Funziona così, a voler essere estremamente sintetici il progetto di Pietro Aliprandi, laureando in medicina, aspirante dottore e soprattutto aspirante colono di Marte il cui obiettivo vero, più ancora che indossare il camice, è quello di indossare una tuta spaziale e, nel 2024, lasciare la Terra per non farvi mai più ritorno diventando uno dei primi ventiquattro residenti di Marte.
A portarlo, forse, sul pianeta rosso, sarà il discusso, avveniristico e forse persino improbabile, progetto olandese Mars One: 24 coloni che, verosimilmente nel 2024, partiranno per il pianeta rosso per dare il via alla prima colonia umana extraterrestre e costruirvi le strutture che lo rendano abitabile senza che per loro sia previsto un viaggio di ritorno.
Pietro, che solo due giorni fa ha fatto l’ultimo esame di medicina, è oggi, tra i 100 ”finalisti“ delle selezioni partite circa 2 anni fa in tutto il mondo per trovare i nuovi pionieri dell’umanità. All’appello di Mars One avevano risposto, in prima botta, più di 202mila persone che lo staff del progetto si è preso la briga di selezionare fino ad arrivare a 100 per cui si inizierà la prima fase di addestramento, preparazione e test, fino ad arrivare a 60, poi a 48 e poi a 24. Il tutto in diretta mondiale e, nelle ultime fasi, con tanto di televoto per scegliere chi potrà essere il nuovo Adamo su Marte.
Scusa Pietro, ma secondo te cosa ha fatto si che su 202 mila alla fine scegliessero te e altri 99 per questo secondo stadio di sezioni?
Non lo so sinceramente. Forse ha aiutato il fatto che sto studiando medicina e un medico su Marte può servire. Ma non sono certo si tratti solo di questo: penso che il punto fondamentale sia un altro e cioè che io a questa cosa ci credo tantissimo. Non voglio dire che altri ci credessero o credano meno, però penso che una buona parte di quei 202 mila avesse compilato il form un po’ a tempo perso. Io, invece, non vedo l’ora di partire.
No, aspetta: come non vedi l’ora? Ma lo sai che poi non torni più? Ma proprio più, nemmeno a Natale?
Sì sì, chiarissimo. Ma non è un problema.
Sicuro?
Sì, sicuro.
E i tuoi cosa dicono? Le persone che lascerai qui sulla Terra a (non) aspettarti mentre tu te ne vai a zonzo per lo spazio cosa dicono?
Dipende: la mia ragazza che di questa cosa non vuole nemmeno sentir parlare: invece i miei genitori e la mia famiglia sono molto orgogliosi di quello che sto cercando di fare e di quello che potrei, forse, riuscire a fare davvero. E poi mica sparisco: i rapporti ci saranno sempre, anche se non potranno esser sin presenza.
Qual è la posta in gioca per cui rinunci alla vita sulla Terra?
La risposta è un po’ complessa, comunque, grosso modo le cose in ballo sono due: uno che, anche se alla fine ho fatto medicina e non ingegneria aerospaziale, ho sempre voluto esplorare lo spazio, capire, vedere, trovare quello che c’è al di là del nostro pianeta e di quello che possiamo vedere a occhio nudo; e, due, che secondo me il piano va ribaltato, concentrandosi non tanto su quello che lascio ma su quello che andrò a trovare: vorrei che si pensasse a me non come un esule, quanto come un ambasciatore, un latore di quello che è l’umanità.
Eppure così lo tagliate l’ultimo filo che vi tiene legati all’umanità: diventate tutto futuro e niente passato.
Sì. Anche per questo la cosa è interessante: perché alla fine nessuno di noi sa davvero come reagirà alla lontananza dalla Terra, nessuno ha idea di quanto psicologicamente e moralmente e fisicamente sarà duro. Alla fine, forse, come e forse più del viaggio e della colonia, il vero esperimento siamo noi.
A Matt Damon, in Interstellar, alla fine l’esperimento non era andato a genio…
Sì, ma lui era da solo. Ci credo che è andato via di testa. Noi saremo in ventiquattro.
Come direbbero funzionare le cose una volta lì?
I coloni, che saranno in tutto 24, dodici uomini e dodici donne, dovranno ricreare le condizioni adatte alla vita umana su un pianeta che adatto alla vita umana non è: dovremo costruire gli edifici pressurizzati che possano farci da case, da laboratori, da serre. Dovremo poi trovare, sul pianeta, il resto del materiale che ci servirà per ampliare sempre più questi edifici fino a a creare entro i prossimi decenni o al massimo entro un secolo strutture tanto grandi da permettere l’esistenza di piccole città funzionanti.
Ok, tutto molto nobile, bello e avveniristico. Ma perché per fare questo c’è bisogno di non tornare mai più?
Quello non dipende da me, ma da una questione di costi. Mi spiego: la tecnologia per mandare cose su Marte, c’è e funziona da decenni, così come pure la tecnologia per far viaggiare per lungo tempo le persone nello spazio profondo. Quello che manca sono le risorse tecnologiche per farli tornare in dietro. Mars One, se tutto andrà come deve, avrà un costo relativamente contenuto: circa 6 miliardi di dollari. Ma occorre tenere presente che si tratta di un progetto privato che non ha le risorse cui possono attingere la Nasa o la Esa che invece, per parte loro stanno lavorando a un modo per avere un viaggio di andata e uno di ritorno.
Quindi non è escluso che a un certo punto qualcuno venga a prendervi?
Ma forse, prima o poi, chissà. Come dicevo so che ci sono degli studi in merito, ma secondo me non è questo il punto. Davvero non credo che questa storia del ritorno sia poi così importate nel bilancio finale: forse andare su Marte e scrivere le prime parole di una nuova pagina della storia dell’uomo vale il sacrificio. E poi non è nemmeno detto che sia un sacrificio, alla fine. Anzi. Forse se dopo vent’anni che son lì arrivassero due navicelle, una che torna sulla Terra e l’altra che se ne va a cercare un altro pianeta, io, ad oggi, sceglierei la seconda.