«Abbiamo scoperto che gli impiegati onesti sono risultati migliori in quasi tutte le nostre metriche di performance: una cosa che rincuora, l’idea che l’onestà sia davvero un tratto distintivo prezioso. Ma c’è stata una metrica per la quale l’onestà non era correlata con migliori performance: le vendite». A parlare è Michael Housman, un analista della società Evolv, specializzata nell’analisi dei dati sul comportamento dei dipendenti delle società. Il contesto è una puntata di Freakonomics, un podcast sull’economia comportamentale, dedicata al limite sottile tra il bene e il male nel marketing. Perché se la comunicazione ha per sua natura il ruolo di abbellire quello che deve vendere, il modo in ci arriva non è indifferente. Per i professionisti è una questione di sfumature. «Se vuoi che il mondo del business capisca il valore della scienza comportamentale, la prima cosa che devi fare capire è che piccoli cambiamenti possono avere grandi effetti», aggiungeva a Freakonomics Rory Sutherland, un manager della mitica società di comunicazione Ogilvy and Mather.
C’è una metrica per la quale l’onestà non è correlata con migliori performance: le vendite
Inventarsi una finta scarsità di un’offerta o agire sulla paura delle persone di perdere dei vantaggi piuttosto che sulla voglia di averne di nuovi, sono esempi di persuasione noti a chi deve vendere, dagli spazzoloni porta a porta ai biglietti aerei. Ma alla manipolazione attraverso la comunicazione si arriva in molti modi. Nichole Kelly, su Social Media Explorer, ha messo in fila tre passaggi: lo spin, cioè manipolazione, ossia un abbellimento delle frasi che aggiunge fluff” (se vogliamo, fuffa) al messaggio diretto. Le omissioni, cioè togliere le informazioni che farebbero scattare qualche allarme. Fino ad arrivare alla vera menzogna, cioè far credere, magari senza dirlo in modo esplicito ma inducendo comunque a pensarlo, che un prodotto avrà degli effetti maggiori di quelli reali. E qui cominciano i problemi, perché dalla semplice tecnica furba si passa alla pratica commerciale scorretta.
La pubblicità mascherata da articolo giornalistico è un vecchio male del mestiere, rinverdito dal fenomeno delle fashion blogger
Un passaggio sulla sezione “attività commerciali vietate” della sezione giustizia della Commissione europea è quanto mai istruttivo. Un venditore che fa pressione psicologica e dice che se non compri sarai licenziato. Un messaggio diretto ai bambini perché chiedano ai genitori di comprare qualcosa. Una finta liquidazione di un negozio invece vivo e vegeto. Un’offerta limitata nel tempo che invece si protrae senza limiti (in Italia è stata sanzionata per questa pratica Poltrone e Sofà). O al contrario, la pubblicità di offerte per oggetti che hanno una disponibilità limitatissima. La finta vincita di premi, trucco datato ma su Internet sempreverde. Fino ai temi più caldi nell’epoca del web 2.0: dalla falsa testimonianza di un consumatore alla pubblicità mascherata da articolo giornalistico. Un vecchio male del mestiere di cui si è tornati a parlare per il fenomeno delle fashion blogger, ma che rimane molto più ampio e quasi sempre senza sanzioni da parte dell’ordine dei giornalisti.
Astroturfing: l’infiltrazione del falso cliente
La maggior parte degli acquisti di turismo, informatica ed elettronica è influenzata dai giudizi dei consumatori online. Peccato che spesso siano finti
«Ho provato queste gocce e mio figlio non ha più le coliche». «Un ristorante eccellente, con proprietari gentilissimi». «Il miglior regolabarba che abbia mai avuto». Oppure, all’inverso: «Il mal di pancia del bambino è rimasto, soldi buttati». «Servizio lento, menu banale, locale da evitare». «È un rasoio o un tosaerba? Stare alla larga». Di frasi come queste ne leggiamo decine alla settimana, sui forum o sui siti di e-commerce, e da questi giudizi dipendono sempre di più i nostri acquisti. La lettura online delle valutazioni di altri utenti sugli stessi prodotti di interesse, diceva una ricerca neanche troppo recente, indirizza la scelta nel 58,1% degli acquisti sul web nell’ambito del Turismo, nel 57,3% nel settore dei pc/tablet, nel 56,9% nell’elettronica di consumo e nel 34,4% degli acquisti di prodotti di Bellezza. Il problema è che nessuno può essere sicuro che i giudizi siano veri.
