La Libia non è l’Iraq, il petrolio non c’entra

La Libia non è l’Iraq, il petrolio non c’entra

«Il tempo a disposizione non è infinito e rischia di scadere presto», ha detto oggi il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni alla Camera, riferendo sulla situazione libica. Ha anche invitato le Nazioni Unite a «raddoppiare gli sforzi» per cercare una soluzione politica alla crisi nel paese.

Tra i vari attori internazionali che si stanno muovendo intorno alla Libia nel caos – l’Egitto e i suoi attacchi degli ultimi giorni, le Nazioni Unite con l’inviato León, l’Italia stessa – spicca un grande assente: gli Stati Uniti. Il ruolo dell’unica superpotenza rimasta è stato finora molto defilato, e tutti gli indizi lasciano pensare che nel prossimo futuro le cose continueranno così.

La situazione libica è molto complessa e ad alto rischio. «E questo alto rischio gli Stati Uniti non se lo vogliono prendere», spiega Arturo Varvelli, ricercatore Ispi e responsabile dell’osservatorio sul terrorismo dell’istituto. «Non è solo una questione di Obama meno interventista: è anche la conseguenza di uno slittamento strategico degli Stati Uniti, più interessati all’Asia. Nell’area mediorientale la priorità è oggi la situazione in Siria e in Iraq, l’Arabia Saudita, naturalmente Israele».

Dopo la bellicosa strategia dell’era Bush – e i suoi disastri – la politica estera di Obama ha cambiato approccio. Il ruolo americano nella questione libica lo mostra molto bene. Quando Gheddafi inasprì la brutale repressione della rivolta contro il suo regime, all’inizio del 2011, gli Stati Uniti apparvero tra i più riluttanti a un intervento diretto. Chi spinse in quella direzione furono alcuni paesi europei, in particolare la Francia e il Regno Unito.

«È stato difficile convincere gli americani» a intervenire, ha detto di recente il filosofo francese Bernard-Henri Lévy al New Yorker (Lévy ha appoggiato da subito la causa dei ribelli anti-Gheddafi e ha avuto un ruolo importante, a livello diplomatico, nel coinvolgimento francese). «L’allora segretario della Difesa Robert Gates era «fermamente contrario. Obama come al solito esitava. Ma Hillary si convinse».

Quando cominciarono gli attacchi aerei, a fine marzo del 2011, gli Stati Uniti contribuirono con una pioggia di missili Tomahawk da navi stazionate nel Mediterraneo, ma per i sette mesi successivi l’operazione fu sostanzialmente in mano a Regno Unito e Francia. Gli americani descrissero il proprio ruolo con l’espressione leading from behind, «guidare da dietro».

Il colpo definitivo all’impegno statunitense in Libia arrivò l’anno successivo, mentre il paese scivolava nella guerra civile e i fragili governi di transizione fallivano nel tentativo di disarmare le milizie e stabilire la parvenza di uno stato funzionante. L’11 settembre 2012 uomini armati attaccarono il consolato Usa a Bengasi e uccisero quattro cittadini statunitensi, tra cui l’ambasciatore Christopher Stevens. I Repubblicani accusarono l’amministrazione Obama di errori nella gestione della sicurezza.

Le polemiche che seguirono ebbero l’effetto di allontanare definitivamente gli Stati Uniti da ogni impegno nel paese, limitando il proprio ruolo alle iniziative diplomatiche. Hillary Clinton, allora segretario di Stato, finì nel mirino dell’opposizione. «Alla Clinton si addebita la responsabilità dell’uccisione dell’ambasciatore libico», dice Varvelli. E viste le sue ambizioni presidenziali, tenersi alla larga dal tema libico aiuta a far dimenticare quella polemica in patria.

Ma oltre alle brutte esperienze del passato, il disimpegno statunitense è anche conseguenza degli scarsi interessi nel paese. Sul fronte petrolifero, ad esempio, «la Libia è sempre stato un paese in cui hanno operato le “indipendenti” americane e non le major», prosegue Varvelli. Il prezzo del petrolio in picchiata e i grandi investimenti nello shale gas in patria contribuiscono a lasciare fuori dallo scenario la questione energetica. D’altra parte, il petrolio libico è sempre andato per la stragrande maggioranza ai paesi europei (il 70-80%, con l’Italia prima importatrice). nel 2013, gli Stati Uniti hanno ottenuto dalla Libia un misero 0,6 per cento delle proprie importazioni.

Per tutti questi motivi, la posizione dell’amministrazione Obama è di lasciar fare alla diplomazia internazionale, come ha confermato di recente Benjamin Rhodes, uno dei consiglieri più vicini al presidente. La strada da seguire, ha detto, è quella del dialogo e di un’iniziativa delle Nazioni Unite, a cui gli Usa aggiungono «un po’ di tranquilla diplomazia dietro le quinte».

Questa imparzialità nei confronti delle diverse fazioni in campo può stupire se si pensa che l’uomo forte del governo di Tobruk, che guida la cosiddetta “Operazione Dignità” nell’est del paese, è Khalifa Haftar, un importante ex generale dell’esercito di Gheddafi, poi passato all’opposizione, che negli ultimi vent’anni ha vissuto negli Stati Uniti e ha collaborato a lungo con la Cia.

Ma se gli Stati Uniti non hanno dato il loro appoggio a Haftar, commenta Varvelli, «probabilmente è proprio perché lo conoscono bene. Sanno benissimo che ha pochissima presa nel paese, non può essere un elemento conosciuto e unificante». Difficilmente l’emergere di elementi legati all’ISIS tra le fazioni libiche farà cambiare l’approccio degli Stati Uniti, il cui sguardo resta rivolto altrove.

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