Siamo diventati un Paese di ex: ex fabbriche, ex caserme, ex scali ferroviari, ex ospedali, ex preture, ex macelli. Da vent’anni le città si sono riempite, se così si può dire, di spazi vuoti. Ma se a lungo questi luoghi sono stati visti come delle opportunità immense per ridare vita alle città e ai centri minori, oggi sono sempre più un problema. Con la crisi dell’edilizia, la saturazione dei centri commerciali e le banche che non finanziano più progetti con la manica larga di un tempo, rischiano di rimanere zone destinate al degrado per un periodo lunghissimo, con tutti i problemi di inquinamento e sicurezza che ne derivano. Per questo è ora di lasciare alle spalle almeno le leggi che hanno frenato fin qui le opere di riqualificazione: normative poco chiare sulle bonifiche, soldi a singhiozzo per i progetti pubblici, approccio confuso alla collaborazione tra pubblico e privato e un regolamento edilizio diverso per ciascuno degli 8mila comuni italiani. Anche perché, alle mille aree vuote delle città italiane si sta aggiungendo un altro fronte: quello delle zone residenziali degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, costruite nel periodo della speculazione edilizia e che ora cadono a pezzi. Gli esempi stranieri, a partire da Marsiglia, dicono che si può intervenire anche con interventi leggeri. E che i soldi del piano Juncker per gli investimenti sarebbe meglio usarli per questo tipo di interventi piuttosto che per grandi opere di dubbia utilità.
Città svuotate
Falck a Milano, Bagnoli a Napoli, Carapelli a Firenze, Fiat-Lingotto a Torino. L’Italia ha cominciato a fare i conti con le aree dismesse a partire da questi nomi. Poi, dall’inizio degli anni Novanta, i nomi sono diventati decine, poi centinaia, poi migliaia. Non c’è comune con una storia industriale che non abbia fatto i conti con spazi enormi nelle città che si liberavano. Chi scrive vive a Saronno, tra le province di Varese e Milano: 500mila metri quadrati di spazi ex industriali, il principale dei quali dell’ex fabbrica di auto Isotta Fraschini. Al loro interno vegetazione cresciuta sopra aree da bonificare, capannoni enormi, uffici con calendari e giornali che fotografano un mondo fermo al 1985, quando il complesso chiuse. Teoricamente un’opportunità di creare un secondo storico attaccato a quello esistente. Nella pratica i vari tentativi di riqualificazione sono naufragati e il caso non è certo isolato. «I comuni non hanno soldi per mettere a posto le aree, i privati sono in cattive condizioni, le case nuove non si vendono, le banche non fanno più, come qualche anno fa, finanziamenti a progetti anche poco credibili – dice a Linkiesta Simone Cola, componente del consiglio nazionale degli Architetti con delega a cultura, promozione e comunicazione -. In questa situazione possono avere successo solo iniziative su piccoli tagli, magari con progetti di co-housing».
Poggio, Legambiente: «Abbiamo lasciato tutti un po’ di sangue, perché raramente abbiamo ottenuto che chi aveva abbandonato l’area la ripulisse»
Sistemare le aree inquinate e industriali non è mai stato semplice. Alcuni casi sono stati considerati di successo (Torino in generale e il Lingotto in particolare), altri fallimentari (Bagnoli a Napoli), altri buoni ma imcompiuti (Firenze Novoli). Legambiente è stata coinvolta in centinaia di casi ed è l’osservatorio ideale da cui partire. «Il punto da cui iniziare è la necessità di bonificare le aree. Abbiamo lasciato tutti un po’ di sangue, perché raramente abbiamo ottenuto che chi aveva abbandonato l’area la ripulisse, anche se la normativa ha fatto passi avanti», spiega a Linkiesta Andrea Poggio, vicedirettore generale di Legambiente. Il problema è stato storicamente di due tipi: «Talvolta la colpa è stata di chi ha fatto la bonifica cercando di imbrogliare, ma talvolta la responsabilità è stata di chi ha fatto leggi poco chiare e di chi le ha interpretate. A lungo le Asl e le Arpa regionali hanno applicato le norme in modo più o meno restrittivo e questo non ha reso possibile creare un’industria delle bonifiche». La situazione peggiore, aggiunge Poggio, è quando i soldi vanno e vengono: «il Piano nazionale delle bonifiche è stato finanziato a singhiozzo e il risultato è che ci sono opere ferme da decenni».
