Finché c’è guerra c’è speranza, recitava il titolo di un film del 1974 con Alberto Sordi. Ma a volte anche quelle non bastano. Se a morire in conflitti e attentati sono soprattutto abitanti di Paesi poveri, uccisi da persone di Paesi altrettanto poveri, i soldi che girano sono pochi. Benvenuti, si fa per dire, nel mondo alla rovescia dei mercanti di armi, di morte, o della difesa, che dir si voglia. Che alla fine del 2014 erano preoccupati, perché il budget globale dedicato alle armi nel 2015 diminuirà rispetto all’anno prima. «Gli eventi in Ucraina hanno già mostrato segni di un’inversione nella recente tendenza negativa dei budget per la difesa degli Stati dell’Est Europa e hanno un impatto anche sia piani di spesa della Russia», recitava una nota di dicembre della società Jane’s, del gruppo di ricerche di mercato Ihs. Con quale spirito abbiano seguito i negoziati a Minsk tra Putin, Poroshenko, Merkel e Hollande, non è dato sapere, né come abbiano vissuto le sanguinose ore precedenti l’inizio della tregua.
Di certo l’altro fronte luminoso per l’industria della difesa, l’Isis, rimane promettente, perché gli interventi rimangono “open-ended” (senza una fine programmata) e si sta infiammando un nuovo fronte, la Libia. Se il Califfato sarà proclamato anche a Sirte, un coinvolgimento di Paesi europei non si può escludere. Lo ha detto venerdì 13 febbraio lo stesso ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni: se la mediazione dell’Onu in corso dovesse fallire, «siamo pronti a combattere, in un quadro di legalità internazionale». Questo potrebbe contribuire ad arrestare il “declino delle spese operative dell’Occidente” denunciato dalla ricerca. Una prospettiva che si somma alle preoccupazioni per il calo del petrolio, che potrebbero arrestare la corsa agli armamenti nel Medio Oriente, con l’esclusione di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Resta fuori dal declino delle spese militari la Cina, che nel 2014 ha aumentato del 12% il budget, arrivando a una cifra di 132 miliardi di dollari.
Quando i morti sono poveri
Uno studio della società di consulenza Deloitte del maggio 2014, prima della proclamazione del Califfato in Siria e Iraq da parte di Abu Bakr al-Baghdadi, lo scorso giugno, e ovviamente prima della strage di Charlie Hebdo a Parigi, insisteva sulla riduzione del rischio di terrorismo nel Paesi sviluppati. Questo non significa che gli attentati si siano ridotti. Tra il 2006 e il 2012, il loro numero è triplicato, da 2.700 a oltre 8mila.
Fonte: Deloitte. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Ma di questi il 99% è avvenuto in Paesi che non fanno parte dei top-50 per livello di spesa militare. Le spese per la prevenzione degli attacchi hanno avuto l’effetto di ridurre gli attacchi dell’6% tra i Paesi ricchi che alti livelli di spesa militare e dell’8% in quelli che non l’hanno minore. Altrove è stato il caos, con il 90% degli attentati che si è concentrato dove il reddito medio pro-capite è inferiore ai 1.500 dollari annui.
Fonte: Deloitte. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Fonte: Deloitte. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Le differenze tra Paesi ricchi e poveri si vede anche nella corsa agli armamenti. Quelli a basso reddito (con un reddito annuo medio inferiore ai 30mila dollari) stanno spendendo di più, in particolare quelli che impiegano nella Difesa più del 3% del Pil.
Fonte: Deloitte. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Le stime
«Con ulteriori tagli previsti in Occidente e il declino dei ricavi da petrolio che stanno facendo abbassare la crescita nel Medio Oriente, la spesa per la difesa si potrebbe contrarre nel 2015», ha detto una nota recente di Ihs-Jane’s. La società di ricerca stima che il budget militare globale scenda a circa 1.600 miliardi di dollari nel 2015 dai 1.747 miliardi del 2013, stimati dal Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). Anche una recente indagine della società di consulenza McKinsey ha parlato di un mercato in contrazione.
Nel 2000, alla vigilia dell’11 settembre, la spesa globale non superava i 1.100 miliardi e da allora c’era stata una crescita senza freni, con picco nel 2010, 2011, 2012.
La spesa militare mondiale tra il 1988 e il 2013
Fonte: Sipri. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Poi sono arrivati i tagli del secondo mandato del presidente Usa Obama. Dal 2011 sono stati messi dei limiti automatici al budget della Difesa americana, che hanno fatto scendere il peso degli Usa dal 40% al 35% della spesa globale. «Il declino dei fondi per le “Overseas Contingengy Operation” determina il trend negativo degli Usa e crea incertezza nel breve termine», continua la nota Ihs-Jane’s.