Ha fatto scalpore, nel dicembre 2014, la sanzione che l’Antitrust ha comminato al portale Tripadvisor proprio sulla genuinità dei commenti
Il fenomeno dei falsi commenti sui forum o siti di ecommerce è noto da anni e ha cambiato nome più volte, da astroturfing (dal nome dell’erba artificiale nei campi da calcetto) a infiltration. La sostanza è la stessa: creare finti commenti da parte di finti consumatori al soldo di agenzie di comunicazione borderline. Un fenomeno che è fastidioso quando riguarda il turismo ma che è odioso se di mezzo c’è la salute. E che per anni è rimasto un tema da convegni, con sanzioni previste solo sulla carta senza che venissero prese contromisure concrete. Per questo ha fatto scalpore, nel dicembre 2014, la sanzione che l’Antitrust ha comminato al portale Tripadvisor, proprio su questo tema. L’accusa: aver fatto credere, nelle comunicazioni, che tutti i giudizi fossero genuini. Sanzione: 500mila euro, segno che l’Autorità garante della concorrenza su questo punto, come sulla comunicazione più classica (soprattutto sui fronti della telefonia, trasporti, alimentare e ultimamente compro oro), ha deciso di dare un’accelerazione. Tripadvisor, peraltro, come altri servizi di questo tipo, a partire da Amazon, ha preso delle contromisure e permette di tracciare l’attività dei recensori: vedere che cosa hanno recensito e con quali giudizi. Un modo per limitare le infiltrazioni ma non per bloccarle.
Pallera, Ninja Marketing: «Quello dei finti commenti è un fenomeno ancora molto diffuso. Addirittura c’è chi lo ha messo nelle brochure aziendali»
Quello dei finti commenti «è un fenomeno ancora molto diffuso. Ritorna, nonostante gli anni di impegno al contrasto da parte di associazioni come Womma, Word of Mouth Marketing Association. Addirittura c’è chi lo ha messo nelle brochure aziendali, chiamandolo infiltration». L’analisi viene da uno dei membri italiani della Womma, Mirko Pallera, co-founder e Ceo di Ninja Marketing, società specializzata nella formazione al marketing innovativo. «Si sono voluti 10 anni perché l’Antistrust italiana riuscisse a dare una sanzione, l’America è arrivata un decennio prima». Sarà l’inizio di un contrasto vero anche in Italia? «È probabile e auspicabile – risponde Pallera -: è importante regolamentare, altrimenti si perde la fiducia, ci perdono tutti. È interesse di tutto il mercato ristabilire una discussione etica, sono convinto che questo tipo di attività sia inefficace».
L’origine del bluff
Pallera: «Se ancora oggi al marketing si associa la finzione e la persuasione occulta, è perché c’è stato troppo spesso un approccio scellerato»
Il cofondatore di Ninja Marketing si è dato una missione: «non far considerare più marketing una parolaccia». «Non è il mestiere del demonio – aggiunge -, da quando esiste l’uomo cerca di porre in evidenza i pregi e nascondere i difetti. La belladonna è una pianta chiamata così perché serviva per colorare di rosso le gote delle donne». Una comunicazione deve fare leva sui desideri e «l’origine del bluff è il tentativo di trovare modi sempre nuovi per fare breccia nella consapevolezza del consumatore. La Unique selling proposition, teorizzata da Rosser Reeves, dice che bisogna costantemente trovare qualcosa che differenzi il prodotto».
Ma se ancora oggi al marketing si associa la finzione e la persuasione occulta, è perché «c’è stato troppo spesso un approccio scellerato». Come sull’astroturfing: «Per me può vincere solo un approccio etico – argomenta -. Non per moralismo, ma oggi perché tutto viene fuori, non si possono nascondere dei segreti e lo sputtanamento è globale. Se qualcuno che è coinvolto non è contento salta tutto. Se non sei un marchio o un comunicatore mordi e fuggi, non puoi permetterti di farti una pessima reputazione».
Le società che fanno ricorso a questi metodi però esistono. Per Pallera si tratta di piccole agenzie. «Magari risiedono in paradisi fiscali, o magari sono rami nascosti di società serie. È un mercato parallelo».
Il falso in timeline
Un altro esempio di bluff è quello della creazione di profili falsi di follower su Twitter
L’astroturfing o infiltration è solo una delle evoluzioni del marketing nel territorio del “male” ai tempi del web 2.0. Un altro esempio di bluff è quello della creazione di profili falsi di follower su Twitter. Fenomeno tutt’altro che nuovo, se già nel 2012 era emerso che Lady Gaga aveva solo il 28% dei suoi 28 milioni di follower attivi, mentre il 34% era con tutta probabilità costituito da fake. Se si guarda al 2015, poco è cambiato, con star come Katy Perry, Taylor Swift, Justin Bieber, che contano su follower veri in percentuali che si fermano tra il 33 e il 42 per cento. Perché lo fanno? Perché chi è più seguito ha più probabilità di diventare ancora più popolare, un po’ come funzionava ai tempi delle classifiche dei dischi e cd più venduti. Anche in questo caso, però, non è detto che sia sempre una buona idea. «So che molte società estere vendono profili fake su Twitter – continua Pallera -. Ma non so se funziona, per me non serve a niente. Cosa ti serve avere 2-300 mila follower che sono bot, se quando ti beccano fai una figura pessima? È vero, crea un hype, ma non penso che la gente sia scema come qualcuno pensa».