In principio fu James Dean, poi Che Guevara, poi il rivoltoso sconosciuto di Tienanmen. Oggi il ribelle preferito dal marketing potrebbe essere Yanis Varoufakis, il ministro delle Finanze greco che si oppone alle politiche della Troika (e agli impegni presi da Atene) e che nei giorni scorsi ha affrontato a viso aperto il suo ferreo omologo tedesco, Wolfgang Schäuble. C’è solo un problema: Varoufakis, a differenza di James Dean e del Che è vivo (sull’ignoto di Tienanmen ci sono solo supposizioni ma potrebbe essere stato giustiziato) e sembra un ribelle vero. La “commodification of dissent” non sarebbe tanto facile. Il giochino, cioè, di prendere un simbolo, addomesticarlo e sfruttarne la carica per vendere prodotti o servizi. Una delle carte nel mazzo dei pubblicitari più efficaci, a patto di saperlo fare senza prendere boomerang.
Un archetipo per domarli
«Eccome, se funziona»: non ha dubbi Mirko Pallera, co-founder e Ceo di Ninja Marketing, società specializzata nella formazione al marketing innovativo, sul fatto che il ribelle sia un asso di bastoni per chi fa comunicazione. La risposta, spiega a Linkiesta, parte da una considerazione psicoanalitica sviluppata dall’archetypal branding, il ramo del marketing che utilizza gli archetipi junghiani. La psicologa Carol Pearson e la pubblicitaria Margaret Mark nel libro “The hero and the outlaw” fecero un’elaborazione dal database della società di comunicazione Young & Rubicam Advertising e scoprirono che le marche più di successo incontrano 12 archetipi. Il ribelle è uno di questi, sta sull’asse del cambiamento e risponde al bisogno di rompere le regole. «Quando c’è uno status quo da abbattere, modificare – dice Pallera – il ribelle diventa attrattore di energia psichica e sociale. Noi oscilliamo tra tutti i bisogni. Però quel tipo di archetipo ci energizza sul cambiamento». Ed è una delle figure più potenti. «È molto efficace – aggiunge Pallera -. Lavora sul contrasto, su un’opposizione a un nemico, dà energia e identità».
L’elenco dei 12 archetipi delineato da Carol Pearson e Margaret Mark nel libro “The hero and the outlaw”
Prima di trovare il talismano da usare nel marketing, bisogna capire cosa si cerca. «A volte si scambia il ribelle per il bad guy – dice Pallera -. Invece il ribelle è quello che si oppone allo status quo. Bisogna sempre collocare l’archetipo nel contesto: nella società conservatrice degli anni ’50 il ribelle era il motociclista vestito di pelle. Oggi, in un mondo cui non ci sono più tabù, cambia l’atto di ribellione e il ribelle fine a se stesso è ridicolo». Chi potrebbe oggi considerare ribelle Ozzy Osbourne, insomma, o un’altra delle rockstar che non lottano più contro niente? Sulla copertina di Twitter di Pallera campeggiano i volti di Gandhi, del Dalai Lama e di madre Teresa di Calcutta. Non è un caso che tutti e tre siano stati utilizzati in alcuni spot non troppo lontani. Gandhi da Telecom, il Dalai Lama da Apple (diede l’assenso, donando i soldi in beneficienza), madre Teresa di Calcutta, più rispettosamente, dall’Unicef in Svezia.
Louis Vuitton nel 2007 ebbe l’intuizione di utilizzare Gorbaciov, che d’altra parte aveva già posato per Pizza Hut, assieme alla nipote. Mentre un rivoluzionario come Che Guevara ha forse il record di citazioni. «Sono state fatte innumerevoli campagne pubblicitarie con Che Guevara, sono state fatte anche mostre e pubblicati libri sul tema», dice Arianna Brioschi, docente del Dipartimento di Marketing dell’Università Bocconi e autrice con Anna Uslenghi del volume “White space: Idee non convenzionali sulla comunicazione” (Egea: marzo 2015), la cui seconda edizione è di prossima pubblicazione.
Lo spot di Gorbaciov per Pizza Hut, nel 1997
Il ricorso a queste figure, aggiunge Pallera, era maggiore negli anni Settanta. «Col tempo si è eclissato, ma sta tornando. Dove c’è grande tensione, prende forza il ribelle».
Un ribelle per tutti gli usi
Anche Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis potrebbero essere testimonial? Probabilmente si opporrebbero. «Il testimonial ribello spesso è un testimonial morto», sintetizza Arianna Brioschi. «Specialmente in passato si sarebbero rifiutati di vedersi associati a un prodotto da vendere». La possibilità di usare i ribelli in modo tanto esteso è dovuta anche all’ambiguità di queste figure.