Anche il Regno Unito ha tagliato la spesa del 2% nel 2014 e la Francia ha un programma di riduzione del budget. Ma il ridimensionamento dell’Occidente nei programmi militari non è repentino, come emerge dal caso italiano. Come ha ricordato l’Espressonei giorni scorsi, «nonostante la scure dei tagli su ogni settore della pubblica amministrazione (dalle Province ai trasferimenti alle Regioni), l’ultima legge di stabilità prevede infatti per quest’anno quasi 18 miliardi di spese militari, di cui oltre 5 miliardi per l’acquisito di nuovi armamenti: le stesse cifre del 2014, limate solo di poche centinaia di milioni». A pesare ci sono le incognite sugli acquisti dei caccia F35. Come dice ancora l’Espresso, «per conoscere i dettagli di costo bisognerà aspettare a marzo la pubblicazione del Documento programmatico pluriennale della Difesa, nel quale si vedrà non solo se la spesa annuale prevista (644 milioni nel 2015 e 735 nel 2016) verrà ridimensionata, ma anche se i costi d’acquisizione dell’intero programma destinato ai Jsf (10 miliardi) verranno dimezzati come deciso dal Parlamento lo scorso 24 settembre».
Le spese per gli aerei militari sono non a caso quelle che sono cresciute di per i Paesi ad alto reddito e spesa militare inferiore al 3% del Pil (come l’Italia), mentre sono scese negli altri settori: soldati, carri armati, navi da guerra.
Fonte: Deloitte. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
A compensare in parte il declino nella spesa mondiale americana ci sono, oltre ai cinesi, i russi. Nel 2014 la spesa di Mosca è salita del 17,8% a quota 2.500 miliardi di rubli (54,4 miliardi di dollari), il quarto anno consecutivo di crescita. Nel 2015 dovrebbe raggiungere i 3.000 miliardi di rubli (62,6 miliardi di dollari). La recessione che il Paese sta affrontando e la svalutazione del rublo stanno facendo rivedere al ribasso agli analisti le stime per il 2016 e 2017.
Anche i Paesi del Medio Oriente hanno aumentato per la Difesa in modo consistente negli ultimi anni, del 9% in media in termini reali nell’ultimo triennio. Ma a un prezzo del petrolio attorno ai 50 dollari al barile saranno costretti ai tagli. Solo Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno le spalle abbastanza solide da continuare i loro programmi senza tagli, prevede la Ihs-Janes’s.
Gli eserciti del 2020
Sempre secondo l’Ihs i prossimi cinque anni vedranno continuare il cambio di paradigma degli eserciti mondiali. Intanto, entro il 2019, per la prima volta nella sua storia, i Paesi della Nato scenderanno sotto la metà della spesa mondiale, mentre fino al 2010 ne rappresentavano i due terzi. Entro il 2020 la spesa per la Difesa in Asia e Pacifico supererà quella degli Stati Uniti. Paesi come la Cina saranno avvantaggiati in questo dalla discesa del petrolio, che invece ridurrà gli investimenti in armamenti nel Medio Oriente e Nord Africa, almeno nel breve periodo (l’analisi non si avventura in previsioni a lungo termine). L’India diverrà il terzo mercato per armamenti al mondo entro il 2020.
I cyber-eserciti
Come prevedibile, i prossimi anni vedranno anche una crescita della difesa dagli attacchi di cyber-terrorismo, che nel 2013 hanno riguardato per il 60% Paesi ad alto reddito. La Corea del Sud ha varato il suo comando di cyberguerra già nel 2009, a causa di migliaia di attacchi ricevuti quotidianamente dai propri network militari. La Cina ha un’unità dell’esercito, la Unit 61398, che avrebbe attaccato 141 organizzazioni in 20 settori. Quando l’unità fu scoperta dall’opinione pubblica mondiale, il governo di Pechino disse che il ministero della Difesa e i siti collegati ricevevano 144mila attacchi da parte di hacker al mese, la maggior parte dei quali proveniente dagli Usa. La Nsa americana con il programma Shotgiant avrebbe colpito in particolare il colosso tecnologico Huawei. Spiega ancora Deloitte che l’india avrebbe un programma che prevede l’addestramento di addirittura 500mila “cyberguerrieri” entro il 2017. Anche la Russia, secondo dei report citati da Deloitte, avrebbe un comando di cybersicurezza, che sarebbe entrato in azione durante l’invasione della Crimea. In questo contesto la previsione della società di consulenza è facile: le cyber-operazioni non sono più un dominio delle 50 nazioni più ricche e le possibilità di attacchi si estendono. I ministeri della Difesa dei Paesi sviluppati avranno bisogno di attrezzarsi di fronte alle nuove minacce del cyberterrorismo.