Non è facile trovare il filo rosso che collega tutti i fallimenti di Parma. Forse non è nemmeno questo il luogo o il nostro mestiere, in fondo la sociologia è altro. O ancora, non esiste un filo rosso che collega tutti i fallimenti di Parma. Di certo c’è che è facile il rischio di parlare male di una città che invece ti ha accolto negli anni universitari, facendoti sentire cullato dalla dolcezza dei declivi padani e allo stesso momento al centro del mondo. Ecco, questo sì: Parma ha la doppia faccia di una cittadina emiliana che da una parte difende le proprie tradizioni con forza, ma che dall’altra sta sempre a un passo dalla voglia di grandeur. Prosciutto, bianchino al bar e La Petit Paris. Chissà che non sia questo, il famoso filo rosso che collega tutti i fallimenti di Parma.
Il primo ad averla “fregata” è stato Callisto Tanzi. Un ragazzo che negli anni Sessanta era partito da un piccolo caseificio per allargarsi fino ad arrivare, negli anni Ottanta, ad aprire stabilimenti anche fuori dal parmense. Nel 1984, il grande salto. No, non fuori dall’Italia. La Parmalat sbarcò invece a Nusco, in provincia di Avellino. Fu una scelta strategicamente agghiacciante: lo stabilimento distava a 40 chilometri dal casello autostradale più vicino. Ma Nusco era il paese di Ciriaco De Mita e alla Democrazia Cristiana, per un verso o per l’altro, conveniva spesso dire di sì. E Tanzi non aveva fatto le scuole “alte” ma sapeva come muoversi. Tanto che lo stesso De Mita, divenuto presidente del Consiglio, fece emanare nel 1989 una legge ad hoc sulla produzione di latte a lunga conservazione, che servì alla Parmalat per commercializzarlo a livello nazionale.
L’anno, nel 1990, l’occasione per Tanzi di affermare ancora di più la propria immagine arrivò con la promozione del Parma in Serie A. L’ex ragazzo di bottega di un caseificio aveva visto giusto. Una città come Parma aveva bisogno del pallone per alimentare il passetto verso quella grandeur, l’eredità francese di cui in città da decenni era rimasto il Parco Ducale e la erre arrotata. Milano, Torino, Roma: le grandi piazze le raggiungi con il cibo e il pallone. Da qui, i primi clamorosi successi. Al primo anno nella massima serie, il Parma arrivò sesto e va in Coppa Uefa. L’anno dopo conquistò la prima Coppa Italia, quindi la Coppa delle Coppe a Wembley. Gli anni Novanta sono stati gli anni dei gialloblu. Una Coppa Uefa, due: l’Europa della grandeur. La seconda coppa vinta in Russia, dove ai tempi dell’Impero la Francia era un esempio da imitare. Ma in città le voci girano, anche se restano chiuse nell’ovattato silenzio padano. Non va tutto bene, alla Parmalat. Girano tante voci. Ma il calcio tira. E poi alla guida del club c’è il figlio Stefano, faccia pulita da bravo rampollo di famiglia.
Quindi a tutti va bene così, in fondo. Così come andrà bene a tutti Tommaso Ghirardi, fino ai fatti di qualche mese fa, per inciso. Nel 2003 scoppia il caso Parmalat e tutto va in crack. Si scopre che la società era in debito da mesi, anni. Mentre il Parma vinceva in Europa, la società boccheggiava. Il buco, alla fine, è di 14 miliardi di euro. Il canovaccio della vicenda Parmalat è ricco e variegato: Geronzi e la Banca di Roma per un prestito da 50 milioni di euro nel 2002, la finanza creativa di Fausto Tonna e falsi crediti conferiti in un fondo (l’Epicurum), il conto corrente fittizio alla Bank of America, le pressioni di Tanzi per piazzare dipendenti e sindaci di Parmalat in banche che potessero appoggiarlo economicamente. E il Parma Calcio, chiaro. Che si salva nelle mani di Enrico Bondi. Le coppe restano al loro posto, i soldi dei risparmiatori no. Pazienza.
Ancora oggi, se arrivate a Parma in treno, sembra di scendere in una grande capitale europea. Una ariosa cupola sovrasta i binari, mentre un elegante sottopassaggio collega due zone della città divise per decenni dalla ferrovia. Attorno, un po’ di palazzi nuovi, che non guastano mai. Della vecchia stazione è rimasto il corpo centrale, trasformato in zona di transito dalla superficie al primo piano sotterraneo dove c’è la sala d’attesa e al secondo piano, dove c’è la strada con la fermata dell’autobus. Un’opera imponente, costata 90 milioni di euro e che ha visto il cantiere aprirsi nel 2007 e chiudersi nel 2014. Sette anni. E destino ha voluto che a inaugurare l’opera fosse Federico Pizzarotti, sindaco grillino eletto dopo i disastri di Pietro Vignali. E che all’inaugurazione ci fosse anche Alfredo Peri, assessore regionale ai Trasporti da Vignali battuto nelle elezioni del 2007.