La proliferazione di centri commerciali
Le riqualificazioni con centri commerciali sono più semplici che con le case, perché i comuni dovevano confrontarsi con un solo imprenditore che decide
Per molto tempo, in queste condizioni, l’unica soluzione è stata cercare qualche privato che comprasse l’area dismessa, pagasse la bonifica e cercasse di valorizzare al massimo l’investimento. «Per questo quasi mai si è riusciti a trasformare questi spazi in aree verdi, agricole o con nuovi insediamenti di tipo produttivo», continua Poggio. Le strade sono state due: costruire case o centri commerciali. La prima soluzione è quella più a rischio, perché bisogna trovare molti compratori. «Basti vedere l’area di Santa Giulia a Milano, dove la parte più ricca e nel verde del progetto di Zunino non si è mai realizzata e il costruttore è fallito. Poi si è scoperto che parte della bonifica non era stata realizzata». Nel caso dei centri commerciali è stato più semplice, perché i comuni dovevano confrontarsi con un solo imprenditore che decide. L’esempio più caldo, nell’area milanese, è il centro commerciale che aprirà a metà 2016 nell’area ex Alfa Romeo di Arese. Lo sviluppatore è Finiper, la società che nel 2004 installò un centro commerciale nell’area ex Alfa del Portello, a Milano. «Ormai, però – aggiunge Poggio – il mercato dei centri commerciali è saturo. Inoltre il problema è come rendere questi centri collegati al tessuto urbano e al contesto esistente. Il punto è come fare in modo che queste aree siano parte delle città che stiamo costruendo. È giusto, altrimenti, avere centri abitati che si svuotano per la concorrenza dei centri commerciali?». Una soluzione è quella che già si vede sul mercato, soprattutto all’estero: molti centri commerciali di nuova generazione stanno uscendo dallo schema di “scatolone” chiuso e si stanno trasformando in “lifestyle center”, che dialogano con il resto della città.
Il nuovo approccio
Marina Dragotto, Audis: «il tema ora è affrontato in modo più complesso. La stagione dei fondi europei ha permesso di fare progetti con business plan più precisi, ma c’è molto da fare»
Proprio il mercato fermo è un’occasione per riflettere su dove si sta andando. «Negli anni Novanta per la prima volta le città non crescevano più ma implodevano – dice l’architetto Marina Dragotto, direttore dell’associazione Audis, nata proprio per gestire il tema delle aree dismesse – . All’inizio è prevalsa la paura e tutto è stato gestito come un’emergenza: le priorità sono state recuperare parte del lavoro e affrontare il tema urbanistico, l’aspetto ambientale è stato completamente trascurato. Fino al ’96-’97 i progetti si facevano addirittura senza prevedere le bonifiche». In seguito, aggiunge Marina Dragotto, il tema è stato affrontato in modo più complesso. La stagione dei fondi europei ha permesso di fare progetti con business plan più precisi e preparati in anticipo ed è aumentata «la consapevolezza politica che i progetti fossero fatti in partnership tra pubblico e privato». Ma su questo fronte, aggiunge, c’è molto da lavorare. Nel caso delle caserme che l’esercito vuole vendere, «i processi di dismissione non sono stati sempre molto efficaci. Lo Stato si aspettava di vendere a prezzi alti e ha dato l’impressione di voler fare soprattutto cassa. Questo ha generato difficoltà di intervento. In seguito sono nate società per gestire questi processi e sono stati fatti passi avanti». Un altro limite da superare, sottolinea, è quello di considerare le singole aree singolarmente. «Va vista come una rete di occasioni attraverso le quali rimettere in moto una città», commenta, «bisogna avere la convinzione che le città sono il motore dello sviluppo di un Paese e che se tutto resta fermo, è un male per il sistema».
