Nel quarto anniversario del disastro di Fukushima, il Giappone si interroga sul futuro della propria strategia energetica: dopo quarant’anni di deciso investimento nel nucleare, l’opposizione alla riapertura delle centrali sta mettendo a rischio il piano del premier Shinzō Abe di tornare al passato.
Alle 14.46 di oggi, le 6.46 in Italia, in tutto il Giappone si è osservato un minuto di silenzio per ricordare il terremoto e il devastante tsunami che ha colpito le regioni nordoccidentali del paese esattamente quattro anni fa, l’11 marzo 2011. Il disastro, il più grave che ha colpito il Giappone dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha causato la morte di oltre 18 mila persone, la distruzione di intere città e villaggi e un gravissimo incidente nucleare alla centrale di Fukushima.
I problemi irrisolti sono ancora molti, nonostante i 26 mila miliardi di yen (oltre 200 miliardi di euro) destinati alla ricostruzione. Un editoriale dell’ Asahi Shimbun ha ricordato oggi che, mentre il rifacimento delle infrastrutture sta avvenendo piuttosto velocemente, circa 120 mila persone residenti nella prefettura di Fukushima al momento del disastro restano lontani dalle loro case, quasi metà fuori dalla prefettura. Ventiquattromila vivono ancora nelle strutture prefabbricate destinate agli sfollati.
Una delle questioni più dibattute in questi mesi, le cui conseguenze si sono fatte sentire anche molto lontano dal Giappone, riguarda però la centrale nucleare di Fukushima. L’opinione pubblica e la politica giapponese devono decidere quale debba essere il futuro del nucleare nel paese, tra i timori per la sicurezza e le voci contro la riattivazione delle centrali da un lato e, dall’altro, l’affidamento fatto su quella fonte di energia per decenni, in un paese quasi del tutto privo di risorse energetiche alternative.
L’incidente di Fukushima è stato un disastro nel disastro: le strutture dell’impianto I (Daichi significa “primo”; l’impianto di Fukushima II, o Fukushima-Daini, si trova a una decina di chilometri di distanza) ressero bene il terremoto di magnitudo 9.0 – il più forte della storia del Giappone da quando esistono misurazioni – ma la successiva onda dello tsunami, alta quindici metri, mise fuori uso l’elettricità e l’impianto di raffreddamento di tre dei sei reattori della centrale. Nei tre giorni successivi, senza raffreddamento, tutti e tre i noccioli dei reattori si fusero, una delle eventualità più disastrose in caso di incidente nucleare.
Nessuno venne ucciso come conseguenza diretta dell’incidente, ma una serie di esplosioni causate dalle alte temperature causò il rilascio di grandi quantità di radioattività nell’atmosfera. Oltre centomila persone vennero evacuate nel raggio di 20 chilometri dalla centrale.
Da allora, il territorio intorno a Fukushima è stata divisa in tre zone, a seconda del livello annuo di radiazioni: le «zone di difficile ritorno», con un livello superiore a 50 millisievert/anno; le «zone di non residenza», tra 20 e 50 millisievert/anno; e le «zone in preparazione per il ritiro dell’ordine di evacuazione», con meno di 20 millisievert/anno.
A partire dallo scorso anno, l’ordine è già stato ritirato in alcune aree, ma il timore delle radiazioni sembra tenere lontani molti ex residenti: un sondaggio dell’Agenzia per la ricostruzione giapponese pubblicato pochi giorni fa ha rivelato che solo una percentuale inferiore al venti per cento degli abitanti degli sfollati intende tornare nelle proprie case. Molti di loro, aggiunge la stampa giapponese, hanno già comprato case fuori dalle zone interessate dal disastro.
Carbone e rinnovabili
Prima dell’incidente, il Giappone aveva oltre 50 reattori in attività, un numero inferiore solo alla Francia e agli Stati Uniti, e manteneva lo sviluppo del nucleare tra le priorità energetiche. All’inizio del 2011, dal nucleare proveniva circa il 30 per cento del fabbisogno nazionale.
