Sochi, quando lo sport diventa rapina

Sochi, quando lo sport diventa rapina

Dio non voleva le Olimpiadi di Sochi. Sono parole di Boris Nemtsov, politico e oppositore del presidente russo Putin, ucciso in circostanze da chiarire il 28 febbraio 2015. Si riferiva a una tempesta che, nel 2009, aveva distrutto il porto per cargo voluto da Oleg Deripaska, oligarca, amico di Putin e incaricato dal Presidente di investire nell’organizzazione dei Giochi. Un segno della collera divina.

Del resto, le perplessità di Dio erano ben riposte. I giochi di Sochi si sono rivelati un disastro. Sintetizzare la loro storia equivale a compilare un manuale su come non si devono organizzare eventi del genere. Corruzione e superficialità, ritardi e prove di potere, sogni di gloria e improvvisazione hanno lasciato in eredità una città fantasma, diversi paesaggi rovinati, un brutto ricordo nell’opinione pubblica – e molte medaglie.

Putin si era impegnato in prima persona per ottenere l’assegnazione. Nel 2007 aveva raggiunto, a sorpresa, la Commissione Olimpica in Guatemala. Lì parlò in inglese (sempre a sorpresa), garantì con solennità che la Russia sarebbe riuscita a organizzare tutto in tempo e Sochi, la città ai piedi del Caucaso e affacciata sul Mar Nero, vinse la partita – a danno della concorrente PyeongChang, in Corea del Sud, ferma un turno.

A molti sembrò che Sochi, come sede delle Olimpiadi, fosse una scelta assurda. «La Russia è un Paese invernale. È difficile facile trovare sulla cartina un punto in cui non ci sia neve e dove non si facciano sport invernali. Putin lo ha trovato e ha deciso di tenere proprio lì le Olimpiadi invernali. È la città di Sochi», disse ancora Nemtsov.

Durante le Olimpiadi, le democrazie istituiscono procedure non democratiche, i regimi estendono il proprio potere

In realtà l’idea di trasformare Sochi in un centro per il turismo invernale non era nuova. Risaliva all’ultimo periodo sovietico. Nel 1990 ci avevano provato due volte, ma la cosa andò a vuoto. Prima per mancanza di fondi, poi per il collasso dell’Urss. Questa era la terza: rispolverare un antico piano come quello aveva un valore simbolico enorme. Dimostrava che la Russia era tornata ai fasti di una volta, anzi: li avrebbe superati. Nel luglio 2007 l’ex primo ministro Alexander Zhukov interpreta l’assegnazione dei Giochi come «il riconoscimento internazionale della nuova Russia»; per Boris Gryzlov, membro della Duma, «Mosca torna a essere, di nuovo, un leader mondiale». La propaganda partì subito. A Sochi “c’è il freddo delle montagne e, subito sotto, il mare temperato”: “qui la neve incontra il caldo” (slogan in realtà impreciso: la neve, sotto certe quote, a Sochi non cade mai). Hot, Cool, Yours, insomma. La frenesia per l’Olimpiade esaltava l’orgoglio russo, spingeva ad atti di fiducia infondati e, si perdoni il gioco di parole, cominciava a chiedere fondi in quantità.

I costi

All’inizio il governo russo aveva previsto una spesa di 12 miliardi di dollari (la cifra promessa nel 2007 era anche inferiore: 10,3 miliardi), più di qualsiasi olimpiade invernale precedente. Sochi, come città olimpica, andava costruita da zero: non c’erano gli impianti sportivi, mancavano le strutture per gli atleti, le strade erano inadeguate, le ferrovie lente. Non c’erano nemmeno sufficienti camere di hotel. Nel delirio pre-Olimpiade, si diceva di tutto. Ad esempio, che dai suoi 350mila abitanti, Sochi sarebbe diventata la “terza città della Russia”, dopo Mosca e San Pietroburgo.

I costi aumentarono. Anzi, quintuplicarono. In poco tempo la stima ufficiale (ma la cifra reale, si suppone, è molto più alta) arrivò a toccare i 51 miliardi di dollari. Più di qualsiasi altra olimpiade mai organizzata. Dieci miliardi in più rispetto ai giochi – estivi – di Pechino. Più di tutte le olimpiadi invernali messe insieme. Come si spiega qui, in occasioni come le Olimpiadi (ma anche altri eventi sportivi) per venire incontro ai tempi prefissati, «le democrazie istituiscono procedure non democratiche, i regimi estendono il proprio potere». E a Sochi è andata proprio così.

L’idea iniziale era di dividere i costi per due terzi ai privati e per un terzo allo Stato. È finita al contrario. Con il crescere della cifra, si capì subito che solo lo Stato poteva garantire la copertura dei costi. Sotto il controllo del Cremlino entrarono in gioco, pur con una certa riluttanza, anche grandi aziende statali come Gazprom e Inter RAO, Renova, e banche come Sberbank. Questo è il primo gradino della struttura.

