L’accordo che sarebbe stato raggiunto tra Google e il fisco italiano ha fatto tornare d’attualità il tema dei ricavi delle grandi multinazionali del web e il modo con cui questi debbano essere tassati nei vari paesi in cui operano. Sullo sfondo, l’infinito dibattito sulla cosiddetta web tax e uno scontro in corso da anni tra i grandi gruppi editoriali da una parte e Google (ma anche Facebook) dall’altra. E il governo che, nel frattempo, sembra proseguire per la sua strada.
Mercoledì 25 febbraio il Corriere della Sera ha dato la notizia di un accordo raggiunto tra Google e il fisco italiano. Dopo un accertamento fiscale della Guardia di Finanza di Milano – dove Google ha la sua sede italiana – e l’apertura di un’indagine da parte della procura lombarda, ha scritto Luigi Ferrarella, la multinazionale ha accettato di pagare una cifra stimata in 320 milioni di euro per un imponibile intorno agli 800 milioni negli anni 2008-2013.
L’accordo è stato smentito da Google e dalla stessa procura, ma il Corriere ha precisato che la formalizzazione avverrà solo la prossima settimana.
La questione va avanti da tempo ed è al centro di un dibattito molto acceso sui meccanismi che Google mette in atto sui profitti provenienti dalle società italiane. Un complesso sistema che si basa sul fatto che la sede europea di Google è in Irlanda – il cosiddetto Double Irish – fa sì che la stragrande maggioranza dei soldi pagati da aziende italiane non sia tassata in Italia ma in paesi con un regime fiscale molto più vantaggioso.
Finora, il principio su cui si basa la legge italiana, e non solo, è quello che le aziende paghino le tasse nel paese in cui hanno la loro «stabile organizzazione». D’altra parte, i trattati internazionali impediscono la cosiddetta «doppia imposizione», cioè che sulle stesse cifre le tasse vengano pagate due volte. Il principio, vecchio di decenni, è messo in discussione dai colossi del web, che non hanno bisogno di grandi stabilimenti e spesso neppure di organizzazioni complesse in tutti i paesi in cui operano.
Si parla da tempo di una “Google tax” o “web tax” che, nelle intenzioni degli estensori, permetterebbe al fisco italiano di riscuotere le tasse sui guadagni che vengono dalla pubblicità venduta in Italia.
Novità in arrivo?
L’accordo annunciato dal Corriere potrebbe essere il preludio ad altre novità importanti per le multinazionali che operano sul web (Google, ma anche Amazon e Facebook).
Una nuova proposta di legge sulla web tax è stata presentata dal senatore Pd Massimo Mucchetti
Certo, non è la prima volta che quei cambiamenti sembrano imminenti. La “Google Tax” è da sempre una battaglia di Francesco Boccia, deputato del Pd e presidente della commissione Bilancio della Camera. Una prima versione della tassa venne inserita nella legge di Stabilità approvata a fine 2013, ma la sua entrata in vigore venne rimandata al luglio 2014 dal governo Letta e poi eliminata del tutto da Renzi, che da subito si era dichiarato contrario al provvedimento.
E ora? Una nuova proposta di legge sul tema è stata presentata dal senatore Pd Massimo Mucchetti, che propone di imporre a banche e gestori di carte di credito una tassa del 26 per cento su «pagamenti verso l’estero per beni e servizi dematerializzati». Google e le altre dovrebbero scegliere se accettare questa tassazione o trasferire anche in Italia una «stabile organizzazione».
Tra i grandi sostenitori della web tax ci sono i grandi gruppi editoriali italiani, come il gruppo Espresso e Mediaset. De Benedetti e Fedele Confalonieri si trovano uniti nel fronte che accusa Google e le altre di concorrenza sleale: «Si presentano come aziende tecnologiche, ma in realtà raccolgono pubblicità», ha detto De Benedetti parlando a un convegno a Montecitorio a giugno scorso.
Il governo sembra andare avanti per la sua strada, che non coincide con quella degli editori. Due provvedimenti del governo in arrivo avranno conseguenze anche per le multinazionali dell’online, anche se non si rivolgono direttamente a loro. Fanno parte delle nuove norme in materia fiscale, di cui si è parlato soprattutto per la soglia del tre per cento del fatturato per le frodi.
Il primo è la nuova norma sulla depenalizzazione del cosiddetto “abuso del diritto”, cioè il ricorso a pratiche formalmente corrette ma che permettono un vantaggio indebito. Da un lato, il decreto fiscale dovrebbe togliere rilevanza penale all’abuso, ma dall’altro ci sarà una nuova e più stringente definizione di che cosa sia l’abuso stesso.
