Lavoro, come orientarsi nella giungla dei contratti

Lavoro, come orientarsi nella giungla dei contratti

Ce ne sono tanti (in realtà non così tanti), diversi e soprattutto complicati da leggere. Capire i contratti di lavoro è il primo passo per comprendere il favoloso mondo del mercato del lavoro italiano. Il Jobs Act, tra le varie cose, prevede un riordino delle diverse tipologie contrattuali esistenti, con l’abolizione delle collaborazioni cococo e cocopro, tra le più diffuse. In attesa che il decreto entri in vigore, e per capirci di più, la terza puntata di Domani Lavoro. 10 domande e 10 risposte per trovare un’occupazione (e tenersela), la guida al lavoro firmata da Linkiesta e Adapt, è dedicata all’orientamento tra i contratti. A rispondere alle nostre domande sono i ricercatori del centro studi sul lavoro Adapt, che ci aiutano a sopravvivere tra sigle, offerte di stage, part time e partite Iva. Senza cadere in tranelli. O almeno si spera.

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Partiamo dalle basi: quanti contratti ci sono in Italia? E Quali sono le principali caratteristiche?
Sul numero delle tipologie contrattuali in Italia si è creata una vera e propria bagarre che non ha aiutato e non aiuta soprattutto i giovani a capire quali siano le possibilità del mercato del lavoro e le regole che lo governano.

Si è parlato di oltre 40 differenti tipi di contratto. Ma si tratta di un calcolo volutamente pretestuoso. Basta andare sul sito www.cliclavoro.gov.it alla voce contratti per accorgersi che le tipologie contrattuali sono circa una decina.

Il lavoro può essere subordinato o autonomo. Il lavoro subordinato può essere a tempo determinato o indeterminato.

Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro che ha una scadenza precisa. Il lavoratore sa quindi in anticipo quando scadrà. Entro questo periodo il lavoratore non può essere licenziato se non per giusta causa (quindi non per cause economiche).

C’è poi la somministrazione di lavoro, che avviene con l’impiego di due contratti distinti stipulati da un’agenzia autorizzata dal ministero del Lavoro. Da un lato, un contratto siglato con un’impresa in cerca di manodopera, dall’altro il contratto stipulato con un lavoratore. L’agenzia mette quindi a disposizione il suo personale in base alle esigenze dell’impresa. Nonostante non sia molto diffusa la somministrazione può essere anche a tempo indeterminato.

Il lavoro intermittente, o a chiamata, permette invece al datore di lavoro di chiamare il prestatore di lavoro all’occorrenza, ma può essere stipulato solo con soggetti di età inferiore a 24 anni, oppure, di età superiore a 55 anni. Questo tipologia contrattuale può prevedere l’obbligo di risposta alla chiamata. In questo caso c’è un’indennità di disponibilità.

Vi sono poi forme contrattuali di lavoro parasubordinato, che hanno l’obiettivo di regolare quelle zone grigie tra il subordinato e l’autonomo. Innanzitutto le collaborazioni coordinate continuative (co.co.co). Le collaborazioni occasionali sono quelle co.co.co che non durano più di 30 giornate nel corso dell’anno solare e comunque retribuite sotto i 5.000 euro annui. Le altre co.co.co sono possibili solo se subordinate all’esistenza di un progetto (co.co.pro). Il contratto a progetto non prevede un orario rigido o un monte ore da raggiungere, ma solo il completamento del progetto entro i temi indicati. Dal 2016, in base alle novità introdotte dal Jobs Act, le co.co.co saranno possibili solo in settori coperti da un accordo sindacale.

Si è parlato di oltre 40 differenti tipi di contratto. Ma le tipologie contrattuali in tutto sono una decina

Il lavoro accessorio è invece quello retribuito dal committente con dei voucher (o buoni lavoro), che includono i versamenti minimi assicurativi e previdenziali. Le attività lavorative retribuite con i voucher non possono superare i 5.000 euro totale annui (il Jobs Act alzerà probabilmente questo limite a 7.000 euro), e i 2.000 euro per ogni committente.

Mi pare di aver capito anche che ci sono due tipi di contratto: individuali e collettivi. Cosa sono i contratti collettivi?
I contratti collettivi nazionali di lavoro sono firmati dalle organizzazioni che rappresentano le aziende e i lavoratori di una determinata categoria. Per intenderci, le associazioni datoriali e i sindacati. I contratti collettivi definiscono gli standard di lavoro applicabili a tutti i lavoratori del settore interessato e su tutto il territorio nazionale. Tra le altre cose, stabiliscono i livelli retributivi minimi, l’orario di lavoro e le misure di welfare in favore dei lavoratori.

Negli ultimi anni si sono sviluppati anche i contratti di secondo livello. Questi possono essere firmati sia a livello aziendale che territoriale e contengono integrazioni o modificazioni al contratto nazionale. La caratteristica più diffusa nella contrattazione decentrata è la retribuzione incentivante, collegata cioè a obiettivi di produttività e qualità del lavoro.

Il datore di lavoro decide quale contratto collettivo applicare, per cui non è possibile per il singolo lavoratore scegliere quale adottare. È comunque importante informarsi sui contenuti del contratto collettivo per essere a conoscenza dei diritti e dei doveri che veicola.

