Per passare dall’ottimismo al nervosismo sono bastate alcune ore. La galassia di associazioni di consumatori, ma anche politici e produttori che stanno spingendo per reintrodurre l’obbligo di indicazione dello stabilimento di produzione sulle etichette dei prodotti alimentari aveva accolto molto positivamente l’incontro al ministero dello Sviluppo economico tra il governo e le associazioni di categoria.
Il comunicato dello Sviluppo economico aveva contribuito ad alimentare l’ottimismo su una reintroduzione dell’obbligo di indicare il luogo in cui si producono i prodotti, previsto in Italia dal 1992 e decaduto con l’introduzione, lo scorso 13 dicembre, del nuovo regolamento europeo sull’informazione dei consumatori, il 1169/2011: «I partecipanti all’unanimità – comunicava il Mise – hanno confermato l’importanza dell’indicazione della sede dello stabilimento di produzione nell’etichetta e hanno condiviso l’opportunità di verificare presso l’Unione europea un percorso in grado di assicurare la sua obbligatorietà anche a livello nazionale in un quadro di certezza e stabilità giuridica per le imprese». I partecipanti sono stati i tecnici dei ministeri di Politiche agricole, Salute e Politiche europee e i rappresentanti di Federalimentare, Federdistribuzione, Confapi, Coldiretti, Confagricoltura e Copagri.
Con il passare dei giorni le associazioni di consumatori e i siti di informazione che stanno seguendo più da vicino la vicenda, con petizioni al riguardo – Io Leggo l’Etichetta da una parte, con oltre 20mila adesioni, Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade dall’altra – hanno cominciato a esprimere le loro preoccupazioni, con Il Fatto Alimentare che arriva a parlare di “fumata nera”. Ad alimentarle ci sono state le dichiarazioni di Paolo Patruno, responsabile degli affari europei di Federalimentare, la federazione di Confindustria che rappresenta 16 associazioni di produttori alimentari. «Possiamo anche giocare con le parole – ha detto Patruno a Emanuele Scarci del Sole 24 Ore – ma la sostanza è che non siamo d’accordo se il Governo volesse reintrodurre l’obbligo in etichetta solo in Italia: non è lo strumento per tutelare il Made in Italy agroalimentare e i consumatori. La competizione tra le imprese italiane ed estere non avverrebbe ad armi pari: sosteniamo quindi fermamente che la soluzione sia quella di sollecitare l’Ue a rendere applicabile l’obbligo a tutti i 28 Stati membri e di spostare il dibattito in sede europea».
In attesa di capire come effettivamente si muoverà il governo, l’idea di un percorso europeo che passi dal convincere i tedeschi e i governi del nord Europa, da sempre contrari all’obbligo di indicazione dello stabilimento di produzione sulle etichette dei prodotti alimentari, preoccupa i consumatori perché potrebbe richiedere anni. «È necessario prima fare una legge italiana e poi andare in Europa a convincere gli altri Stati – dice Raffaele Brogna, fondatore del sito Ioleggoletichetta.it -. Il nuovo regolamento ci consente da subito di essere autonomi. Non avessimo un appiglio legislativo potrei capire la prudenza, ma c’è».
Il riferimento è all’articolo 39.1 del regolamento 1169/2011, che prevede che gli Stati membri possano introdurre obblighi aggiuntivi, ma solo per categorie specifiche di alimenti e purché giustificati dalla protezione della salute pubblica, dalla prevenzione delle frodi e contro la concorrenza sleale. Si tratterebbe di fare liste di alimenti per i quali viene reintrodotto l’obbligo di indicazione dello stabilimento. In questo modo, per i sostenitori della reintroduzione immediata dell’obbligo, si supererebbe un ostacolo dato da un altro articolo dello stesso regolamento, il 38, che che dispone il divieto, da parte degli Stati membri, sia di adottare, sia di mantenere norme nazionali in contrasto con le materie armonizzate dal regolamento stesso.
A dare man forte alle associazioni ci sono le dichiarazioni di Paolo De Castro, ex ministro dell’Agricoltura e coordinatore dei socialisti e democratici (S&D) nella commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo.
Il nuovo regolamento, ha detto in un’intervista pubblicata da Retailwatch.it, «non contiene l’obbligo di indicazione della sede dello stabilimento, come non lo conteneva il regolamento precedente. La norma che stabilisce l’obbligo di indicazione dello stabilimento è una norma nazionale. Così come la facemmo allora, così il governo si sta apprestando a fare. Proprio qualche giorno fa Martina, assieme col ministro Guidi e Lorenzin, hanno inviato la richiesta a Bruxelles. Così come Bruxelles ci autorizzò allora, ci autorizzerà anche oggi. Ma non scarichiamo la responsabilità sull’Europa, perché è una norma nazionale, che noi abbiamo preteso, l’avevamo prima e la potremo avere anche dopo».
Sentito da Linkiesta, Rolando Manfredini, responsabile della sicurezza alimentare di Coldiretti, che ha partecipato all’incontro al Mise, ribadisce la volontà dell’associazione degli agricoltori a introdurre subito l’obbligo di indicazione dello stabilimento di produzione sull’etichetta, vista come «un’informazione essenziale per rendere meno opaca la tracciabilità del prodotto e per evitare una delocalizzazione della trasformazione, perché il responsabile dell’informazione potrebbe essere italiano e lo stabilimento in un altro Paese, senza che si sappia. La sede dello stabilimento va legata anche all’indicazione sull’origine degli alimenti». Manfredini conferma che non è stato chiarito quale percorso legislativo sarà seguito. «Il ministero dello Sviluppo economico farà delle verifiche a livello europeo, mentre noi propendevamo per una soluzione tempestiva, ribadendo quello che esisteva già prima nella legislazione italiana».
Il deputato del Movimento 5 Stelle Paolo Parentela, autore con alcuni colleghi di varie interpellanze, mozioni e “mail bombing” sull’argomento, rincara la dose: «Siamo rimasti male. Ci saremmo aspettati che dalla riunione al ministero dello Sviluppo economico uscisse una decisione chiara sulle etichette. Sono contento che il governo abbia dimostrato l’intenzione di mettere le cose a posto e sono d’accordo che bisogna anche convincere l’Unione europea ad avere una strategia condivisa. Ma il governo avrebbe potuto intevenire in Europa durante la presidenza del semestre europeo. Ora si può introdurre una legge che già c’era, basta che il governo facesse copia e incolla di una nostra proposta di legge».
Anche tra gli industriali che più si sono battuti per la difesa del Made in Italy c’è perplessità sull’attendismo del governo. Mario Gasbarrino, amministratore delegato di Unes / U2 Supermercati, parla di «decisione democristiana, che vuole dare un contentino a tutti» e aggiunge: «Se si decide che prima bisogna cambiare la legislazione europea, potrebbero passare anni». Vito Gulli, presidente di Generale Conserve, propone di dare al governo un limite di dei mesi. «Capisco – dice a Linkiesta – che i politici abbiano preferito prima puntare al bersaglio grosso, cioè l’Europa, ma assicurando che se in Europa non si ottengono risultati la legge si farà comunque in Italia. È chiaro che il ragionamento ha un senso se si dà un limite temporaneo, di sei mesi e non di anni». «Sono convinto – conclude – che non tradiranno il loro impegno, perché non possono tradire una cosa così grande. Sono coscienti che gli italiani tramuterebbero in minori voti la mancata difesa del Made in Italy».