Il secondo provvedimento riguarda il cosiddetto ruling internazionale, annunciato a metà febbraio da Renzi alla direzione nazionale del Pd: è la possibilità per le multinazionali di stringere accordi con l’amministrazione fiscale. Secondo Renzi, assicurerà norme certe alle imprese e attrarrà in Italia nuovi investimenti. Ma molti hanno aggiunto che ridurrà i margini di manovra per le società che riescono a portar fuori dall’Italia gran parte dei propri profitti.
I motivi dell’accordo
Perché Google è sceso a patti col fisco, allora, senza aspettare come cambierà il quadro con le nuove regole? La prima risposta è che la multinazionale potrebbe aver deciso di risolvere una volta per tutte la questione degli accertamenti che vanno avanti già da anni sui suoi conti.
«Devo ritenere – dice Tommaso Di Tanno, docente, editorialista e tra i maggiori avvocati tributaristi italiani, vicino al Partito Democratico e a Vincenzo Visco – che da parte di Google ci siano state considerazioni plurime: quella della riscossione anticipata in caso di contenzioso, per cui pagare diventa più conveniente che restare sospesi 7-8 anni (tanto ci vuole per arrivare in Cassazione) e l’entrata in vigore della norma sull’abuso di diritto, che rende meglio applicabile la normativa che già c’era».
La posizione di Google è che il confronto deve avvenire a livello sovranazionale
Oltre a questo, potrebbero entrare in gioco considerazioni di immagine. «Certo è che Google la coscienza sporca ce l’ha», aggiunge Di Tanno, e che negli ultimi anni le multinazionali del web sono sotto la lente in parecchi paesi. «Il clima nei confronti di questi operatori è nettamente peggiorato dappertutto. Tutti i paesi vedono che queste imprese sono oggi tra le più profittevoli. Tutte le amministrazioni fiscali vedono che sottraggono base imponibile e la portano in paesi a bassa fiscalità».
I risultati di questa offensiva a dei singoli paesi, a dire il vero, sono stati finora piuttosto incerti e discordanti. In Spagna, una nuova legge sul diritto d’autore, fortemente voluta dagli editori, ha introdotto a fine ottobre 2014 una tassa per i link degli aggregatori di notizie (da cui il soprannome di “link tax”). Google ha risposto chiudendo Google News, e nelle settimane successive gli editori hanno fatto marcia indietro. Una vicenda simile si è verificata in Germania.
La multinazionale-nazione
La posizione di Google è che il confronto deve avvenire a livello sovranazionale. Lo ha chiarito fin dal giugno 2013 il presidente di Google in persona, Eric Schmidt, in un editoriale sul Financial Times: le regole fiscali possono cambiare, ma finché non ci sarà una discussione a livello internazionale cambierà poco. Di un «quadro di normativa europea» ha parlato anche Renzi, quando la prima Google Tax italiana è naufragata un anno fa.
Quando la discussione c’è stata, Google si è fatta trovare pronta. «Google è tra le poche multinazionali che si sono sedute subito a un tavolo dell’Ocse – dice Guido Scorza, avvocato e presidente dell’Istituto per le politiche dell’innovazione – non è attendista ma interventista, come dimostra anche il caso del diritto all’oblio». Il giorno dopo la sentenza della Corte europea, Google ha cominciato a implementare la decisione.
In questo senso, spiega Scorza, Google «si sente una nazione» e può «diventare il vero interlocutore degli Stati nel discutere casi che non riguardano solo lei». Non a caso, infatti, si parla di Google tax, riconoscendo in qualche modo questo ruolo di capofila.
La discussione sulla Google tax chiama in causa anche questioni assai più ampie che hanno a che fare con l’innovazione e mondo della new economy, aggiunge Scorza. «Quello che spesso non ci si chiede è “dove è prodotto davvero l’utile che finisce nelle casse di un gigante come Google?” L’algoritmo di Google, che ormai è considerato sulla scorta di una parte dell’infrastruttura di rete, è frutto di un’attività di studio e ricerca che ha dietro uno Stato, un tessuto universitario, imprenditoriale. Quello che viene considerato il paese di produzione non è detto che sia il paese in cui viene venduto il servizio».
La risposta al problema non è semplice. Il mondo di Internet è in continua evoluzione e chi dovrà decidere – Scorza è scettico sul fatto che nel breve periodo avvengano cambiamenti sostanziali – dovrà cercare di guardare lontano. Nessuno sa prevedere come sarà il mercato dell’informazione, della produzione di contenuti e della pubblicità di qui a pochi anni.
Il rischio da evitare, dice Scorza, è «che questa regola sia costruita troppo in una dimensione “personalizzata”, perché verrà applicata a una pluralità di soggetti che oggi neppure riusciamo a immaginare. Tra cinque anni potrebbe essere cambiato tutto. Quale che sia la regola, sia una regola che si basi sul principio e abbia una visione di lungo periodo».