Sul versante privato, le questione si fa più complessa. Per oligarchi come Vladimir Potanin e Oleg Deripaska le Olimpiadi si sono rivelate una trappola. Potanin, come richiesto da Putin, si sarebbe occupato di creare un impianto sciistico a circa 40 km da Sochi, mentre a Deripaska sarebbe toccato il progetto del porto, delle strade, dell’aeroporto e del Villaggio Olimpico. Un’offerta che non potevano rifiutare: era chiaro che, se in futuro avessero voluto sostegno dal Cremlino nei loro affari, non potevano tirarsi indietro.

Con il crescere dei costi e il ritardo dei sussidi statali, però, l’investimento perse ogni attrattiva. I due se ne lamentarono: Potanin dichiarò alla Reuters, nel 2012, che avrebbe venduto i suoi hotel prima dei Giochi. Il Cremlino intervenne e con una moral suasion molto convincente lo fece tornare sui suoi passi. A coprire gran parte dei costi, del resto, sarebbe intervenuta la Vneshekonombank, la Banca per lo Sviluppo russa, con il compito di erogare prestiti per il 90% del capitale necessario.

Ad altri imprenditori andò anche meglio. Arkadj Rotenberg, vecchio amico di infanzia del Presidente e capo dell’azienda del gas Stroygazmontazh, ottenne più di sette miliardi di dollari per i progetti legati a Sochi. Tutti personaggi che si muovono attorno al circolo delle Olimpiadi. In quei tempi, per capire chi saliva e chi scendeva si doveva passare per il terzo gradino della struttura, il punto nevralgico della rete: Olympstroy.

Si tratta di una azienda di stato (non un’agenzia) vera e propria macchina di soldi creata da Putin per gestire l’organizzazione e le spese dei Giochi. Aveva assunto le funzioni organizzative del Comitato Olimpico (che è rimasto in piedi, ma solo di facciata) con, però, un obiettivo reale molto più ampio: conferire favori, regalie, distribuire denaro e, soprattutto, operare regolamenti di conti. La Olympstroy, per suo particolare statuto da non profit, attingeva al bilancio statale senza alcun obbligo di rendicontare le spese, destinava i fondi, decideva gli appalti, formava gli affari. È qui che si concentrano le sfide di potere tra le élite del Paese, gli scontri più duri. E diventò proverbiale la precarietà della poltrona di presidente di Olympstroy (in sei anni ne sono saltati quattro). L’istituto impegna le forze e, soprattutto, le finanze del Paese. I 51 miliardi di dollari di spese sono passati di qui, per poi andare a pesare sui bilanci dello Stato.

Il turismo

Il Caucaso non è una regione adatta al turismo di massa. Sochi non è adatta al turismo di massa. Se si calcola che, per ripagare l’enorme spesa degli investimenti per la città ci vorrebbe, per un prestito di 30 anni al tasso dell’8,25% (quello applicato, nel 2013, dalla Banca Centrale Russa), un incasso di 4,7 miliardi di profitti ogni anno, si capisce subito che l’impresa è disperata e il turismo non sarà mai la soluzione.

Se Sochi non va, è anche colpa dell’annessione della Crimea. Putin ha sostenuto, per quanto possibile, il turismo di quell’area

Quella del turismo è un’idea che ritorna, in modo ciclico, per ogni Grande Evento: le ricadute turistiche sono sempre sovrastimate e si punta sull’indotto per allargare l’economia o appianare i debiti. Come si vede qui, non funziona quasi mai. Per il caso di Sochi, la questione è ancora più difficile. Secondo alcune stime, l’ingresso di turisti europei in Russia è crollato. Rispetto al 2013, si è scesi di 15,4% punti. Colpa della guerra in Ucraina, che ha allontanato anche i turisti della regione; colpa delle difficoltà doganali e della tensione politica.

Colpa anche dell’annessione della Crimea: Putin ha deciso di pompare soldi nell’industria turistica locale (che fa concorrenza a Sochi). In più ha riesumato un vecchio costume sovietico, pagando gli ufficiali, con le loro famiglie, perché trascorressero lì le loro vacanze (dovevano portare documentazione che lo certificasse).

Di fronte a tutto questo suscitano stupore le stime del sindaco di Sochi, Anatoly Pakhomov (noto per aver affermato che a Sochi “non ci sono omosessuali”) che vedono 160mila nuovi turisti al giorno per le vacanze invernali. Sempre Pakhomov aveva parlato, in un’altra occasione, di quattro milioni di turisti per l’anno precedente, per poi scendere a tre, e infine a due. Le stime più ottimiste si aggirano sul milione e mezzo. Per il 2015 le previsioni non sono buone.