«Anche se l’icona del ribelle si è diffusa nel mondo, è stata tutto tranne che coerente», scrive Claudia Springer nel suo libro “James Dean Transfigures. The many faces of rebel iconography”. «Al contrario, le ideologie sia di destra che di sinistra, da un estremo all’altro dello spettro politico, usano l’iconografia del ribelle per simbolizzare la propria causa. (…) Per questo la figura del ribelle [è] un’entità fluida, mediata culturalmente e dal punto di vista commerciale». «Da una parte – continua l’autrice – l’icona del ribelle adolescente è un prodotto supremamente commerciale, usato per vendere auto, jeans e tutta una varietà di cianfrusaglie. Ma dall’altra ha ancora il potere di sorprendere, quando è usato in modo innovativo e provocatorio. Capire i parametri delle apparenze contraddittorie dell’icona del ribelle può illuminare le funzioni dell’iconografia contemporanea». La potenza di questa figura è data dal fatto che può creare non solo ammirazione, ma identificazione e immedesimazione, serrando i ranghi. «Quando l’industria della pubblicità fa ricorso all’icona, investe la figura già venerata con qualsiasi cosa sia necessaria per farci comprare un prodotto. Recentemente questo ha significato usare pubblicità che si appellano al nostro desiderio di non partecipare al processo, di ribellarci contro la pressione a diventare un drone che consuma, ma ironicamente è necessario comprare un prodotto per resistere con successo».
I ribelli, la musica e la pubblicità. E poi arrivò il rap
Il tema, nel mondo della musica, ha costituito la ragion d’essere di interi generi, a partire dal punk e dal grunge, che nacquero in risposta alla commercializzazione del rock rispettivamente negli anni Settanta (con gruppi come gli Eagles) e degli anni Ottanta (con innumerevoli gruppi). Ma la graniticità di queste contrapposizioni è stata più apparente che reale, come capivano benissimo sia i Sex Pistols sia Kurt Cobain, ed è stata picconata retroattivamente dalle pubblicità che hanno visto coinvolti Johnny Lydon (l’ex Johnny Rotten dei Sex Pistols) e Iggy Pop.
La pubblicità di una marca di burro da parte di Johnny Lydon, l’ex Johnny Rotten dei Sex Pistols
Poi seguirono Bob Dylan, Bruce Springsteen (per Fiat-Chrysler) e molti altri.
Lo spot di Bob Dylan per Fiat-Chrysler, per il Superbowl del 2014
Non è niente, però, rispetto al rapporto che hanno con la pubblicità i rapper, che citano nei loro testi in modo ossessivo i marchi dei moda o del lusso. «I rapper sono critici del mondo del consumismo, ma c’è ambivalenza nel rapporto tra rap e lusso – spiega Arianna Brioschi -. La stragrande maggioranza del marchi citati nelle canzoni fanno parte della fascia alta dei prodotti: moda, alcool. Negli anni ’90 e fino alla metà degli anni Duemila i marchi citati sono stati i nomi globali del lusso: Lvmh, Gucci, Moët & Chandon. Man mano negli ultimi anni hanno iniziato a parlare di marchi minori, di nicchia. Si parte citandoli nelle canzoni, senza un accordo commerciale: serve per far sapere di far parte di un mondo di riferimento culturale, di essere nel giro giusto. È poi il punto di partenza per fare altro». Quello che succede dopo nel concreto è la creazione da parte degli artisti di collezioni che si sviluppano con i marchi. Presentandosi o lavorando a edizioni limitate di marchi li qualificano. Agiscono da veri testimonial». Questo è successo negli Stati Uniti, ma è arrivato dritto dritto in Italia. Se Jay-Z ha realizzato partnership con Hublot, i sigari Cohiba-Comador, Balenciaga, Proenza Schouler, D’Ussé Cognac, l’italiano Fedez è stato ospitato in un negozio dello stilista Cruciani, ha indossato abiti Armani durante X-Factor, di recente ha fatto uno spot per Sisley. Brioschi e Uslenghi nel loro volume hanno contato le citazioni di brand nell‘ultimo album dei Club Dogo, “Che bello essere noi”: Gucci compare 12 volte, Armani otto, Fendi sette.
I rapper Jay-Z e 50 Cent in uno spot per Reebok
Ma i rapper sono davvero considerabili dei ribelli? «Il rapper è un finto ribelle – sintetizza Pallera, che alla cultura hip hop ha dedicato anche la tesi -. Quella hip hop è una cultura ambivalente. Nasce come controcultura, ma tende a commercializzarsi. Ci sono le polemiche tra hardcore e venduti, ma in realtà l’hip hop ha fatto del business uno dei suoi topoi. Nasce infatti come cultura di emancipazione, anche economica: il fenomeno Gangsta Rap ha un messaggio chiaro: faccio i soldi, divento ricco, è giusto così. Anche in Italia hanno imparato. Nessuno se lo pone come problema».
