Da rottamato a paladino, Antonio Di Pietro è tornato

Da rottamato a paladino, Antonio Di Pietro è tornato

Sembrava iscritto all’albo dei rottamati eccellenti. Quelli che, all’ombra del renzismo, finivano nel cassetto dei ricordi della politica. Invece Antonio Di Pietro è più in forma che mai. Ex garagista, ex operaio metalmeccanico, ex segretario comunale, ex commissario di Polizia, ex pm, ex leader dell’Italia dei Valori, ex ministro delle Infrastrutture, oggi avvocato ma soprattutto aspirante sindaco di Milano e opinion leader con la toga invisibile. Il prossimo ottobre spegnerà 65 candeline ma l’inchiesta grandi opere-Incalza, le ombre sull’Expo e le antiche amicizie col Movimento 5 Stelle lo proiettano in prima linea. Per il magistrato prestato alla politica più famoso d’Italia il rilancio non è mai stato così vicino. Tonino Di Pietro ha vissuto mille vite, quella del giovane emigrante, studente e lavoratore per cui «non mi sono nemmeno accorto del Sessantotto, ero troppo impegnato a lavorare per arrivare alla fine del mese». Quella degli studi in Legge di nascosto dalla moglie, che una notte lo sorprese coi libri sul water. Quello della ribalta mediatica, con rapida ascesa e ripido declino.

Paiono lontanissimi gli anni di Milano, il pool di Mani Pulite e Tangentopoli. Un tesoretto di notorietà, prestigio e polemiche che, dopo le dimissioni dalla magistratura nel 1994, gli spalancarono le porte della politica. Una poltrona da ministro dei lavori pubblici col primo governo Prodi, un seggio da senatore con L’Ulivo. Ma il grande salto arrivò con L’Italia dei Valori, il partito a immagine e somiglianza del leader. Paladino della legalità per molti, camaleontico populista per altri. L’irresistibile ascesa parte dal 2% delle elezioni politiche del 2006, con Di Pietro ministro delle Infrastrutture e due sottosegretari Idv. Il partito del gabbiano vola fino all’8% delle Europee 2009. Nel mezzo spicca l’apparentamento con il neonato Pd veltroniano alle elezioni del 2008, da quelle urne Di Pietro esprime 29 deputati e 14 senatori. Qualche anno e arrivano anche i sindaci piazzati a Palermo (Leoluca Orlando) e Napoli (Luigi De Magistris).

(Alberto Pizzoli/Afp/Getty Images)

La marcia trionfale ha la musica dell’antiberlusconismo militante, nonostante nel 1994 il primo a offrire un ministero a Di Pietro fu proprio l’ex Cav. Piovono poltrone in tutte le regioni ma anche milioni di euro in finanziamenti pubblici. Opposizione dura al governo Pdl, toni forti contro Napolitano, occhio strizzato all’antipolitica. Non manca un pensiero alle alleanze che contano, come dimostra la foto di Vasto. Maneggiato da decine di notisti politici, il reperto risale alla festa nazionale Idv del 2011 quando Di Pietro, Bersani e Vendola posarono insieme per un flash che immaginava una coalizione di governo. Irresistibile ascesa, si diceva. L’Italia dei Valori macina consenso ma perde uomini importanti. Si fanno strada le accuse di gestione verticistica e familistica, c’è chi parla di «partito azienda» di un leader confermato per acclamazione. Nel 2012 scoppia la bomba: un’inchiesta di Report firmata da Sabrina Giannini fa luce sui finanziamenti pubblici traghettati ad un’associazione parallela e passa al setaccio decine di proprietà immobiliari riconducibili a Tonino Di Pietro. Che, dal canto suo, tira fuori le carte e si difende con le unghie. Ma ammette: «L’Italia dei Valori è finita domenica sera, a Report». Clamore mediatico, Massimo Donadi sbatte la porta e Maurizio Crozza ci mette il carico: «Di Pietro doveva cambiare il paese e invece ha cambiato un sacco di case».

