Buon compleanno, Al

Buon compleanno, Al

Nelle giornate di bel tempo, quando Al Pacino era piccolo, lui e suo nonno materno si sedevano sul tetto di catrame del loro caseggiato nel South Bronx, guardavano la metropoli sotto di loro, i grattacieli di Manhattan, e James Gerardi raccontava al nipote Alfredo James una quantità di storie che avevano come oggetto privilegiato la propria infanzia dickensiana nella New York di inizio secolo. Raccontava di fughe da casa, ripari di fortuna nelle fattorie, e di come rubare il latte. «Gli piaceva parlare con me, come se fossimo in una piccola barca a remi» (e qui l’immaginario da dickensiano diventa alla Mark Twain). «Il tetto era il nostro terrazzo. C’era questa babele linguistica: il polacco, l’ebraico, l’irlandese, il tedesco, lo spagnolo. Io sono venuto fuori da questo melting pot. Qualcosa di simile lo puoi sentire in alcuni drammi di Eugene O’Neill», spiega Al Pacino sulle pagine del New Yorker, sguinzagliando uno dei tanti riferimenti drammaturgici a cui lui, indiscussa star del grande schermo, resta indissolubilmente legato.

Ci si potrebbe aspettare che uno come Al Pacino, diventato celebre per ruoli come Michael Corleone (serve citare il film?), Tony Montana (Scarface), Carlito Brigante (Carlito’s way) o Sonny Wortzik (Quel pomeriggio di un giorno da cani) abbia avuto un’infanzia da scugnizzo italoamericano del Bronx. Ed è stato esattamente così. Non solo, anche il primo premio che vinse coincise, nel 1966, con l’interpretazione di un ragazzo di strada ne L’Indiano vuole il Bronx.

Il caseggiato di cui parla, quello del melting pot linguistico, è la casa dei suoi nonni materni, in cui Al trascorre l’infanzia dall’età di due anni, da quando cioè suo padre abbandonò lui e la madre Rose. Decisa a lasciare l’East Harlem, Rose si trasferisce col bambino nel Bronx dai suoi genitori, Kate e James Gerardi, una coppia di immigrati siciliani originari di Corleone, paese montuoso dell’entroterra palermitano, destinato ad assumere un’importanza cruciale per la carriera del nipote. L’infanzia “da scugnizzo” di Pacino trascorre così in un piccolo appartamento di tre stanze (abitato a volte anche da sette persone), in cui era concessa ben poca privacy ma nel quale, essendo l’unico bambino, Al soffriva anche di solitudine, ragion per cui, per ingannarla, passava molto tempo a inventare storie, condividendo l’attitudine affabulatoria del nonno.

In una famiglia di emigranti e figli di emigranti, il legame con la terra d’origine non può che essere molto radicato

In un nucleo familiare composto da emigranti e figli di emigranti, il legame con la terra d’origine non può che essere molto radicato. Alfredo mangia gli spaghetti cucinati dalla mamma e dalla nonna, impara la sua prima frase in italiano – «Una mano lava l’altra, tutte e due lavano la faccia» – e dalla sua amata postazione sul tetto sogna di andare nel suo «vero Paese». E in effetti ci andrà, anche se per un breve periodo: nella vita vera, a 20 anni, e nella finzione cinematografica, quando Michael Corleone, dopo l’omicidio di Sollozzo è costretto a nascondersi in Sicilia, dove conosce e sposa la sfortunata Apollonia.

Al momento però la Sicilia come Hollywood è ancora lontana e Pacino vive ancora nel Bronx dove tra i suoi conoscenti c’è soltanto un’altra bimba italo-americana: tutti gli altri sono irlandesi, ispanici, ebrei, afroamericani. «Nessuno sapeva pronunciare bene il mio nome e cognome», spiega Pacino, per questo resterà piacevolmente stupito quando anni più tardi, all’audizione per l’Actors Studio, Lee Strasberg lo chiama a recitare scandendo ogni sillaba alla perfezione. Al Pacino lo interpreterà come un segnale di buon augurio per la sua carriera.

La mamma, quando Al era ancora piccolo, trovò lavoro come maschera in un cinema, e iniziò a portare il figlio a vedere i film

La passione per la recitazione sembra accompagnarlo fin da giovanissimo (da ragazzino i suoi soprannomi erano “Sonny” e “l’Attore”). Suo padre, Salvatore, aveva 18 anni quando Alfredo nacque e 20 quando se ne andò. Tornò a trovarlo alcune volte, ad esempio in occasione di un paio di recite scolastiche, ma i due non ebbero mai un rapporto molto stretto. La madre Rose invece era una donna sensibile e amante del teatro. Portò Pacino a Broadway a vedere La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams, ed è proprio ad alcuni personaggi femminili di questo drammaturgo che Pacino paragona sua madre, in particolare a Laura e Amanda de Lo zoo di vetro. Era insomma una donna spiritosa ma anche fragile e tormentata, che lottò tutta la vita (assai breve in realtà) contro la depressione. Quando Al era ancora piccolo, trovò lavoro come maschera in un cinema, e iniziò a portare il figlio a vedere i film, stimolando la sua fantasia e incoraggiandolo a imbastire spettacolini per amici e parenti, liberamente tratti da ciò che vedeva sullo schermo.

Se la recitazione è una vocazione irrinunciabile, lo stesso non si può dire per lo studio. A 17 anni lascia la scuola, va a vivere al Greenwich Village e frequenta (per poco tempo in realtà) la High School of Performing Arts, mantenendosi nel frattempo con una grande quantità di mestieri diversi: fattorino, operaio, traslocatore. Viene ammesso allo Herbert Berghof, dove prende lezioni da colui che diventerà il suo primo mentore, Charles Laughton, che gli fa scoprire Joyce e Rimbaud. Partecipa con piccoli ruoli a vari spettacoli del Living Theatre e finalmente, nel ’66, riesce a entrare all’Actor Studio, dove lega immediatamente con il suo secondo mentore, Lee Strasberg, l’uomo dalla pronuncia italoamericana perfetta.