Arriva il boomerang
Se il ribelle è una figura tanto potente, il suo uso è altamente rischioso. Chi invece si inventa una ribellione da un momento, insomma, all’altro risulta falso, poco convincente. Per questo suonano falsi molti spot di auto o assicurazioni che invitano alla ribellione. «Il rischio c’è, però bisogna stare attenti: il Maggiolone della Volkswagen negli anni ’60 è stata una macchina ribelle – anche se non lo era la VW nel suo complesso – a suo modo la Ing Direct è stata una banca ribelle».
Il vero punto è che ci sia coerenza tra la capacità di rottura di un prodotto e il ricorso al tema della ribellione. «Se usi un’iconografia che ha un significato in un modo sbagliato, oppure la svuoti creando stereotipi è rischioso – dice Pallera -. Ci può essere anche un marchio come Moschino che usa le immagini in modo post-moderno, quasi schizofrenico: ci si appropria dell’allure dei simboli e togliendo loro spessore. Però può diventare controproducente».
Un altro rischio è di perdere il controllo delle campagne ribelli. Arianna Brioschi cita l’esempio storico di Benetton. «Nei tempi in cui lavorava con Oliviero Toscani, promosse una serie campagne pubblicitarie che alzavano il livello di shock, per promuovere valori di uguaglianza. In questo modo alzava sempre più le aspettative dei consumatori. Toscani ha usato Benetton, era lui il ribelle. A un certo punto si è perso di vista il ruolo della marca. Fino all’estremo, quando una campagna contro la pena di morte negli Usa generò una controversia altissima, tanto da far rescindere, si dice, un contratto con un grande department store che avrebbe dovuto favorire l’espansione negli Usa. Qualche tempo dopo fu fatta una conferenza stampa in cui fu rescissa la collaborazione tra Toscani e Benetton. Quello fu un boomerang nell’uso della ribellione nella pubblicità. Da quel momento Benetton è tornata indietro, come nei primissimi tempi usa tanti bei giovani modelli multiculturali. Ma l’immagine complessiva è spenta». Un marchio che invece ha saputo essere coerente e quindi credibile, aggiunge, è Diesel.
C’è poi il problema del rifiuto e della reazione delle comunità chiamate in causa. Come nel caso dei graffiti. «I graffiti esprimono spesso una critica alle multinazionali e al consumismo. Oggi le aziende sfruttano sia dal punto di vista dello stile scenografico sia nel concreto a volte utilizzando opere di street art, pensando che visto che sono opere di street art, spesso illegali, siano di libero utilizzo. Anche in Italia ci sono aziende che sono state citate in giudizio dall’artista: per esempio, Cavalli, per stampe per borse o maglie, che hanno ripreso un’opera di street art». Piuttosto epica è inoltre stata la battaglia tra il writer francese Kidult e la griffe Mark Jacob. Con il primo che ha fatto graffiti critici contro le sedi della seconda, la quale ha però utilizzato l’episodio per fare delle maglie, vendute a 689 dollari, con la stampa del graffito sul muro del negozio. La guerra è poi proseguita, ma sempre con la stessa dinamica.
Il graffito di Kidult sulla vetrina di un negozio di Mark Jacob, che ha poi usato l’immagine per delle magliette (immagine tratta dal volume White space: Idee non convenzionali sulla comunicazione, Egea, marzo 2015)
In altri casi l’utilizzo è stato fatto in modo tale da non venire denunciati. Ikea ha preso a prestito lo stile di Bansky, l’artista (o collettivo, chissà) che ha profeticamente detto: «Amo il modo in cui il capitalismo trova un posto, perfino per i nemici».
Graffito di Ikea ispirato alle opere di Bansky (immagine tratta dal volume White space: Idee non convenzionali sulla comunicazione, Egea, marzo 2015)
Nel caso dei graffiti, le reazioni quando le aziende tentano di appropriarsi dei valori della comunità, sono il cosiddetto defacement, la vandalizzazione dei murales per protesta. Ma fuori del mondo dei graffitari c’è chi è più permaloso. Le aziende hanno imparato a lasciare stare gli hacker e gli animalisti. Perchè se chi non accetta la “commodification of dissent” può ribaltare il tuo sito internet e ha piena padronanza dei social network potrebbe non valerne la pena.