Con le Olimpiadi era arrivata la promessa di risolvere per sempre alcuni problemi cronici di Sochi: i pessimi trasporti e la fornitura elettrica. A un anno dalla fine le cose non sono cambiate. Ad esempio, la linea ferroviaria (costata 8,5 miliardi di dollari) che collega la città alle montagne è sospesa per un contrasto tra l’amministrazione locale e le Ferrovie russe sui costi di manutenzione e rischia di chiudere. La situazione di strade e palazzi è precaria. Come documentano le immagini di Alexander Valov, autore del sito BlogSochi, lo stato di abbandono è evidente.

Il fulcro degli impianti sportivi di Sochi. Come si può vedere, il prato è abbandonato e le strutture del tutto vuote

Lo spazio è pieno di parcheggi, ma non è possibile accedere

Parte delle strutture olimpiche: a sinistra il Tulip Inn, a destra la Adler Arena

Il complesso Imereti

Il Media Center di Sochi. Usato due volte dopo le Olimpiadi, in occasione del World Economic Forum e del Campionato Mondiale di scacchi. Ora vuoto

Lo stesso hotel nel parco è vuoto. Anche il caffè

La vista dall’hotel del parco. Come si vede, il prato è molto poco curato

Il parco Olimpico

Lo stadio Fischt: usato solo due volte (inaugurazione e chiusura dei Giochi), è costato 800 milioni di dollari. Altri 60 saranno spesi per rimetterlo in sesto in occasione dei Mondiali di Calcio del 2018

Tutte le immagini sono di Alexader Valov

In montagna, nel resort sciistico di Krasnaya Polyana forse c’è qualche speranza. Per Leonid Terentiev, capo di Gorky Gorod, villaggio turistico di proprietà della Sberbank, «Pensavamo che sarebbe stata una buona cosa se i quattro milioni di russi che vanno a sciare all’estero fossero rimasti in patria e avessero scelto Sochi», aveva detto. «La situazione economica attuale li ha spinti a tornare prima». Ma due settimane di stagione non bastano. «Si deve lavorare di più per più tempo per riuscire a far fruttare le strutture», spiega Alexander Belokobylsky, di Roza Khutor, il resort di Vladimir Potanin. Perché le cose possano funzionare servono, ancora una volta, dei sussidi statali.

Gli elefanti bianchi

Intanto, c’è chi cerca di sbarazzarsi dei propri “elefanti bianchi”, le strutture iper-costose e inutili delle Olimpiadi, investimenti sbagliati ma necessari per accontentare le esigenze del potere. Uno di questi è il magnate ucraino Viktor Vekselberg, il terzo uomo più ricco della Russia. Aveva investito circa mezzo miliardo di dollari per la costruzione di due hotel giganteschi intorno al parco Olimpico. Ora ha deciso di scaricarne uno sullo Stato, trasferendo anche il suo prestito, anche questo garantito dallo Stato, di 450 milioni di dollari. Putin ha dovuto sobbarcarsi anche questo, ma le previsioni sono oscure: Vekselberg è solo il primo degli oligarchi che ha deciso di chiedere il conto per il suo contributo alle Olimpiadi. Altri seguiranno. Per il Cremlino la scelta è obbligata: o li accontenta (e scontenta le folle), o non scende a patti, e si crea nuovi nemici. Per ora ha scelto di andare incontro alle loro richieste: li mantiene fedeli e lascia vivere, finché può, l’economia.

Eppure la propaganda non demorde. Le Olimpiadi di Sochi «sono state splendide, memorabili. Un’ondata di buone emozioni», ha detto Putin in occasione del primo anniversario della manifestazione. Secondo quanto dice il Comitato Olimpico, i profitti operativi sono stati di 53 milioni di dollari. Un dato che, ribadisce Zimbalist a Linkiesta, è «ininfluente, anzi falsato». Come si è già visto, «le vere spese sono quelle strutturali. E quanto sia stato speso davvero lo sa solo il Cremlino». Ma aiuta a tenere viva una certa convinzione: secondo un sondaggio condotto in Russia dall’Associated Press e il Norc Center for Public Affairs Research, il 51% dei russi è convinto che le Olimpiadi a Sochi siano state una grande fortuna per l’economia. Le illusioni resistono tenaci.

Dopo le enormi spese, le lotte di potere, lo scivolamento nelle guerre e il destino degli edifici della città, si può dire che Nemtsov, con ogni probabilità, aveva ragione: Dio non voleva le Olimpiadi di Sochi. L’idea che i Giochi siano, oltre a un appuntamento sportivo, un’occasione per far rivivere economie depresse persiste. Il sogno di creare qualcosa di grande porta, il più delle volte, a sprechi enormi. In questo caso, è avvenuto in proporzione allo scarso realismo delle ambizioni di Putin, oltre alle sue necessità di consolidare il potere. Ma può avvenire ancora, e altrove. E chissà Dio cosa altro non vuole che succeda.

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