Mi hanno parlato dei consulenti del lavoro: a cosa servono? È utile andarci prima di firmare un contratto?
I consulenti del lavoro sono professionisti che normalmente collaborano con le aziende e le imprese, ma non solo, nella gestione quotidiana del personale. Offrono pareri in merito alle assunzioni, alle tipologie contrattuali, agli obblighi previdenziali e assicurativi. Sono sicuramente degli attori importanti del mercato del lavoro. Tuttavia non è obbligatorio per un giovane che sta per essere assunto rivolgersi a loro. Ci sono anche altri canali di informazione come il sito del ministero del Lavoro, i centri per l’impiego, i diversi “informagiovani”. Oppure si può scegliere di recarsi presso i sindacati per avere informazioni sui contratti di lavoro.

Il contratto a tutele crescenti non è un nuovo contratto, ma è la nuova modalità di funzionamento del contratto a tempo indeterminato

Ho letto che esiste il nuovo contratto a tutele crescenti. Come funziona? Dov’è l’inghippo?
Quanto parliamo di contratto a tutele crescenti in realtà non stiamo parlando di un nuovo contratto di lavoro. Semplicemente è il nuovo modo con il quale funzionerà il contratto a tempo indeterminato, per questo se vi capitasse di firmarlo trovereste sempre la stessa denominazione, non quella che si legge sui giornali.

La novità è che dall’entrata in vigore delle nuove regole chi verrà assunto con questo tipo di contratto non godrà più delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In poche parole se un lavoratore verrà licenziato ingiustamente per motivi discriminatori o disciplinari (nel caso in cui il fatto contestato non sussista) potrà essere reintegrato e riottenere il proprio posto di lavoro; negli altri casi di licenziamento illegittimo perderà il proprio posto ma avrà diritto a un risarcimento crescente a seconda dei mesi di lavoro effettuati presso quel datore di lavoro.

L’aspetto critico di queste novità è che si creerà un sistema duale in cui ci sono nello stesso posto di lavoro persone che hanno le tutele dell’articolo 18 e i nuovi assunti che non le hanno. L’altro aspetto importante legato al contratto a tempo indeterminato è che per quest’anno le aziende che lo utilizzeranno avranno una importante riduzione delle tasse (fino a 8.060 euro all’anno) e questo dovrebbe aumentare il suo utilizzo. C’è però la probabilità che le imprese utilizzeranno questo sgravio fiscale per assumere lavoratori con esperienza e già “pronti all’uso”, e questo non aiuterebbe soprattutto i giovani.

Se ho già un contratto a tempo indeterminato e cambio lavoro, posso portare con me le tutele del vecchio contratto?
No, è impossibile. Da quando entreranno in vigore le nuove regole del contratto a tutele crescenti, queste si applicheranno a tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato da quella data in poi. I contratti a tempo indeterminato sottoscritti prima, invece, saranno soggetti alle vecchie regole garantite dall’articolo 18.

Si creano in questo modo due regimi di tutele differenti, che resteranno finché tutti gli assunti non avranno firmato la nuova tipologia di contratto a tutele crescenti, e questo completo ricambio impiegherà decenni probabilmente.

Questo non significa per forza che dovete rinunciare a ogni mobilità dal nuovo al vecchio lavoro. I lavori del futuro saranno sempre meno nella forma del tempo indeterminato, per cui se avete una buona opportunità per intraprendere un percorso lavorativo in linea con i vostri interessi è sempre meglio rischiare e perdere le tutele dell’articolo 18 che rimanere nel vostro vecchio posto di lavoro, che non vi stimola né vi appassiona.

È fondamentale sapere che ogni tirocinante ha diritto a una indennità di partecipazione, lo prevede la legge

E se mi propongono l’apprendistato? Che faccio? È utile?
L’apprendistato può essere una ottima occasione perché coniuga formazione e lavoro. Con questo contratto, ad esempio, si può conseguire la qualifica di cuoco degli istituti professionali, ma anche laurearsi, fare un master o prendere il titolo di dottore di ricerca. Se non è finalizzato a un titolo di studio, si può comunque ottenere una qualificazione contrattuale di un determinato livello. 

L’apprendistato ha una durata minima di 6 mesi e massima di 3 anni. Gli apprendisti, poi, godono di tutti i benefici dei lavoratori subordinati come ferie, maternità, contributi pensionistici e accesso agli ammortizzatori sociali. Inoltre la retribuzione di un apprendista è solitamente più elevata di quella di un tirocinante o di un lavoratore a progetto in quanto non può essere inferiore di due livelli di inquadramento rispetto alla figura che la vostra qualifica identifica.

Dovrebbe essere la tipologia contrattuale principale per un giovane che vuole entrare nel mondo del lavoro perché consente di continuare la formazione acquisendo quelle competenze che si imparano sul campo e che oggi il sistema formativo italiano non fornisce.

