TaccolaIl gran pasticcio dell’Iva che affossa i supermercati

Il gran pasticcio dell’Iva che affossa i supermercati

Il fisco italiano sta riuscendo in un’impresa finora impossibile: mettere d’accordo chi fabbrica i prodotti e chi li vende nei supermercati. I rivali di mille battaglie – sui tempi di pagamento, sui margini, sul posizionamento negli scaffali – si ritrovano assieme, per protestare contro l’inversione dell’Iva decisa dall’ultima legge finanziaria. «Avrà un effetto devastante», sintetizza Mario Gasbarrino, amministratore delegato di Unes/U2 Supermercati, «l’impatto sarà triplo rispetto alla legge che ha imposto il limite di 60 giorni per i pagamenti ai fornitori (Art 62 legge n° 27/2012), che qualche anno fa ha tolto sei miliardi di liquidità alla grande distribuzione organizzata». Non solo: «crea distorsione nel mercato», «sarà una mazzata per la Pmi», «assieme alla norma sulle etichette produce un combinato disposto mortale». 

Di che mostro stiamo parlando? Di un meccanismo che nel gergo dei ragionieri si chiama “reverse charge” (inversione contabile). È stato introdotto prima per regolare il commercio con l’estero. Poi, dal 2012 è stato esteso al mondo dell’edilizia. Con la legge di Stabilità 2015 l’applicazione ha riguardato una serie di altri ambiti, come le pulizie, le demolizioni, l’installazione degli impianti, il settore energeticco e appunto la gdo (supermercati, ipermercati e discount alimentari). Per la grande distribuzione organizzata, a differenza degli altri ambiti, l’applicazione del reverse charge al caso in esame è subordinata al rilascio di un’apposita autorizzazione da parte dell’Ue. La quale è però tutt’altro che scontata. Lo scopo è evitare l’evasione fiscale in settori in cui è diffusa. 

Se il meccanismo non è chiaro, meglio spiegarlo. Per una volta, Wikipedia non aiuta, quando definisce il reverse charge “un particolare meccanismo di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, per effetto del quale il destinatario di una cessione di beni o prestazione di servizi, se soggetto passivo nel territorio dello Stato, è tenuto all’assolvimento dell’imposta in luogo del cedente o prestatore”. 

L’enciclopedia libera si riscatta fornendo un esempio di come funziona l’Iva normalmente. “Un commerciante acquista materia prima per un valore di 1.000 euro, per cui pagherà 1.220 euro, essendo l’Iva pari a 220 euro (22%). Supponiamo che, a seguito di una serie di lavorazioni effettuate su di essa, il valore del prodotto lavorato sia di 1.200 euro. Al momento della vendita il consumatore finale pagherà al commerciante una somma di 1.464 euro (1.200 + 264). La somma che il commerciante deve versare allo Stato è di 264 – 220 = 44 euro (Iva che il commerciante ha ricevuto dal consumatore finale al netto di quella versata per acquistare la materia prima)”.

Con l’inversione dell’Iva, il commerciante compra invece a 1.000 dal fornitore. Se il valore del prodotto lavorato è sempre pari 1.200, il commerciante venderà a 1.464 euro e la somma che dovrà versare allo Stato sarà di 264 euro. Per il commerciante non cambia niente, ma per il produttore è un problema grosso, perché per ottenere le materie prime ha pagato con Iva. Dovrà quindi bussare allo Stato per ottenere i rimborsi. «Il problema è che passa un anno e mezzo prima del rimborso», dice Gasbarrino. Questo «per le Pmi è una mazzata, soprattutto quelle che fino ad ora si sono autofinanziate e che ora perdono molta liquidità». Un esempio è la Balocco, nota azienda dolciaria, il cui amministratore delegato Alberto Balocco si sta facendo portavoce della protesta dei piccoli produttori. 

Perché, se colpisce i produttori, il reverse charge sta facendo infuriare anche i distributori? Perché non tutti i distributori sono uguali. Ci sono quelli che, come Conad, Sisa o Crai, non vendono direttamente ai clienti ma a delle società minori sul territorio, le quali effettivamente vendono ai consumatori finali. Con l’inversione contabile il fornitore (per esempio la Coca-Cola) vende un bene che vale 1.000 a Conad aggiungendo l’Iva (quindi a 1.220 euro). Conad compra quindi a 1.220 e cede il bene al venditore finale. Ipotizzando che, essendo questo un socio, non ci sia ricarico, venderà a 1.000. Il socio, infine, venderà al pubblico aggiungendo il ricarico e l’Iva. Quindi Conad (o Crai, Sisa eccetera) perde liquidità (pari a 220) e dovrà aspettare un anno e mezzo per incassare i denari che gli spettano dall’Erario. 

E questo non è un problema da poco: «le aziende della distribuzione si finanziano con l’Iva», spiega Gasbarrino. Per una società come Conad, aggiunge, significa perdere almeno un miliardo di liquidità all’anno. «Salteranno le aziende – aggiunge – e se non salteranno taglieranno gli investimenti, proprio quelli che mancano di più all’Italia. È la cosa meno necessaria in un momento di credit crunch». 

C’è un poi un terzo problema. «Si crea anche una discriminazione nel mercato – spiega Gasbarrino – : la Coca-Cola, per fare un nome a caso, sarà più contenta di vendere a Conad, perché potrà fatturare con l’Iva, piuttosto che a Unes ed Esselunga, che vendono direttamente al pubblico». Quindi una società che fa affiliazione, come Conad o Crai, da una parte è svantaggiata dal reverse charge, dall’altra è avvantaggiata. «La legge senza volerlo dà un colpo al cerchio e uno alla botte – dice l’ad di Unes -. Questo mette d’accordo industria e distribuzione nella protesta». 

Perché si è arrivati a questa situazione? «Non c’è ratio se lo scopo è il recupero dell’evasione – aggiunte Gasbarrino -: i fornitori della Gdo sono affidabili, sono tutti medi o grossi produttori». 

Per l’ad della catena di supermercati la norma è solo «una misura tampone: sono stati appostati 730 milioni di euro di recupero teorico di evasione dell’Iva, con un calcolo sovrastimato, perché l’Europa chiedeva una correzione da 3 miliardi di euro nella legge di stabilità e non si riusciva a trovare gli ultimi 700 milioni». Ma l’Europa stessa dirà probabilmente di no. «Si sa già che l’Europa è contraria: ha già detto di no a un’inversione dell’Iva per un zuccherificio dell’Europa dell’Est. Nella sostanza la nuova legge non si potrà fare e scatterà la clausola di salvaguardia: si metteranno cioè nuove accise, a partire dai carburanti. Sono dilettanti allo sbaraglio». 

La vis polemica di Gasbarrino si estende anche alla nuova legge sull’etichetta: dopo l’entrata a regime del regolamento europeo XX/2011 non è più obbligatorio sulle etichette indicare lo stabilimento di produzione. Una sorta di spinta alla delocalizzazione, a cui dovrebbe essere messa una pezza da un intervento del governo, promesso dal ministro dell’Agricoltura Martina e sul quale il ministro Federica Guidi ha promesso un intervento, senza sbilanciarsi sui dettagli. 

«Si fanno le leggi che favoriscono gli investimenti, come la legge Sabatini, e poi si toglie liquidità con il reverse charge – conclude Gasbarrino. La mano destra ancora una volta non sa quello che fa la sinistra».  

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