Nel torrido pomeriggio del 19 luglio 1997, molte famiglie saudite stavano guardando la televisione. Era un sabato – che in Arabia Saudita è un giorno feriale – e parecchie erano sintonizzate su un programma educativo per bambini trasmesso da Canal France International (CFI), di proprietà della rete pubblica francese France Télévisions.
L’audience dei programmi francesi di CFI era in forte crescita in tutta la regione del Golfo. Verso le quattro di quel pomeriggio, le immagini sullo schermo si confusero e per qualche istante ci fu rumore bianco. Di lì a poco, Philippe Baudillon, allora direttore di CFI, avrebbe dovuto affrontare «la peggior prova della sua carriera» – e il panorama informativo dell’intero mondo arabo sarebbe cambiato per sempre.
Un momento di passaggio
L’Arabia Saudita non stava attraversando un periodo tranquillo. Il 13 novembre 1995, una bomba aveva distrutto un centro di addestramento della Guardia Nazionale a Riyad, uccidendo cinque cittadini statunitensi e due indiani. Era il primo attentato terroristico in Arabia Saudita da sedici anni. Il 19 novembre 1995, pochi giorni più tardi, l’anziano re Fahd ebbe un infarto.
La gestione quotidiana degli affari di governo passò al principe della corona, il 71enne Abdullah, un personaggio appartato all’interno della famiglia regnante. Era l’unico figlio che re Abdulaziz, il fondatore dell’Arabia Saudita moderna, aveva avuto da una donna della dinastia dei Rashid, tra i rivali più feroci dei Saud all’inizio del secolo.
Abdullah parlava poco in pubblico – soffriva di una forte balbuzie – e aveva il suo feudo personale nella Guardia Nazionale, un corpo militare che guidava dal 1962. Abdullah dovette penare a lungo perché la sua autorità venisse riconosciuta dal resto della famiglia, in particolare dal potente gruppo di sette principi, tra cui lo stesso re Fahd, conosciuto come il “clan dei Sudairi”. La sorda lotta per il potere proseguì per mesi.
Il 25 giugno 1996, un altro attentato colpì un complesso residenziale vicino a Dhahran, le Khobar Towers. Un camion pieno di esplosivo devastò un palazzo di otto piani che ospitava militari americani, causando oltre venti morti e circa 500 feriti. Fin dalla prima Guerra del Golfo, i movimenti estremisti vedevano come fumo negli occhi il fatto che gli “infedeli” – i soldati americani e i lavoratori occidentali dei pozzi petroliferi – calpestassero la sacra terra della Mecca e di Medina.
All’estero, alcuni dissidenti stavano causando cattiva pubblicità ai Saud, che trovava largo spazio sui media occidentali. Nel 1994, il giornalista palestinese Said K. Aburish aveva pubblicato a Londra un libro intitolato La nascita, corruzione e prossima fine della Casata dei Saud, che diventò in breve un best-seller. Altri erano più esplicitamente minacciosi. Dalla sua base in Sudan e poi in Afghanistan, Osama Bin Laden, autodichiaratosi nemico numero uno dei Saud e discendente di una delle famiglie più potenti del regno (i costruttori Bin Laden), aveva benedetto gli attentati contro la Guardia Nazionale e il complesso residenziale di Dhahran.
Sparare alle antenne
In Arabia Saudita la disoccupazione giovanile era alle stelle e l’economia in seria difficoltà, a causa del basso prezzo del greggio. Tra i problemi sociali e quelli economici, molti giovani sauditi si sentivano attratti verso i gruppi fondamentalisti religiosi, che promettevano una valvola di sfogo per le loro frustrazioni e un obiettivo in una vita che sembrava senza scopo. Il nemico era tutto quanto non aderisse alla loro strettissima interpretazione dell’Islam, tra cui, naturalmente, gli stili di vita occidentali.
