L’anno zero del rugby italiano

L’anno zero del rugby italiano

Sergio Parisse finalmente è tornato a sorridere. La Nazionale italiana di rugby ha vinto a Edimburgo contro la Scozia nella terza partita del Sei Nazioni 2015. Ma nel torneo non portavamo a casa una vittoria dalle partite contro Francia e Irlanda nel 2013. Due anni fa. L’anno scorso ci eravamo anche meritati il cappottone (whitewash), quello che si fa alla squadra che non vince neanche una partita. In realtà ci eravamo avvicinati alla vittoria solo con la Scozia, salvo poi perdere all’ultimo momento con un drop da metà campo che ci aveva relegati a fondo classifica.

Ma sarà forse per il paragone con gli scandali e le scene di violenza legate al calcio o per la retorica dello sport buono, quello del terzo tempo dove poi sono tutti amici anche se in campo se le danno, la nazionale di rugby continua comunque a collezionare nuovi tifosi nonostante i successi si contino sulla punta delle dita. Senza generare quei sentimenti di rabbia e rassegnazione che di solito una sconfitta della nazionale di calcio provoca immediatamente nel popolo italico. Che si è ormai appassionato alla palla ovale. Crescono i tesserati alla Federazione, crescono le nuove presenze allo stadio, e la macchina del rugby continua a macinare soldi e sponsor. In compenso, le cose non vanno così bene nei fangosi campi di provincia, dove i tifosi storici cominciano a disertare gli stadi e i bilanci delle società soffrono. 

La Nazionale

Per le sconfitte di Parisse e compagni si trova sempre qualche giustificazione. A parlare più volte di “sfortuna” è stato lo stesso Alfredo Gavazzi, presidente della Federazione italiana rugby. «Abbiamo perso ma abbiamo giocato con il cuore», si sente dire sempre. «Abbiamo perso però abbiamo fatto tre mete nel tempio di Twickenham», è quello che si è detto dopo l’ultima sconfitta con l’Inghilterra quarantasette a diciassette (47 a 17!). A risentirne, certo di poco, è stato solo il ricco bilancio della Fir (Federazione italiana rugby), che per la prima volta nel 2013 ha chiuso con un passivo di 265mila euro. Spiccioli rispetto ai dieci milioni di rosso attesi per il 2015 dalla Federazione italiana giuoco calcio.

A guardare i numeri di biglietti staccati e ascolti tv, sembra che al pubblico non importi niente delle distanze abissali nei risultati tra noi e i grandi del rugby. Nel 2007, anno in cui è sbocciato l’amore tra gli italiani e la palla ovale, quando molti di noi hanno imparato parole come mischia e touche, allo stadio Flaminio di Roma gli spettatori per Italia-Irlanda (quinta giornata del Sei Nazioni) erano stati circa ventiquattromila. Quell’anno l’Italia arrivò addirittura quarta con due vittorie, una contro la Scozia e l’altra contro il Galles. E si qualificò per il mondiale, senza riuscire però ad arrivare ai quarti di finale. Nel 2011, anno del mondiale successivo, le presenze allo stadio durante il Sei Nazioni salirono a trentaquattromila per Italia-Francia in uno stadio Flaminio ampliato con strutture mobili per l’occasione.

A guardare i numeri di biglietti staccati e ascolti tv, sembra che al pubblico non importi niente delle distanze abissali nei risultati tra noi e i grandi del rugby. Per Italia-Galles all’Olimpico di Roma si prospetta il sold out

A distanza di quattro anni e numerose sconfitte, però, i numeri delle presenze allo stadio salgono anziché scendere. Allo stadio Olimpico di Roma (capienza: ottantaduemila persone), dove si è spostato il Sei Nazioni, la partita Italia-Irlanda del 7 febbraio scorso è stata disputata davanti a quasi cinquantottomila spettatori. Con un risultato finale di 26-3. Per la prossima partita contro la Francia, del 15 marzo, i numeri potrebbero essere più bassi, dicono dalla Fir. Ma per Italia-Galles del 21 marzo ci si potrebbe avvicinare al sold-out con quasi settantacinquemila spettatori. L’obiettivo della Fir era mettere insieme 180mila spettatori in tre partite e pare che ci stiano riuscendo. «La nazionale perde ma la gente continua ad andare allo stadio», spiega Maurizio Zaffiri, membro del consiglio federale, rappresentante dei giocatori e manager della Nazionale Under 18. «E ci sono sempre nuovi appassionati. Dopo l’ultima partita Italia-Irlanda, il 70 per cento degli intervistati allo stadio ha dichiarato di non aver mai seguito una partita prima di allora». Quelli che invece il rugby sta perdendo, «sono i tifosi storici, che lo seguono da sempre».