Nel declino del partito i critici rinfacciano al leader i vari Antonio Razzi, Sergio De Gregorio e Domenico Scilipoti, entrati in Parlamento col vessillo Idv. Oppure le Maruska Piredda e i Vincenzo Maruccio nei consigli regionali. «Anche Gesù ne cannava uno ogni dodici», la risposta rigorosamente in dipietrese. Nel 2013 l’Idv si presenta alle politiche con Rivoluzione Civile ma niente quorum. L’ex pm si defila, lontano dai Palazzi e senza scranno in Parlamento. L’Idv prova a volare con le ali proprie e un altro segretario. Tonino si fa immortalare nella sua tenuta a Montenero di Bisaccia, quel Molise in cui alle politiche del 2008 l’Italia dei Valori prendeva qualcosa come il 27% delle preferenze. Trattore, vino, terra e agricoltura. Ma più di qualcuno era pronto a scommettere che il buen retiro non potesse durare per sempre. La falce senza la toga, un ossimoro per il personaggio. Eppure le incursioni pubbliche non sono molte. Uno spot elettorale per le regionali sarde nei panni di un barista e qualche comparsata a Palazzo Madama, come quando si è presentato senza cravatta e i commessi all’ingresso gliene hanno rimediata una.

(Andreas Solaro/AFP/Getty Images)

A giugno 2014 nell’Idv prevale la linea filo Pd e Tonino si dimette da presidente onorario. La vita va avanti, Di Pietro non è tipo che si arrende. Prima l’inchiesta sull’Expo, poi quella sul sistema degli appalti di Ercole Incalza riaccendono i riflettori sull’ex pm più famoso d’Italia. «Serve un daspo per i politici», ammoniva a maggio 2014 a proposito dei vari Frigerio e Greganti. Oggi lo corteggiano tutti, dai talk show ai quotidiani, per un commento sugli scandali delle grandi opere. Ha i galloni del magistrato, certo, ma anche quelli del tecnico. Commentatore con la toga, Tonino può rivendicare di esser stato l’unico ministro, siamo nel 2006, ad aver fatto fuori Incalza. Spiega a La Repubblica: «Trovai questa struttura tecnica di missione creata ad hoc per togliere potere ai provveditorati alle opere pubbliche coordinata da Incalza. Restituii le funzioni operative a chi di lavori pubblici capisce, e cioè ai provveditori. A Incalza non solo tolsi il coordinamento, ma lo misi fuori dal ministero. Misi l’ufficiale di polizia giudiziaria che avevo ai tempi di Mani Pulite e altri due sottufficiali della finanza. Infatti in quei due anni scandali non ci sono stati».

Il tempo passa, ma linguaggio e concretezza restano quelli di sempre. Di Pietro balla al centro della scena e i riflettori accesi gli spianano la strada verso la sua nuova sfida. L’ex pm vuole fare il sindaco di Milano nel 2016. Il coronamento del vecchio amore per la città che l’ha reso grande. «Non mi candido tanto per candidarmi – spiega a Francesco Maesano – se ci metto la faccia e parto così presto non è solo per partecipare. Milano è l’espressione più chiara del fatto che non è cambiato nulla dalla Prima Repubblica. La city milanese tesse gli stessi intrighi di potere che c’erano durante Tangentopoli». Fa sul serio, Tonino. E in punta di piedi prova a raccogliere i frutti di una lunga amicizia con Grillo, Casaleggio e il Movimento 5 Stelle. Anni di battaglie comuni sfociati nell’endorsement del 2012 quando Beppe Grillo, direttamente dal blog, lanciava Di Pietro alla Presidenza della Repubblica. Poi ammiccamenti vari, qualche invito a vuoto. Oggi il Movimento cammina con le proprie gambe e «non appoggia persone che abbiano ricoperto già un mandato politico». A ottobre Di Pietro si è affacciato al Circo Massimo, dice di non voler tirare per la giacca i Cinque Stelle. Anche loro da mesi in trincea contro Ercole Incalza. Tutto può succedere, nella seconda vita dell’eterno ex pm.

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