Tra gli obiettivi degli estremisti anti-occidentali c’erano anche le antenne satellitari, che si cominciavano a diffondere sui tetti delle case saudite proprio in quei primi anni Novanta. I leader religiosi più conservatori li dipingevano come lo strumento attraverso cui entrava nelle case la decadenza dell’Occidente. Capitava che membri della polizia religiosa – il famigerato Comitato per l’imposizione della virtù e la soppressione del vizio – sparassero contro le parabole satellitari. Cedendo alle pressioni dei chierici conservatori, nel 1994 un decreto reale arrivò a bandire il possesso e l’importazione delle parabole.
Nonostante il divieto ufficiale, però, le antenne televisive continuarono a spuntare come funghi sui tetti delle città saudite. L’effetto principale del decreto fu quello di far aumentare i prezzi delle parabole e di rendere molto appetibile quel business per i membri della famiglia reale. Pare che l’importazione delle antenne fosse monopolizzata da un principe.
Il club del Portogallo
Torniamo a quel pomeriggio di luglio. L’audience di Canal France International era stimata all’epoca in 33 milioni di persone, in una ventina di paesi arabi diversi. Il canale era ritrasmesso dalla capitale saudita Riyad, ma arrivava nel paese tramite il satellite ArabSat, in comproprietà tra 21 stati arabi. Lanciato nel 1985, era l’unico a coprire il Medio Oriente, per cui era molto importante per le emittenti stringere accordi vantaggiosi con la società di Riyad che lo gestiva, l’Arab Satellite Corporation.
La causa dell’incidente non venne mai chiarita con precisione. Forse per l’errore di un tecnico di Télédiffusion de France, da qualche parte in Francia, il segnale satellitare di CFI venne scambiato con quello di Canal+ destinato al pubblico francofono nell’area del Pacifico. Il fuso orario della Polinesia Francese è undici ore avanti rispetto a Riyad: in quel momento, a Tahiti, erano le tre di notte.
Sugli schermi sauditi, la trasmissione cambiò improvvisamente e i telespettatori, che è facile immaginare stupiti, videro apparire davanti a loro le torbide vicende di Club privé au Portugal (“il club privato del Portogallo”), un film pornografico.
Ahmed H.M. Al Kilani, il rappresentante di CFI in Arabia Saudita, ha descritto al giornalista francese Frédéric Martel il momento in cui si accorse dell’errore come «orribile», e non è difficile credergli. In Arabia Saudita, la pornografia è proibita e tutte le immagini femminili sono pesantemente censurate, persino sulle scatole dei cereali. Non c’erano più cinema nel paese, banditi negli anni Settanta su indicazione dei religiosi più intransigenti.
Al Kilani provò a mettersi in contatto subito con la sede parigina di CFI, ma nessuno gli rispondeva. L’errore sarebbe stato individuato e risolto solo dopo una trentina di minuti. Anche se nessun quotidiano o notiziario saudita – sotto il saldo controllo del Ministero dell’Informazione – disse una sola parola sull’accaduto, l’episodio fu sulla bocca di tutti i sauditi per giorni. Qualcuno diceva che, se avevano interrotto le trasmissioni solo dopo mezz’ora, era perché c’era così tanta gente che lo stava guardando avidamente.
Le autorità saudite erano furiose e, nonostante le scuse del ministero degli Esteri francese, il contratto tra ArabSat e CFI venne stracciato. Fino ad allora, CFI utilizzava un transponder sul satellite ArabSat della banda C, frequenze che permettevano una buona ricezione in gran parte del Medio Oriente. Altri canali dovevano accontentarsi della banda Ku, che poteva essere ricevuta solo con le rare antenne satellitari larghe quasi due metri. L’incidente del 19 luglio 1997 lasciava libera una frequenza tra le più ambite: una piccola emittente araba, fino ad allora confinata ai pochi che si poteva permettere le antenne più grandi, ne avrebbe approfittato molto presto.
La perla del Golfo
Il Qatar è un piccolo paese a meno di seicento chilometri da Riyad e ancora meno dalle coste dell’Iran, al di là del Golfo Persico, che sporge come un germoglio dalla costa orientale della Penisola araba.
Nel luglio del 1997 aveva circa seicentomila abitanti, per due terzi lavoratori stranieri (oggi il loro numero è triplicato e con esso la popolazione totale), e i nativi qatarini cominciavano a beneficiare dello straordinario benessere assicurato dal più grande giacimento offshore di gas naturale del mondo, il North Field (il Qatar è quasi privo di petrolio).