E anche gli sponsor, nonostante le brutte sconfitte, non arretrano. Dalla Fir non danno cifre. Ma Cariparma, Edison, Peroni, Reale Mutua, che erano già sponsor nel 2007, hanno rinnovato. E nell’ultimo periodo si sono aggiunti Adidas, che ha preso il posto di Kappa nel 2012 come fornitore delle divise, Danone, Sole (quello dei detersivi) ed Nh Hotels. Valentino, che con il marchio Lebole ha fornito per anni le divise ufficiali per giocatori e staff tecnico e lo smoking per il terzo tempo, è stato invece sostituito dal meno celebre Eden Park nel 2012. E tra le case automobilistiche, Peugeot ha preso il posto di Hyundai.

Sul fronte dei diritti televisivi del Sei Nazioni, dopo un “buco” a pagamento su Sky tra il 2009 e il 2013, per il quadriennio 2014-2017 il torneo se l’è aggiudicato in chiaro Dmax, il canale del network Discovery Italia. Rispetto al contratto siglato con Sky nel 2009, Dmax ha sborsato sicuramente di meno, anche se le cifre precise non sono mai uscite. Ma il rugby ne ha beneficiato in termini di spettatori. Per fare un paragone: su Sky, il record del Sei Nazioni 2011 è stato di 200.200 telespettatori medi; i dati di ascolto ufficiali della partita del 7 febbraio 2015 trasmessa su Dmax parlano di 710mila spettatori medi, con punte di 815mila e uno share del 4,5 per cento, che sale all’11,4 per cento nella fascia maschile tra i venti e i quarantanove anni. La pioniera del rugby in tv è stata La7 nel 2007. Quell’anno il canale di Cairo per la partita del Sei Nazioni Inghilterra-Italia annunciava 940mila spettatori medi e uno share del 5,7 per cento. L’anno dopo si è scesi sotto i 700mila. Ma il 2009 su La7 da uno Stadio San Siro stracolmo va poi in scena il match contro i mostri sacri degli All Blacks. Gli ascolti toccano il record di 1,7 milioni di telespettatori e il 13 per cento di share. L’anno dopo, Il Sei Nazioni, sempre su La7, fa meno della metà dei telespettatori. Ma si attesta sempre intorno ai 700mila telespettatori medi.

Italia-All Blacks allo stadio San Siro nel novembre 2009

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Nel 2011 i mondiali sono su Sky, a pagamento. Ma svolgendosi in Nuova Zelanda gli ascoltatori che si svegliano all’alba per vedere gli Azzurri sono pochi, circa 100mila. Quell’anno anche il Sei Nazioni va in diretta su Sky e in differita su La7. I numeri si attestano sotto ai 200mila per la diretta a pagamento (Inghilterra-Italia del 12/2: 164.743; Italia-Galles del 26/2: 167.442; Italia-Francia del 12/3: 161.557; Scozia-Italia del 19/3: 153.221), toccando i 200.200 solo per la prima partita Italia-Irlanda, salendo però oltre i 350mila per la differita in chiaro su La7. Gli anni successivi gli ascolti salgono un po’, sempre spezzettati tra abbonati Sky e spettatori successivi. Finché, nel 2014, il rugby sbarca su Dmax. E il ritorno in chiaro del torneo porta un maggior numero di telespettatori davanti alla tv. Le prime due partite della nazionale del Sei Nazioni 2015 hanno collezionato 710mila e 624mila telespettatori medi davanti allo schermo, con share del 4,5 e del 3,9 per cento. 

