Netanyahu è uscito vincitore, ancora una volta, dalle elezioni israeliane. L’Unione Sionista di centrosinistra, che i sondaggi e gli exit poll davano in un testa a testa con il partito del premier uscente, si è fermata a 24 seggi contro i 30 del Likud di Netanyahu.
Ma uno dei risultati più notevoli del voto in Israele è il terzo posto: l’unione dei partiti che rappresentano i cittadini arabi di Israele, la Lista Unita, ha ottenuto il 10,98 per cento dei voti e 14 seggi nella Knesset, il parlamento unicamerale israeliano.
La Lista Unita ha messo insieme, per la prima volta, soggetti politici molto differenti, che vanno dai comunisti ai nazionalisti laici e agli islamisti. Spinti anche da una modifica recente alla legge elettorale, la loro unione ha ottenuto un buon risultato.
La vera sfida, ora, è riuscire ad avere una voce in capitolo nel processo politico dello stato di Israele, da cui la minoranza arabo-israeliana si sente sempre più emarginata negli ultimi anni. Vista la vittoria di Netanyahu e il progressivo spostamento a destra della politica israeliana, questa ha tutte le caratteristiche di una sfida impossibile.
Una questione irrisolta
La minoranza araba conta per circa il 20 per cento della popolazione del paese, concentrata nel nord e a Giaffa, l’antichissimo città portuale oggi inglobata nell’area metropolitana di Tel Aviv. Di solito gli arabo-israeliani si identificano come palestinesi e sono di religione musulmana, anche se esistono due consistenti minoranze di arabi cristiani e di drusi (che non si identificano con la causa palestinese). C’è poi una minoranza beduina nel deserto del Negev, più propensa a identificarsi come israeliana.
Il tasso di crescita demografica è parecchio più alto rispetto alla maggioranza ebraica, il che fa parlare di tanto in tanto della possibilità di un “sorpasso” nell’arco di pochi decenni, in realtà poco sostenuta dai numeri.
Gli arabo-israeliani hanno una lunga tradizione di discriminazione da parte della maggioranza ebraica, che si riflette in standard di vita molto differenti e in un progressivo allontanamento dalla politica israeliana: dopo aver sostenuto i candidati dei tradizionali partiti “ebraici” negli anni Novanta, in particolare i laburisti, la loro affluenza alle urne ha avuto un drastico calo: dal 75 per cento del 1999 al 53 per cento nel 2009 e al 56 per cento del 2013, numeri costantemente più bassi rispetto all’elettorato ebraico.
Non è ancora chiaro quale sia stata l’affluenza degli arabo-israeliani alle elezioni di ieri. Haaretz riporta che a Giaffa, una delle città di Israele con la maggiore percentuale di residenti arabi, molti di loro sono andati a votare per la prima volta da decenni, convinti proprio dalla presenza di un’unica lista che li potesse rappresentare.
La Lista Unita
La lista si è formata a gennaio, dopo laboriosi negoziati, con l’unione dei quattro principali partiti arabi di Israele. La presidenza della lista è andata a Ayman Odeh di Hadash, un partito “biconfessionale” di sinistra che ha una certa presenza di ebrei al suo interno e contiene anche il Partito Comunista di Israele. Contrario al sionismo, negli ultimi anni Hadash si è spostata sempre di più verso posizioni a favore del nazionalismo palestinese.
Tra il 2006 e il 2013 altri due partiti della coalizione, la Lista Araba Unita (Ra’am) e il Movimento di Rinnovamento Arabo (Ta’al), si sono presentati insieme alle elezioni. Ra’am è il partito più religioso tra quelli arabo-israeliani, con un’impostazione islamista conservatrice e una retorica che rifiuta – unico tra i partiti del gruppo – la separazione tra stato e religione. Ha la sua base elettorale tra i beduini del Negev, che votano quasi tutti per lui, e nelle aree urbane più povere.
Balad è il partito più piccolo della coalizione ed è ideologicamente di sinistra e arabo nazionalista. Ha espresso il suo sostegno per Hezbollah, le milizie sciite libanesi, e ha portato alla Knesset la prima parlamentare araba donna, la controversa Haneen Zoabi, che ha partecipato alla flotilla verso Gaza nel 2010.
La decisione di unirsi in una sola lista, nonostante le differenze, è stata causata anche da una recente modifica della legge elettorale. A marzo del 2014, il parlamento israeliano ha approvato – tra le proteste dell’opposizione, che non ha partecipato al voto – una soglia più alta per entrare nella Knesset, passata dal 2 al 3,25 per cento, più o meno quattro seggi.
I partiti che rischiavano di subire le conseguenze maggiori della novità erano proprio i partiti arabi, che alle ultime elezioni avevano conquistato sempre tra i tre e i quattro seggi. Il giornalista Noam Sheizaf ha scritto sul progressista +972 Magazine che nei mesi prima dell’approvazione della legge i parlamentari arabi alla Knesset «hanno espresso rabbia contro i tentativi di forzare un’unione tra di loro, sottolineando che tra i comunisti di Hadash, i laici di Balad e i membri islamici della Knesset c’è molto poco in comune – eccetto l’essere palestinesi».
Quale che sia stata la motivazione principale, la decisione si è mostrata vincente. Nel parlamento uscente, eletto nel 2013, i quattro partiti arabi avevano in tutto 11 seggi e il 9,2 per cento dei voti, tre seggi e oltre un punto e mezzo in meno.
Il gioco sporco di Netanyahu
In un video postato su Facebook a poche ore dalla chiusura delle urne, Benjamin Netanyahu ha invitato i suoi sostenitori a votare con un riferimento agli arabo-israeliani: «Il governo di destra è in pericolo. Gli elettori arabi stanno andando alle urne a frotte», suggerendo che le “organizzazioni di sinistra” stavano organizzando autobus per portarli ai seggi.
Anche in seguito al messaggio video, un editoriale non firmato del New York Times ha stroncato Netanyahu, la sua linea politica passata e la sua conduzione della campagna elettorale, scrivendo che con il video e il suo chiaro rifiuto recente di uno stato palestinese (smentendo quanto disse nel 2009) «ha mostrato che [Netanyahu] ha rinunciato ad ogni rivendicazione di rappresentare tutti gli israeliani».
Netanyahu non ha certo fatto l’uscita peggiore. A una settimana dal voto, il suo ministro degli Esteri Avigdor Lieberman – leader del partito di estrema destra Yisrael Beiteinu – aveva suggerito a un evento politico che bisognava «tagliare la testa» a chi era sleale verso Israele, con riferimento alla minoranza araba (in passato ha anche proposto per gli arabo-israeliani un giuramento di fedeltà al paese).
Ma le forze interessate a soffiare sul fuoco sono apparse persino nel giorno del voto. Un account Twitter in lingua inglese che si presenta come «la voce ufficiale» del braccio armato di Hamas ha chiamato diverse volte al voto per la Lista Unita.
Una vittoria di Pirro?
Il presidente della Lista Unita, Ayman Odeh, ha dichiarato dopo il voto che la lista «è una storia di successo. Più del 65 per cento degli arabi che avevano diritto a votare lo ha fatto e questo è un referendum positivo per la lista e il suo futuro».
Anche se i suoi responsabili avevano detto in passato che non sarebbero entrati a far parte di un governo di coalizione, la Lista Unita sarebbe stata decisiva nella formazione di un governo alternativo a Netanyahu. Il premier uscente è riuscito a dimostrarsi ancora una volta il padrone della politica israeliana: la minoranza araba vede ancora davanti a sé tempi difficili.