Sembra un fantasma, che appare e scompare. Eppure il contratto di ricollocazione, più che quello a tutele crescenti, doveva essere il fiore all’occhiello del Jobs Act. Cioè la formula che, a fronte di una maggiore facilità di licenziamento, avrebbe garantito dall’altro lato una maggiore sicurezza nella ricollocazione dei lavoratori licenziati. E invece con la ricollocazione il governo sembra che stia facendo il gioco delle tre carte. E la flexsecurity in salsa italiana rischia di nascere zoppa.
All’inizio il contratto ispirato ai canoni nordeuropei era stato inserito nel decreto sul contratto a tutele crescenti approvato dal Consiglio dei ministri alla vigilia di Natale. Poi è stato cancellato per riapparire nel decreto sugli ammortizzatori sociali che diventerà operativo a breve. Ma i soldi stanziati, circa 82 milioni di euro in totale, potranno coprire non più di 12-18mila persone. Un goccia nel mare, se si pensa che i disoccupati in Italia sono oltre 3 milioni. «La liberalizzazione dei licenziamenti deve avvenire dopo aver costruito un sistema di tutele di cui al momento mancano le fondamenta», dice Michele Tiraboschi, coordinatore del centro studi Adapt. «Adesso stiamo affermando il diritto a essere ricollocati, ma senza un’infrastruttura sui cui appoggiare la riforma. Il rischio è che si creino false promesse come è già successo con la Garanzia giovani».
La liberalizzazione dei licenziamenti deve avvenire dopo aver costruito un sistema di tutele di cui al momento mancano le fondamenta
Il contratto di ricollocazione è comparso per la prima volta nella legge di stabilità del 2014 con un emendamento firmato da Pietro Ichino, che prevedeva una fase di sperimentazione regionale con uno stanziamento di 50 milioni di euro all’interno di un Fondo istituito presso il ministero del Lavoro. Ma la sperimentazione non c’è stata. La Regione Lazio, l’unica a essersi attrezzata per farlo con l’obiettivo di ricollocare i lavoratori Alitalia in esubero, ha annunciato l’avvio del test solo a gennaio 2015. La ricollocazione poi è ricomparsa nella legge delega del Jobs Act, sempre grazie a un emendamento di Ichino.
In pratica funziona così: la persona che ha perso il posto di lavoro va al Centro per l’impiego, dove viene individuato il suo grado di collocabilità e sulla base di questo gli viene attribuito un voucher con cui pagherà l’agenzia per il lavoro. Il lavoratore licenziato stipula il contratto con l’agenzia scelta tra quelle accreditate con la Regione e il Centro per l’impiego, e viene quindi affiancato da un tutor che gli consiglia i percorsi da seguire per trovare un nuovo lavoro, ed eventualmente denuncia la sua non disponibilità. Poiché la maggior parte del voucher sarà pagabile solo a risultato ottenuto, ci dovrebbe essere un incentivo a ricollocare il lavoratore senza che il voucher si trasformi in un semplice assegno di disoccupazione. Una formula rivoluzionaria, che metterebbe fine al vecchio metodo dei lavoratori cassintegrati in freezer a zero ricollocazione. Come è successo per Alitalia, appunto.
Il contratto era stato inizialmente inserito nel decreto attuativo del contratto a tutele crescenti approvato dal consiglio dei ministri a dicembre 2014. L’idea iniziale è che i soldi per i voucher si sarebbero pescati da un «Fondo per le politiche attive per la ricollocazione dei lavoratori in stato di disoccupazione involontaria» istituito presso l’Inps e non più da quello del ministero.
Il 12 gennaio però si cambia versione. E all’articolo 11 del decreto della vigilia di Natale anziché la ricollocazione si trova solo il nuovo rito dei licenziamenti senza reintegra. Il contratto di ricollocazione viene risistemato qualche giorno dopo nel decreto sugli ammortizzatori sociali che istituisce la nuova Aspi. E il fondo dal quale attingere torna quello del ministero del Lavoro. Non solo: l’11 febbraio interviene la Conferenza Stato Regioni, che stabilisce che il contratto di ricollocazione deve essere destinato non solo ai licenziati ingiustamente, come prevedeva la prima formulazione, ma a tutti i disoccupati. La platea si allarga. I fondi a disposizione un po’ meno. Oltre ai 50 milioni già esistenti e mai usati, al fondo vengono aggiunti 32 milioni per il 2015. Questi soldi serviranno al pagamento dei bonus delle agenzie private, a seconda della difficoltà di ricollocamento del lavoratore. Risultato: con voucher che vanno dai 3 agli 8mila euro a seconda della difficoltà di ricollocare i lavoratori, saranno non più di 18mila.
Con voucher che vanno dai 3 agli 8mila euro a seconda della difficoltà di ricollocare i lavoratori, saranno non più di 12-18mila
Anche le agenzie per il lavoro hanno qualche perplessità. Quello che non va giù è la riscossione del voucher a risultato ottenuto che, dicono, comporterebbe lavorare per mesi senza il riconoscimento di alcun compenso intermedio. Il che significherebbe non dedicare la giusta attenzione ai lavoratori da ricollocare, allungando i tempi del reinserimento. «È necessario considerare che gli operatori dovranno potersi dedicare con la giusta costanza e dedizione ai profili più complessi e svantaggiati», spiega Cetti Galante, amministratore delegato di Intoo, la società di Gi Group dedicata all’outplacement. «L’attuale quadro normativo di riferimento deve essere precisato e chiarito al più presto in alcuni passaggi per evitare di compromettere i risultati conseguibili con l’introduzione di questo contratto. In primis a tutela delle persone che nel ritorno al lavoro ritrovano la propria dignità piena di individuo sociale, ma anche per un risparmio delle risorse dello Stato, grazie all’abbreviarsi dei tempi di reinserimento».