Staccarsi da un gruppo sociale, rifiutarne i principi di coesione e infine agire all’opposto, commettendo la “colpa” più grave: aiutare un gruppo nemico. Nella sostanza, è ciò che fa un traditore. Da Efialte (che tradì gli Spartani nelle Termopili, suggerendo ai Persiani la strada migliore) a Edward Snowden, passando per il caso Dreyfus, funziona così: si cambia campo per mille motivi e poi, peggio ancora, si aiutano quelli che, fino a quel momento, erano i nemici. La base di partenza è semplice, ma, come in tutte le cose, la questione è più complessa. Esistono costanti importanti, e casi particolari. Per Snowden, ad esempio, c’entra il problema della fedeltà, ma come spiega bene Alessandro Dal Lago, sociologo e saggista, c’entra anche il problema dell’autorità, che dall’ambito militare percola in quello sociale.
Il fenomeno del tradimento, soprattutto in campo militare, ha cambiato forme e modi nel tempo?
Sarà una banalità da sociologo, ma il tradimento è sempre relativo al contesto, alla situazione e al tipo di regime politico vigente. Non è che le cose siano cambiate in sé: chi tradisce rimane il traditore. Semmai è il discorso che viene elaborato intorno a lui che cambia, in modo più o meno differente a seconda del momento storico.
In un’epoca in cui l’informazione ha una importanza primaria un caso come quello di Snowden ha profili di gravità maggiore rispetto a un’epoca precedente, per fare un esempio per l’affaire Dreyfus?
La questione è complessa. Premetterei che l’affare Dreyfus è un caso particolare perché non siamo di fronte a un tradimento vero, ma a un processo di costruzione del nemico attraverso la retorica del tradimento, che passava attraverso il passaggio di informazioni all’Impero Tedesco. Quella di Snowden è una situazione diversa, e va compresa nel filone delle intercettazioni globali. Va notato che il problema non è nuovo e che era già emerso in precedenza nel caso di Echelon, un programma della National Security Agency in grado di setacciare le comunicazioni nel mondo. Poi vanno fatti altri rilievi.
Quali?
In senso tecnico, è un tradimento, non c’è dubbio. Snowden faceva parte dell’apparato militare statunitense, ha il compito e l’obbligo di seguire gli ordini in modo cieco. Quello che ha guidato la sua azione era la volontà di auto-limitare l’attività di spionaggio degli Stati Uniti, non certo quella di mettere in pericolo il Paese. In senso morale, senza dubbio, non si può parlare di tradimento. Si tratta allora della retorica del tradimento, che interviene in questa situazione. E di quello che rivela.
Cosa rivela?
Come è ovvio, un apparato militare è autoritario, qui la fedeltà è essenziale. Nel definire Snowden come traditore si decide di adottare il punto di vista dell’esercito. Che però non è l’unico, e soprattutto non è quello decisivo in una società complessa e stratificata come le democrazie contemporanee. La scelta è importante e rivela quanto il tema della sicurezza sia diventato preminente, e sta divorando qualunque pretesa democratica nei Paesi occidentali.
Ma Snowden ha messo in pericolo gli Usa o siamo di fronte, anche qui, a un uso retorico?
Le rivelazioni di Snowden non hanno messo in pericolo l’America. Hanno messo in pericolo l’autorità cui era sottoposto. In generale, l’autorità degli Usa.
Si può pensare che quando si parla di tradimento, al di fuori della sfera privata e individuale, si descriva una situazione di controllo autoritario? Che sia, in effetti una spia?
Sì, anche in campo sociale (non in campo affettivo, dove non mi esprimo perché non sono uno psicologo e dove mi sembra che agiscano dinamiche differenti), nelle aziende, nel lavoro. Si parla di tradimento quando un sistema economico e sociale si basa sull’autorità, e vale a qualsiasi livello: dalla fedeltà al posto di lavoro a quella per il Paese. Più aumenta la pretesa autoritaria, più aumenta la retorica del tradimento.
Ma questo vale anche in politica o siamo in un altro campionato?
Qui il giudizio sul “tradimento” è più di tipo estetico-politico, non certo morale. È ovvio che chi viene eletto con i voti di una area politica definita non potrebbe, non dovrebbe cambiare casacca, come si vede fare spesso. Ma qui siamo più in una situazione di buon gusto, e mi riferisco a episodi divenuti leggendari come quello di Scilipoti, eletto nelle liste di Di Pietro, che all’epoca apparteneva alla coalizione di centrosinistra, e che è passato nelle file di Berlusconi. Se poi è stato pagato, è un altro discorso.
Ma in generale si può parlare di tradimento in politica?
In politica no. Se ne parla, si usa come categoria, ma è una cosa convenzionale. In politica ogni valutazione di tipo morale, tra cui il concetto di tradimento, è inefficiente.
Nemmeno il “tradimento” di Renzi nei confronti del Patto del Nazareno, se mai è avvenuto, rientra nella casistica?
Anche qui, ogni partito usa la retorica che gli conviene di più per giustificare la situazione in cui è messo. Forza Italia parla di tradimento per mascherare un fatto più che evidente, cioè che Renzi ha messo nel sacco Berlusconi. Non siamo di fronte a situazioni di autorità, di deriva di sicurezza, ma di immagine.