Dopo Fukushima, tutti i reattori vennero progressivamente spenti. L’ultimo rimase in funzione fino al maggio 2012; poi, temendo blackout dovuti alla mancanza di energia elettrica, il governo ha permesso la riapertura di due reattori nell’impianto di Oi, spenti di nuovo entro il settembre del 2013. Nel frattempo, il paese si è dovuto affidare alle importazioni, soprattutto di combustibili fossili, per circa il 90 per cento delle sue necessità energetiche.
A meno di due mesi dal disastro, l’allora primo ministro Naoto Kan dichiarò che il Giappone doveva abbandonare il piano di ottenere metà del proprio fabbisogno energetico dal nucleare. Aggiunse che, in tema energia, il paese doveva «ricominciare da zero» e investire nelle rinnovabili, un settore in cui era rimasto indietro rispetto a Europa e Stati Uniti.
Da allora sono stati avviati grandi progetti nel settore delle rinnovabili in diverse zone del paese, confidando nel sostegno del governo. Una nuova legge entrata in vigore a metà del 2012 richiedeva alle società energetiche di comprare energia rinnovabile da produttori terzi a un prezzo superiore a quello di mercato, aiutando la nascita di molte imprese nel settore.
Nella città di Makurazaki la pista dell’aeroporto, inutilizzato da anni, è stata interamente coperta di pannelli solari, mentre l’impianto più grande del paese, quello di Nanatsushima, ha aperto nel 2013 con un’estensione pari ad oltre cento campi da calcio. Oggi,riporta ilNew York Times, la produzione di energia solare è intorno ai 3,4 Gigawatt, più o meno quanto tre reattori nucleari moderni. Ma per rendere il boom delle rinnovabili solido e duraturo è necessario un adeguamento delle infrastrutture e il sostegno politico – che proprio negli ultimi mesi è sembrato vacillare.
Riattivare le centrali?
Ma con l’arrivo del governo di Shinzō Abe, a fine 2012, la questione nucleare è tornata centrale. Abe ha chiarito che, secondo la sua amministrazione, il nucleare è imprescindibile per il Giappone, e ha spinto per una riapertura di almeno alcune delle centrali.
L’Autorità di regolazione del nucleare giapponese ha avviato un processo di revisione degli standard di sicurezza in base alle nuove e più strette norme del dopo-Fukushima, concedendo le approvazioni preliminari per quattro reattori. L’agenzia di stampa Reuters ha scritto, un mese fa, che il governo Abe punta alle prime riaperture intorno a giugno di quest’anno.
La possibilità di riaprire le centrali incontra molta opposizione in Giappone, con diversi sondaggi che danno i contrari oltre il 60 per cento. Non aiutano la difficilissima gestione del disastro di Fukushima e le notizie che continuano ad emergere sulle conseguenze: solo pochi giorni fa TEPCo, il gestore dell’impianto, ha detto che circa 750 tonnellate di acqua piovana contaminata con stronzio-90, un isotopo radioattivo, sono penetrate nel suolo intorno alla centrale.
Molte comunità locali sono ricorse all’autorità giudiziaria perché blocchi le riaperture sulla base di considerazioni di sicurezza. Un gruppo di avvocati anti-nucleare progetta di presentare ricorsi per ogni impianto che riceverà il via libera dalle autorità. Secondo quanto riporta The Japan Times, i primi verdetti sono attesi nei prossimi mesi, e i giudici giapponesi, che spesso hanno preso decisioni favorevoli alle grandi società elettriche prima del disastro, potrebbero sentire la pressione della contrarietà popolare.
L’ultima celebrità ad essersi espressa contro un ritorno al nucleare è stato Kenzaburō Ōe, premio Nobel per la letteratura nel 1994, che ha approfittato di una conferenza congiunta con Angela Merkel, in visita nel paese, per invitare il Giappone a seguire l’esempio tedesco. La Germania, ha ripetuto pochi giorni fa la stessa Merkel, ha deciso di abbandonare del tutto il nucleare entro il 2022, e la scelta è stata presa proprio dopo aver visto le conseguenze del disastro di Fukushima.