Avviso ai sognatori: anche se il costo del lavoro in Cina cresce di oltre il 10 per cento all’anno, meglio non farsi troppe aspettative sul “reshoring” (o backshoring), il ritorno a casa delle aziende italiane. Lo fa capire una storia relativamente piccola, quella della Cafiero, una realtà imprenditoriale nel bellunese che produce articoli di promozione industriale in pelle e plastica, in pieno distretto dell’occhialeria che annovera tra i suoi clienti Luxottica, Safilo, De Rigo, Marcolin e altri.
Dal 2008 ha uno stabilimento in Cina che impiega 300 persone, si estende su 10mila metri quadrati, produce 30mila oggetti al giorno e si è fatto un nome nella città di Heyuan, a 200 chilometri di Hong Kong, nell’entroterra. E il suo titolare, Aldo Cafiero, spiega a Linkiesta che a far tornare la produzione in Italia (dove comunque viene tuttora realizzato il 40% del fatturato) non pensa affatto. «Abbiamo certamente un aumento salariale. In Cina quest’anno sarà del 12,7%, ogni anno la crescita è attorno a queste cifre – spiega -. Sono cifre che danno da pensare, ma siamo sempre su una base di costo al di sotto di altri posti, è un incremento ancora accettabile. In proiezione, se i salari aumenteranno del doppio avremo necessità di cambiare qualcosa. Ma non raddoppieranno. Il governo cinese sa qual è il livello di produttività del proprio popolo, farà salire il costo non sopra i concorrenti, tra i Paesi sviluppati».
La convenienza di restare in Cina c’è anche se la Cafiero, oltre agli aumenti salariali, ha deciso di introdurre in Cina due elementi tipici dei contratti italiani: l’inserimento della tredicesima, un evento insolito per il contratto cinese, e di un’assicurazione anti-infortunio per i dipendenti. Il motivo? La corsa ad accaparrarsi gli operai da parte delle imprese vicine. «C’è un contratto di base con tutti gli operai e su questa base chiunque può intervenire al rialzo – spiega -. Noi siamo intervenuti in un’ottica di fidelizzazione degli operai: in questo tipo di contesto bisogna dare incentivi per abbassare il turnover. Ho cercato di inserire nel tempo degli elementi aggiuntivi sul modello italiano, per offrire cose per loro al di sopra delle aspettative».
Attenzione, non stiamo parlando del Bengodi. L’orario settimanale prevede, oltre alle otto ore gionaliere, quattro ore al sabato e straordinari che possono portare l’orario mensile a 180-200 ore. Inoltre, aggiunge Cafiero, «in Cina si può lavorare in parte a cottimo, pagando in più rispetto alla base prevista. Questo porta a un controllo sulla produzione oraria molto preciso». Eppure, spiega, i controlli sulle imprese straniere sono molto serrati, mentre, dice, «il controllo che non c’è sulle fabbriche locali. Moltissimi imprenditori non pagano i contributi, fanno vivere i dipendenti nel degrado. Noi sappiamo che se ci fosse sfruttamento ne risponderebbe il marchio».
La società, che produce piccola pelletteria e rivestimenti per occhiali, ha deciso di entrare in Cina da sola, senza la classica presenza del governo cinese, né soci cinesi. «È stata una scelta mia personale – racconta Aldo Cafiero -. Sono abituato come imprenditore a non avere soci. Una scelta sbagliata avrebbe potuto portare a scompensi importanti anche sull’attività italiana. Ho scelto la strada più difficile, ma è andata bene». L’ingresso ha avuto bisogno di una serie presentazioni. «Non è molto semplice andare in Cina da soli – continua -. Bisogna essere apprezzati dalle autorità locali e dal governo cinese. Al di là di questo, abbiamo dovuto presentare i bilanci ed essere presentati dalle nostre banche e autorità per essere accettati». Una difficoltà aggiuntiva ha riguardato la zona. «Siamo andati a chiedere ospitalità in una zona interna della Cina. È stato un po’ pioneristico, siamo finiti in una città dove nel 2008 non c’era alcun insediamento straniero, nessuno sapeva l’inglese». Per questo è stato necessario affidarsi a un intermediaario cinese esperto di rapporti con le autorità. «Un “avvocato” tra virgolette, che ci spiega cosa vogliono dire veramente i cinesi quando dicono una cosa», oltre che «personale italiano che parla perfettamente cinese».
In Italia oggi rimane la parte della progettazione e da Limana (Belluno), dove Guido Cafiero, padre di Aldo, diede inizio alle attività nel 1980, escono 10mila oggetti al giorno. «È rimasta l’iniezione della plastica – spiega – che ha costi uguali ovunque nel mondo. Inoltre alcuni marchi, come Chanel, vogliono che tutto sia fatto in Italia, per poter mettere la scritta Made in Italy anche sugli astucci. Ma alla maggior parte degli altri marchi va bene la scritta Made in China».