Vignali era stato il delfino politico di Elvio Ubaldi, ex primo cittadino che alla tornata elettorale di 8 anni fa lo candida a sindaco nella sua lista. E sarà proprio Ubaldi a costringerlo alle dimissioni, nel settembre 2011. In mezzo, un buco da 800 milioni di euro, ad alimentare la voglia di grandeur. Il Parma Calcio non regala più le soddisfazioni di una volta, tocca puntare su altro. Tocca puntare sull’urbanistica. Così, via al cemento: si punta a fare di una realtà di 189mila abitanti «una città di rango europeo», come ribadirà dopo la fine del mandato in un’intervista al Corriere della Sera.
Tutto in città diventa grande. La stazione, l’authority alimentare (scambiata con Reggio Emilia per l’Alta Velocità), la Scuola Europea, ponti avveniristici, passerelle per biciclette, il sogno di una metropolitana. I soldi di una holding, pare, usati per finanziare un film di Vincenzo Salemme i cui protagonisti sono vigili urbani (“Baciato dalla Fortuna”): un occhio di riguardo per un corpo finito all’epoca nelle cronache nazionali, dopo la denuncia di percosse da parte di uno studente ghanese. Per non parlare dei 180mila euro spesi in fiori per un ponte sul Torrente Parma, mai visti però nelle fioriere. A fiorire sono le partecipate del Comune: Spip, Parma Infrastrutture, Stu Stazione, Stu Pasubio, Stu authority, Tep, Infomobility. Il tutto per aggirare vincoli e patti di stabilità: la grandeur chiama. Nel settembre 2011, Vignali firma la resa, per le accuse di corruzione ad alcuni assessori e membri della Giunta comunale. Ancora oggi, Parma paga. A fine 2014 Parma Park, la società che avrebbe dovuto realizzare una serie di parcheggi sotterranei nel centro città, bussa alle porte del Comune: tra l’inizio dei lavori mai avvenuto e i guadagni non realizzati, con relativi danni d’immagine, secondo la società ammontano a più di 2 milioni di euro.
Calcio e cemento non funzionano. In fondo noi italiani siamo famosi per la moda, perché non provare con i vestiti? L’idea, tanto semplice quanto geniale, viene a un ragazzo originario di Carpi, ma che sceglie Parma come quartier generale. Io produco delle magliette con sopra un logo senza fronzoli, diciamo una margherita. Poi faccio in modo che la indossi gente famosa. I calciatori, magari. L’importante è che nelle riviste patinate compaia la mia maglietta. Matteo Cambi aveva avuto la pensata giusta. Nel 2001, vende 200mila magliette marchiate “Guru”.
Nascono nuove linee, compresa una per bambini. Nel 2003 le magliette diventano 3 milioni. Nel 2005, la Guru compare sulla livrea di una macchina di Formula Uno, la Renault di Flavio Briatore. Cambi è ricco, ricchissimo. La fama, la grandeur. Il premio “Giovane imprenditore della moda” nel 2005, «per essere riuscito ad affermare in breve tempo un marchio, uno stile, un’idea». Le spese: 2 milioni di euro per orologi di marca, 15 per serate di gala in locali alla moda. Le indagini per fatturazioni inesistenti, dal dicembre 2006. La cocaina. Secondo una perizia, arriva a consumarne 8 grammi al giorno. Roba che costa: 700mila euro, più l’alcool, per 5 anni. Dopo il carcere, per Cambi arriva la riabilitazione. Il 7 luglio del 2008, il Tribunale di Parma decreta il fallimento dell’azienda: i debiti ammontano a 100 milioni di euro. Cambi si è sposato a fine dicembre, la Guru è stata rilevata da un gruppo indiano, ma il brand non più decollato nonostante i liquidi immessi negli anni seguenti.
La storia dell’ultimo fallimento è sempre lì, al Tribunale di Parma. Ed è toccato ancora al calcio. Fallito ancora, 10 anni dopo, scottato quando dopo anni di lotte per la salvezza doveva arrivare l’Europa. Un passetto verso la grandeur, stoppato prima dai debiti mostruosi lasciati da Tommaso Ghirardi (la sentenza di fallimento li quantifica in 218 milioni di euro totali), poi da un imprenditore che voleva fare i soldi vendendo olive su internet e che, secondo un’indagine della Guardia di Finanza di Roma, dopo aver comprato il Parma lo avrebbe usato come veicolo per depositare alcune somme di denaro hackerate e da riciclare, scaricando i soldi da arte di credito clonate, usando i pos delle biglietterie del Tardini. Là dove c’erano Fabio Cannavaro e Juan Sebastian Veron. Un ultimo schiaffo alla grandeur, nel silenzio ovattato di una città emiliana.