Se mi propongono un tirocinio, ho diritto a un rimborso spese? Quanto chiedo?
È importante ricordare che il tirocinio/stage non è un contratto di lavoro. La sua natura è formativa oggi è lo strumento principale attraverso il quale i giovani entrano nel mercato del lavoro. Per questa ragione è molto probabile che tra le prime offerte di lavoro che riceverete una sarà uno stage.

È fondamentale sapere che ogni tirocinante ha diritto a una indennità di partecipazione, lo prevede la legge. Ciononostante capita spesso che ci si imbatta in proposte di tirocinio non retribuito, ma ora sapete che non è legalmente valido. Il valore dell’indennità è fissato in una soglia minima di 300 euro mensili, e ogni regione ha fissato una sua quota minima. Quello che potete fare quindi è informarvi sulle quote minime (le trovate qui) e chiedere almeno quelle. Dovrebbe essere, come detto, scontato in quanto previsto dalla legge, ma sappiamo che il tirocinio è tra le forme di lavoro più abusate oggi in Italia.

Se mi chiedono di aprire la partita Iva per essere assunto, cosa devo fare? Quanto devo prendere perché non sia una fregatura?
Se ti chiedono di aprire una partita Iva la prima domanda che devi farti è: “perché questa richiesta?”. La partita Iva, infatti, non è un contratto di lavoro subordinato. Ha senso aprirla solo se si intende lavorare in maniera autonoma, senza sottostare ai vincoli di subordinazione di un datore di lavoro, per esempio rispetto a rigidi orario e modalità di lavoro. In altre parole, anche se il lavoro che svolgessi fosse commissionato solo da un soggetto, dovresti comunque avere l’autonomia sufficiente per prendere in carico un’altra commissione. Cioè un altro lavoro. In caso contrario, vuol dire che potrebbe esserci qualcosa che non torna.

Per non avere sorprese, si deve poi tenere in considerazione che un lavoratore autonomo paga meno imposte se guadagna meno di 30mila euro, ma solo finché compie 35 anni.

Nel caso si voglia lavorare “in proprio”, ci si può rivolgere a un esperto del settore, come un commercialista o un consulente del lavoro, che può comunque essere utile per chiarirsi le idee. Lavorare in proprio infatti significa dover adempiere da sé a diverse incombenze obbligatorie, per esempio iscrizione all’Inps, tenuta della contabilità, dichiarazione dei redditi… È quindi probabile che un aiuto esterno diventi necessario.

La partita Iva non è un contratto di lavoro subordinato. Ha senso aprirla solo se si intende lavorare in maniera autonoma

E se mi offrono un part time? È un modo carino per dirmi “lavorerai tutto il giorno, ma a metà prezzo”?
Il part-time, se utilizzato per il suo vero scopo, è una grande occasione perché ci permette di conciliare la vita lavorativa con altri impegni per esempio scolastici, universitari, familiari.

Non si tratta propriamente di un’altra tipologia contrattuale, ma di una modulazione dell’orario di lavoro, che consente al lavoratore di coniugare i tempi di vita e di lavoro.

Il part-time, infatti, implica un orario di lavoro inferiore a quello ordinario (full-time). La riduzione dell’orario di lavoro può realizzarsi secondo due modalità che possono anche combinarsi assieme: orizzontale (si quando il lavoratore lavora tutti i giorni meno ore rispetto all’orario normale ) o verticale (il dipendente lavora a tempo pieno ma solo alcuni giorni della settimana, del mese o dell’anno). Il rischio è che dietro quella che si presenta come un’opportunità di buona flessibilità per lavoratori e aziende, si celi un abuso. Si sono registrati numerosi utilizzi impropri di questa tipologia in cui la riduzione dell’orario di lavoro non era effettiva e il part time costituiva la via legale per l’utilizzo irregolare di lavoro. Per contenere questi abusi si è prevista la necessità di individuare nel contratto l’orario di lavoro prevedendo che la collocazione della prestazione lavorativa possa essere modificata solo a determinate condizioni e modalità e nel rispetto di limiti massima in aumento (le cosiddette clausole elastiche o flessibili).

Posso chiedere di gestire tempi e modalità di lavoro in maniera flessibile anche con un contratto subordinato? Mi pare si chiami smart working. Ma in Italia esiste? E i datori di lavoro italiani sono così smart?
È ciò che vorrebbero. Lo smart working esiste di fatto anche in Italia ma, secondo le ultime indagini, viene realmente utilizzato solo dall’8% delle aziende, in quanto il fenomeno è ancora in cerca di una chiara regolamentazione. 

Nonostante la crescente richiesta di flessibilità da parte di aziende e lavoratori, e nonostante la prima proposta di legge in merito risalga al gennaio 2014, la nuova riforma del lavoro non sembra averne tenuto conto. Attualmente sono più utilizzate altre formule che consentono di conciliare in modo flessibile vita e lavoro come, ad esempio, il telelavoro, ma non è abbastanza. 

Una diffusione del modello smart working è invece auspicabile in quanto permetterebbe una vera flessibilità sul posto di lavoro consentendo, previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore, di pensare al lavoro in modo totalmente diverso, organizzando il lavoro in favore di una responsabilizzazione della persona, aumentando l’autonomia nella scelta degli spazi e dei tempi di lavoro.

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