La rapidissima fortuna del Qatar era governata da due anni dal 45enne sceicco Hamad bin Khalifa Al Thani, che aveva preso il posto del padre in un colpo di stato incruento. Lo sceicco Hamad, educato in Inghilterra, non aveva grande fiducia nella democrazia occidentale – la leggenda vuole che, quando gliela spiegarono da ragazzo, scoppiò in una risata isterica nella Camera dei Comuni londinese – ma la sua agenda prevedeva privatizzazioni, investimenti nell’educazione e una gestione manageriale del piccolo stato che aveva pochi paralleli nei paesi vicini.
I media dovevano essere parte di questa strategia. Solo un mese dopo la sua ascesa al potere aveva emanato un decreto per aprire un canale satellitare di news che sarebbe stato diverso da tutti gli altri media arabi.
In Egitto, in Siria, in Arabia Saudita, le televisioni e i giornali erano sotto il controllo diretto dei governi locali o della famiglia al potere e le trasmissioni rispecchiavano fedelmente questa dipendenza. Nel mondo arabo, le persone avevano imparato a non dare troppo affidamento a quello che veniva loro raccontato, fin da quando, nel 1967, la radio di Stato egiziana aveva trasmesso per giorni notizie trionfali sulla guerra contro Israele che si erano rivelate clamorosamente false di lì a pochi giorni. Ancora nel 1991, i media sauditi informarono il paese dell’invasione irachena del Kuwait con due giorni di ritardo.
Hamad decise che il suo network sarebbe stato diverso e mise nell’impresa l’equivalente di 140 milioni di dollari. Nominò un comitato editoriale di sette persone, con la promessa di lasciar loro campo libero e che, in caso contrario, si sarebbero dimessi in massa. Il suo slogan sarebbe stato «L’opinione e l’altra opinione». La nuova rete cominciò le trasmissioni il primo novembre 1996, poco più di un anno dopo la sua ascesa al potere, con sole sei ore di programmazione giornaliera. Si chiamava “la Penisola”: in arabo, Al Jazeera.
Per parecchi mesi, confinato nelle frequenze della banda Ku, il canale non ebbe particolare fortuna. L’incidente con il Club privé du Portugal diede ad Al Jazeera la possibilità di passare allo slot più ambito di ArabSat e il canale qatarino cominciò le trasmissioni dal nuovo transponder nel novembre del 1997, aumentando le ore di programmazione giornaliera da dodici a diciassette.
L’influenza di Al Jazeera sull’opinione pubblica araba è stata trattata da infiniti articoli, libri, saggi e interventi negli ultimi anni. Dal grottesco incidente di quell’estate saudita a oggi, Al Jazeera è cresciuta fino a diventare il network più popolare del mondo arabo e uno dei più noti del mondo (la versione in lingua inglese è arrivata nel 2006). Probabilmente anche gli occidentali meno informati sono venuti a conoscenza della sua esistenza quando, nelle settimane successive all’Undici settembre, mandò in onda filmati recenti di Osama Bin Laden.
La sua reale indipendenza editoriale viene periodicamente messa in discussione, l’ultima volta solo pochi giorni fa: l’articolo di Ken Silverstein su Politico in cui critica la gestione di The Intercept, la recente impresa editoriale di Glenn Greenwald e altri, contiene anche un passaggio in cui il giornalista dice di aver lasciato la sezione di inchieste di Al Jazeera dopo due mesi per essersi convinto «che l’agenda politica del network in Medio Oriente metteva a repentaglio la mia capacità di fare giornalismo».
Il governo del Qatar continua a finanziare Al Jazeera e ne possiede una quota rilevante. Vista la caotica situazione mediorientale, il suo ruolo nel panorama informativo mondiale resterà imprescindibile per molti anni a venire. Ma se è arrivato fin lì, il network qatarino lo deve anche a uno scambio fortuito in un caldo pomeriggio di luglio in Arabia Saudita – e alla programmazione della tarda notte dall’altra parte del mondo.