificano quando i risultati di un wargame vengono ignorati, non quando sono presi sul serio. L’esempio di prima della sconfitta russa di Tannenberg ne è un esempio importante. Il mondo avrebbe potuto essere diverso. Ricordiamoci che in quella battaglia ci sono i germi del disfacimento dell’esercito zarista, che ha aperto la strada alla Rivoluzione».

Qualcuno ha imparato la lezione?

«Gli americani almeno ci provano. Il pantano del Vietnam, dipendente in larga misura dall’aver sottovalutato, nei wargames prima, inevitabilmente nella realtà poi, i lineamenti sociali del paese, ha prodotto, almeno fra gli addetti ai lavori, una forte spinta a varare strumenti sì di guerra, ma con enfasi sulla società, e che evitassero inoltre conclusioni perentorie. Sembrava si portassero insomma sul nostro terreno. Intanto però c’è stato l’avvento dei Big Data, che stanno entrando profondamente in campo militare, dopo quello aziendale. È perciò difficile giudicare gli ultimi orientamenti. Perché dei wargames avanzati potrebbero far molto bene alla salute di questo nostro malmesso pianeta. Intanto far cessare le guerre, che si sa destinate alla sconfitta. E già questa è una grandissima cosa. Poi far subentrare una riflessione profonda e quantificata, sui danni che una guerra fa sempre anche a chi vince. Alcune mosse recenti di Obama fanno però pensar male. Gli altri come sempre si accoderanno».

Fonte: Simulation and Modeling of Systems of Systems

Siamo infatti in un periodo in cui le cronache sono occupate dalla minaccia del terrorismo, Lei ci lavorò in passato

«Dopo l’11 settembre 2001. Mi colpì il caos generale e la paura, mai riscontrata prima, anche da parte di chi doveva reagire. Politici, generali, poliziotti. E Bush, che nei giorni successivi blaterava continuamente, ormai spenta quella scintilla d’intelligenza, se mai l’aveva avuta. Il mondo aveva sterzato. Come farvi fronte? Nasce il Modello Terrorismo, da cui si discostano quasi tutti i miei collaboratori. Perché un modello? Perché è l’unico mezzo per rappresentare la complessità del problema, fatta da una rete di relazioni causa-effetto, in retroazione l’una con l’altra. La prima release si chiama BBwar (Bush-Bin Laden war). Da un lato un paese ferito, che vuole che non accada più, nonché punire i colpevoli. I suoi mezzi:

• Guerra; ma contro chi? Bush farà presto a toglierci ogni dubbio;

• Polizia; ma dov’è l’intelligence?

• Sanzioni politiche; a carico di chi?

• Stretta finanziaria; strozzare le fonti, ma prima dobbiamo trovarle;

• Aiuti umanitari; a chi?

Di ogni fattore Bush dovrà dosare con accuratezza intensità ed estensione, scontrandosi con una serie di feedback, tra cui, salvo gli aiuti, il rischio che le conseguenze peggiorino, anziché migliorare la situazione. Pensiamo ai bombardamenti. Vogliono stanare Bin Laden, ma le vittime e i danni collaterali sono a profusione. Che la gente si arrabbi con gli US è il minimo. Che molti vadano ad affollare le file di Al Qaeda è garantito.

Quanto a Bin Laden ha tutti i complessi problemi di un’azienda, senza una sede, anzi alla macchia. Finanza, organizzazione, pianificazione, reclutamento e addestramento».

«Perché un modello? Perché è l’unico mezzo per rappresentare la complessità del problema, fatta da una rete di relazioni causa-effetto»

E che fine fece questo modello?

«In ottobre parte la guerra in Afghanistan e il modello rivela le sue utilità, anche se nessuno dei veri clienti, la politica in primis, si fa vivo. Sollecito un grande quotidiano, ma sbaglio persona.  C’è un direttore, che in passato, altrove, era entrato in conflitto con noi. Le nostre soddisfazioni le abbiamo gestendo il modello, come political game, alla Statale di Milano. E decidiamo di ampliare il progetto. Incontriamo i rappresentanti di un’istituzione, non politica, un servizio dello Stato italiano. Ci accordiamo per sviluppare il modello nella direttrice where: dove sarà il prossimo attacco? L’11 marzo 2004, a Madrid, stazione di Atocha avviene l’attentato terroristico più violento della storia d’Europa: 10 esplosioni in 4 treni diversi provocarono 191 morti e 2000 feriti. Il modello l’aveva previsto. E funzionerà ancora, un anno dopo, anche se in modo temporalmente meno preciso, per gli attentati del 7 luglio 2005 a Londra, che colpirono il sistema di trasporti pubblici della capitale britannica durante l’ora di punta, mentre molte persone si recavano al lavoro. Avevamo convinto il nostro potenziale committente. Cominciò la stesura del contratto, l’organizzazione dei gruppi di lavoro, nostro e loro, il calendario delle attività preliminari di formazione».

E poi?

«Ricordo nitidamente il nostro ultimo incontro. Eravamo nei nostri uffici di Milano. Si stava concludendo la solita crisi di governo. Il nostro committente si accingeva a rientrare a Roma. Praticamente sulla porta mi disse: “se il Tale diventa primo ministro, mi sbatteranno all’estero nel giro di 24 ore”. Il Tale lo divenne. Non ci siamo più visti e il progetto naturalmente accantonato, senza una parola. Confesso che mi indispettii a morte. E mi sono lasciato alle spalle terrorismo e wargames. Ora sono pentito. Con le cose che stanno accadendo ho già deciso di riprendere il modello, non importa se mi costerà tempo e fatica, che mi potevo benissimo risparmiare».

Dovesse pensare all’avanzata dello Stato Islamico oggi?

Il punto centrale è l’esistenza di una Stato, l’ISIS, e altri in fase di sboccio. Al-Qaeda non contemplava lo stato. Ma moltissimi altri aspetti non sono strutturalmente diversi da allora: i kamikaze, la stupefacente coincidenza di alta tecnologia (vedi per ISIS i filmati delle esecuzioni; per Al-Qaeda,attacco alle Torri Gemelle), con un’ideologia medioevale e i finanziamenti surrettizi da paesi amici dell’Occidente. Il dilemma sta proprio nel capire se riprendere in mano quel modello di cui abbiamo parlato poco fa, oppure crearne uno completamente nuovo. Tra poco con un gruppo di lavoro usciremo da questo guado e faremo delle proposte.

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