Pacino recita come Armstrong suonava il jazz: è «incapace di fare la stessa cosa due volte»

Qui mette a punto il suo stile recitativo, incentrato soprattutto sul metodo Stanislavskij dell’immedesimazione completa. Il rigore del metodo però lascia anche spazio all’invenzione: David Mamet, drammaturgo statunitense, paragona il suo lavoro sul personaggio al modo in cui Louis Armstrong suonava il jazz, ovvero «incapace di fare la stessa cosa due volte». Ne è un esempio l’ultimo giorno di riprese sul set de L’avvocato del diavolo, in cui Pacino interpreta per l’appunto Satana. A un tratto, anziché dire le sue battute, Pacino si lancia inaspettatamente in una cover di It Happened in Monterey di Frank Sinatra. Al regista Taylor Hackford l’idea piace e decide di mantenere la canzone, sincronizzando il labiale di Pacino con la voce del vero Sinatra. Secondo l’attrice Hellen Mirren (moglie di Hackford) lo studio ha dovuto pagare una somma enorme per i diritti, «ma ne è valsa la pena».

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Il vero momento di svolta nella sua carriera è però quello che tutti conosciamo. Nel ’72 Francis Ford Coppola lo sceglie per il ruolo di Michael nel Padrino, preferendolo a Robert Redford, Warren Beatty, Jack Nicholson, Ryan O’Neal e Robert De Niro. Qui Al recita a fianco di Marlon Brando, un attore cui era già stato paragonato anni prima, durante una recita scolastica: «Qui c’è il nuovo Marlon Brando» avevano detto alla madre. «Chi è Brando?» aveva chiesto Pacino.

Sul set del Padrino Brando dà a Al due consigli: non finire in tribunale e non trasferirti a Los Angeles. Ma per ora Pacino è riuscito a seguire pedissequamente solo il primo. Il Padrino gli regala anche la sua prima nomination agli Oscar (la prima di 8), che però vincerà soltanto 20 anni più tardi con Scent of a Woman, remake di Profumo di donna diretto da Dino Risi e interpretato da Vittorio Gassman. Il tenente colonnello Frank Slade, cinico non vedente egocentrico è un personaggio decisamente nelle sue corde e a chi giudica l’interpretazione “troppo teatrale” Pacino replica che è lo stesso personaggio a essere sopra le righe.

Il film è un’occasione per riflettere ancora una volta sul suo rapporto con la terra d’origine e, soprattutto, con il cinema italiano, con il quale Pacino sente un forte legame. Tra gli interpreti da lui più apprezzati, oltre a Gassman, ci sono Marcello Mastroianni e il sempre intenso Gian Maria Volontè. Anche i colleghi italoamericani che salirono alla ribalta negli anni ’70 – «Ben Gazzara, Anthony Franciosa, Richard Conte, poi seguiti da Stallone, Travolta e dall’intera famiglia Coppola» – sono guardati da Pacino con grande simpatia. D’altra parte, cosa sarebbe Hollywood senza gli italoamericani? E a proposito di colleghi con origini italiane, Pacino ha sempre tenuto a smentire la presunta rivalità con Robert De Niro, adducendo come prova il fatto di aver lavorato insieme in alcuni film. Il suo vero rivale è invece Dustin Hoffman: «Per anni ci siamo litigati un sacco di ruoli, tanto che un noto produttore, Alexander Cohen, voleva organizzare un incontro di boxe fra noi due». Ma Pacino non si riconosce grandi doti da boxeur: quando gli chiedono chi avrebbe vinto risponde: «Avrei scommesso su Dustin. Io ero magrolino, da bambino, e le prendevo anche dalle femmine».

Nel ’92 è stato il primo attore a guadagnarsi ben due nomination agli Oscar nello stesso anno

Oggi, a 75 anni appena compiuti, Al Pacino vive a New York in una villa sul fiume Hudson con la compagna, l’attrice argentina Lucila Solá, e con cinque cani. Non si è mai sposato, ma ha avuto una figlia, Julie Marie, con l’insegnante di recitazione Jan Tarrant, e due gemelli, Anton e Olivia, con l’attrice Beverly D’Angelo. Ama vestirsi di nero e da ben 20 anni ha smesso di fumare due pacchetti di sigarette al giorno per salvaguardare la propria voce. Nel ’92 è stato il primo attore a guadagnarsi ben due nomination agli Oscar nello stesso anno e nonostante nel suo bilancio professionale si contino anche una serie di epici rifiuti, primo tra tutti la parte del Capitano Willard in Apoclaypse Now (ma quale grande attore non ne ha collezionati a bizzeffe?), il suo status di indiscussa leggenda del cinema hollywoodiano è più che mai radicato. Tra gli attori di nuova generazione gli piace molto Joaquin Phoenix, in particolare per la sua interpretazione in The Master. Però, per convincersi del tutto, gli piacerebbe vederlo a teatro: «Se recitasse a teatro sarei il suo primo spettatore».

Consapevole di essere uno degli attori più imitati di Hollywood, Pacino ha un’opinione precisa anche in proposito: i migliori sono Jamie Foxx e Kevin Spacey. Anche Johnny Depp non sarebbe male, ma Pacino non gli ha mai perdonato di non aver capito una barzelletta sul set di Donnie Brasco: «Uno scheletro entra in un bar e ordina: ’Una birra e uno straccio per asciugare per terra’…» Un giudizio arbitrario? Forse. Ma a Pacino l’ultima parola.

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