Le prime due partite della nazionale del Sei Nazioni 2015 hanno collezionato 710mila e 624mila telespettatori medi davanti allo schermo, con share del 4,5 e del 3,9 per cento

Quello di cui si parla meno, e che forse potrebbe rappresentare una speranza di vittoria nel prossimo futuro, sono i successi della nazionale under 18. Che da poco ha collezionato una vittoria contro la Francia a L’Aquila e contro l’Irlanda a Dublino. «Le giovanili», dice Zaffiri, «sono un bacino importantissimo». 

Tutto il resto

Il fatto è — e qui le cose cominciano a farsi dolorose — che dietro alla festa per il Sei Nazioni, ai terzi tempi ospitati dal Villaggio Peroni appena fuori dall’Olimpico, alle ore di diretta televisiva e al folklore indotto che nei quattordici anni passati dal primo torneo disputato ha caratterizzato il rugby azzurro, sta un campionato per club che fatica a prendere la rotta dei cuori degli italiani. Il sistema per la Fir è piramidale: la nazionale poggia su due franchigie importanti, le Zebre, con sede a Parma e uno stadio quasi nuovo di zecca, e la nota e incensata Benetton Treviso. Entrambe impegnate nel Guinnes PRO12, campionato europeo che costa alla federazione circa otto milioni di euro l’anno in sovvenzioni. Seguono arrancando le dieci squadre che giocano il torneo d’Eccellenza, quindi la Serie A, la B e via dicendo. Tra le franchigie e l’eccellenza però, è come se passasse un piccolo fiume, quello che separa il professionismo da una forma alta di dilettantismo — con tutti i limiti che questo comporta.

Tra le due franchigie, Zebre e Benetton Treviso, e l’eccellenza, è come se passasse un fiume che separa il professionismo da una forma alta di dilettantismo

Le Zebre hanno cominciato bene questa stagione, vincendo la loro prima partita in trasferta e soddisfacendo la media di duemila spettatori che hanno confermato l’affezione per il club parmense, in crescita rispetto agli anni precedenti. «Il PRO12 sta ai club come il Sei Nazioni sta alla nazionale», spiega il portavoce Leonardo Mussini. L’idea è quella di avere due squadre che competano ad alti livelli e che preparino i giocatori per gli impegni in maglia azzurra, alzando genericamente il livello di gioco e abituando un pubblico ancora cocciuto a staccarsi dall’idea che il rugby sia l’Italia per abbracciare quella che sia tutta l’Italia. Non facile. Intanto corre l’adagio che «chi non passa dalle Zebre, può scordarsi la nazionale» per parafrasare un intervento del Ct Jacques Brunel, messaggio piuttosto chiaro.

I professionisti completi italiani sono poco meno di un centinaio e il dubbio che serpeggia è che non siano davvero pronti a fare il tanto agognato passo avanti. Intanto quello che c’è da stabilire è se il gioco vale la candela: cioè quanto convenga a una realtà relativamente giovane come quella italiana prendere un impegno tanto ingombrante, anche a livello economico. I proventi per coprire i costi delle partecipazioni al PRO12 — fatta eccezione per i già citati incentivi Fir, che assolvono solo a parte del costo di circa sette milioni di euro che il torneo rappresenta per i club — vengono da sponsor, biglietti e merchandising. Considerato che la scorsa stagione le Zebre hanno venduto circa ventimila tagliandi e che si confrontano con squadre come quelle britanniche che macinano cinque volte tanto, il gap appare evidente. Che vincano o perdano poi, i numeri variano solo di poche centinaia, non certo sufficienti a rientrare dei costi. A niente serve l’evidenza che metà della rosa delle Zebre è formata da giocatori della Nazionale. L’altra metà sta a Treviso, che sceglie di non commentare.