La miniera delle caserme
Paolo Mellano, Politecnico di Torino: «Le caserme spesso sono in aree centrali, facilmente raggiungibili, e hanno densità molto bassa. Possono essere riconvertite a uso residenziale e a uso pubblico: dallo sport alle attività per le scuole o le università»
Quello della vendita delle caserme è un tema che si è posto già dalla fine degli anni Novanta, con l’abolizione della leva obbligatoria. Il numero di componenti dell’esercito è passato da 350mila a 175mila (e scenderà a 150mila). Anche se ora ci sono più spazi per ogni militare, un gran numero di caserme (1.500 strutture sulle 6.700 in dotazione all’esercito) è diventato solo un costo da gestire e quindi andava venduto. Si è dovuto aspettare però il 2014 perché arrivassero i protocolli di intesa tra il ministero della Difesa, l’agenzia del Demanio e i comuni di Firenze, Roma, Milano e Torino, per una ventina di strutture. Il nuovo approccio sembra finalmente efficace. «In ogni città è stata creata una task force, a cui partecipano, oltre agli ufficiali del comune, gli esperti del ministero della Difesa, del Demanio e delle soprintendenze, perché alcune di queste caserme, come la Mameli di Milano o la La Marmora di Torino sono opere pregevoli dell’800 e quindi sottoposte a vincoli – spiega a Linkiesta Paolo Mellano, professore ordinario del Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino -. Il tavolo ha il compito di valorizzare i beni perché siano messi sul mercato e farli diventare oggetto di riqualificazione urbana». Le caserme sembrano avere tutte le caratteristiche per essere interessanti, aggiunge Mellano: «spesso sono in aree centrali, facilmente raggiungibili, e hanno densità molto bassa: hanno all’interno giardini e spazi vuoti che possono essere riconvertiti a uso residenziale e a uso pubblico: dallo sport alle attività per le scuole o le università». Il punto cruciale, aggiunge, è creare un accordo quadro in cui tutti i soggetti sono già d’accordo, in modo che se un investitore arriva non deve perdere anni in battaglie con la soprintendenza o uno degli altri soggetti. L’altra buona notizia, aggiunge, è che i progetti che si intravedono a Torino non sono il classico centro commerciale. «Si parla di residenziale per studenti, social housing, edifici direzionali come uffici di quartiere, uffici postali e ambulatori, spazi per università, uffici di banche, cosa che non sorprende visto che i principali investitori sono Sgr bancarie».
Le altre aree dismesse
Dopo le aree industriali ci sono state quelle dei servizi: aree ferroviarie, porti, ospedali chiusi, ex macelli
Le aree dismesse delle nostre città non sono però solo ex fabbriche e caserme. Dopo le aree industriali ci sono state quelle dei servizi: aree ferroviarie, porti, ospedali chiusi, ex macelli. Nelle ferrovie si sono visti finora gli interventi più estesi. Il gruppo Fs nel 1991 ha fondato la società Metropolis S.p.A., ora Ferservizi, proprio per occuparsi del consistente patrimonio immobiliare del gruppo. Sono nati così gli interventi di Spina Centrale a Torino (al posto dell’area del passante ferroviario), di Rogoredo e Porta Garibaldi a Milano, di Roma Tiburtina. Su tutti gli altri fronti, aggiunge l’architetto Cola, si è indietro. «A Pistoia e Bergamo, ad esempio, hanno grandi ospedali in città di cui non sanno bene cosa fare».
Le aree residenziali
Dragotto, Audis: «C’è la necessità di rigenerare le case degli anni ’60 e ’70 che non rispondono più alle esigenze delle persone. Sono edifici degradati, che non hanno tenuta energetica, con problemi sociali»
Il prossimo grande fronte su cui lavorare, per la rigenerazione urbana, dopo le zone industriali e di servizi, sarà quello delle aree residenziali. «C’è la necessità di rigenerare le case degli anni ’60 e ’70 che non rispondono più alle esigenze delle persone. Sono edifici degradati, che non hanno tenuta energetica e che sono stati abbandonati dagli italiani, con problemi di tipo sociale», commenta Marina Dragotto. Si parla soprattutto di case popolari, ma anche di centri storici che cadono a pezzi. Rimettere mano, aggiunge, è più facile dove il controllo è rimasto pubblico, perché dove le case sono state vendute agli inquilini il degrado è aumentato. Sul tema degli “eco-quartieri” è stato elaborato un documento tra Audis, Gbc Italia e Legambiente.
Gli esempi da imitare? Marsiglia e Amburgo
Gli esempi, aggiunge Andrea Poggio di Legambiente, ci sono soprattutto all’estero. Ad Amburgo, «dove si sta rifacendo tutta l’area portuale, con uffici, abitazioni, una Filarmonica, aree congressi e per università». Ma anche in Francia, dove, spiega, «ci sono 300 progetti portati davanti allo Stato e 100 cantieri aperti. Visto che anche in Francia c’è un problema di finanziamenti pubblici, il tema è stato messo al centro del dibattito su come utilizzare i fondi del piano Juncker per le infrastrutture». Un esempio seguito pochissimo (se non per casi come il progetto del comune di Baranzate, in provincia di Milano), ma che si potrebbe fare anche con relativamente pochi soldi. Lo dimostra, dice Simona Cola, il caso di Marsiglia, in Francia, dove l’intervento in un complesso industriale è stato leggero, attuato allo scopo di evitare il circolo vizioso della “finestra rotta” (il degrado che alimenta il degrado), e realizzato dando spazio a sedi di co-working e associazioni. «Il quartiere ha preso nuova vita e nel 2013, anno in cui Marsiglia è stata capitale della cultura, l’area è stata visitata da mezzo milione di persone».