Guadato il corso d’acqua impetuosa che separa le eccellenze dall’Eccellenza, la situazione cola a picco tra il malumore generalizzato di chi è abituato a fare buon viso a cattivo gioco. I campi si fanno decisamente più pesanti del XXV Aprile o del comunale di Monigo e i soldi per tenere gli impianti tirati a lustro non sono voci scontate a bilancio — cosa non da niente visto che in qualche caso può inficiare la trasmissibilità televisiva e quindi allontanare eventuali sponsor. Anche più grave è il fatto che si passa da poche migliaia di spettatori allo stadio a qualche centinaio in media. A Viadana, per esempio, casa di uno dei club più validi del massimo campionato, si è passati da una media di 1.550 spettatori del 2010 a pochi più di seicento, complice una candidatura alla Celtic League (sostanzialmente il PRO12 in embrione) che ne portava allo stadio più di tremila, poi ritirata. Per un po’ da quelle parti il gioco del calcio era sparito dai radar, salvo riaffiorare negli ultimi anni, incrinando una superficie candida e piantando il germe del dubbio riguardo la forza del rugby come antidoto alla corruzione dello sport. Anche all’Aquila, città benedetta da una tradizione di lunghissimo corso dove il calcio non è quasi mai esistito, gli spettatori ormai entrano allo stadio con il contagocce, mantenendo la media attorno agli ottocento a partita. Si parla di numeri molto bassi rispetto all’atteso, facendo fede alla facciata, e viene da chiedersi che fine abbiano fatto tutti i nuovi appassionati. Aspettano di vedere la nazionale, probabilmente.

“Quello che dovrebbe fare la Federazione è investire di più sull’Eccellenza. Non tanto in termini economici, quanto di comunicazione”

«Quello che dovrebbe fare la Federazione è investire di più sull’Eccellenza. Non tanto in termini economici, quanto di comunicazione», dice l’aquilano Zaffiri. «Il rugby rimane uno sport di nicchia, inutile dire altrimenti, ma questo non vuol dire che debba esserci tanto scarto tra un livello e l’altro della pratica».

Certo, è evidente che delegare a sole due squadre il vivaio della nazionale rischia di creare un imbuto in cui è facile incastrarsi e dal quale è molto difficile uscire indenni. Nell’ambiente di uno sport che, pur in crescita, non ha ancora le gambe per farcela senza una buona spinta mediatica, la mossa di togliere dalle squadre del primo campionato in sostanza tutti i migliori giocatori, sia italiani che stranieri, non aiuta sicuramente la causa dello spettacolo. Il ragionamento è lapalissiano: se il miglior rugby d’Italia si gioca a Parma e Treviso, perché dovrei andare a vedere una partita di Viadana? Manca l’affetto locale, in favore di un disegno più grande e dai contorni ancora poco più che abbozzati.

Anche gli sponsor sono naturalmente propensi ad appoggiarsi a club che garantiscano una visibilità europea, più che a squadre che giocano un campionato che sembra vivere una tacca al di sopra del dilettantismo — non tanto per la qualità del gioco, quanto per il contorno. Quindi, i fiori all’occhiello dei tornei per club limitano in qualche modo la crescita delle squadre minori, sia in termini economici che tecnici, fagocitando risorse buone per il campionato nazionale ma ancora poco preparate per gli internazionali e catalizzando gli sponsor, o almeno questo è quanto si dice tra le società, senza garantire ancora la preparazione tecnica per arrivare a buoni — e stabili — risultati a livello internazionale.

I tesseramenti continuano a salire. Oggi sono 105mila, quadruplicati rispetto ai venticinquemila del 2000

Intanto però i tesseramenti continuano a salire, laggiù nel fondo delle serie minori, dove il fango e il sangue corrono a beneficio di poche decine di spettatori. Genitori, fidanzate e nessuno che filmi nemmeno per sbaglio. Tra le nuove società, quelle che giocano per passione e che in molti casi si autofinanziano, quelle che fioriscono nei piccoli centri e vivono di una tradizione giovane, tramandata per passaparola. I tesserini, oggi 105mila, sono quadruplicati rispetto ai venticinquemila del 2000 e le giovanili sono ancora considerate la forza trainante di tutto il movimento. La Fir sta facendo tanto in questo senso con le accademie federali, nel tentativo di velocizzare il processo di crescita e garantire, prima o poi, il famoso ricambio che tutti stanno aspettando.

La strana natura del rugby italiano è una condizione che ha un che di precario: quanto può durare un pubblico quasi del tutto inesperto di fronte al continuo ritardo dei successi e delle soddisfazioni? È una domanda che non si risolverà se non stando ad aspettare, in un modo o nell’altro. E forse prima o poi i vecchi tifosi torneranno nei piccoli stadi delle loro piccole città, a seguire il loro piccolo sport.

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