Washington, 22 aprile. Nel palazzone della Banca Mondiale, a 200 metri dai giardini della Casa Bianca, si riunisce il board dei direttori esecutivi. Dopo un anno di lavoro, infinite navette tra i corridoi e cinque missioni in Burundi, viene approvato un progetto da 22 milioni di dollari per la ristrutturazione del sistema fiscale del Paese.
In una nazione, come il Burundi, in cui le tasse si disperdono e pesano poco più di un decimo del Pil, è impossibile fornire servizi alla popolazione, dalle scuole agli ospedali. «Il problema è: come si raccolgono le tasse? Il Burundi ha un governo fragile, esce da un lungo conflitto. Vivono di aiuti ma sanno che questi non dureranno per sempre. Il punto è creare un meccanismo virtuoso di raccolta e di erogazione di servizi». A parlare è Marco Larizza, team leader del progetto. Classe 1977, cresciuto nel milanese, è attualmente senior governance and public sector specialist nell’Istituzione con sede a Washington. Una riforma delle tasse non è proprio il primo pensiero che viene quando si pensa agli aiuti all’Africa martoriata dalla fame, ma è grazie alla somma di questi interventi che il Continente Nero può cambiare faccia.
Il progetto di riforma fiscale in Burundi traccia una via: è meglio non dedicare soldi ed energie per realizzare enormi infrastrutture, ma per la costruzione degli Stati
Il progetto, per quanto limitato nei fondi, rappresenta uno dei nuovi approcci seguiti all’interno della World Bank. Non dedicare soldi ed energie per realizzare enormi infrastrutture, ma per la costruzione degli Stati: formare funzionari e creare burocrazie moderne per evitare che le ricchezze, spesso enormi, di questi Paesi, siano catturate da elite predatorie o svendute alle multinazionali, a causa della corruzione e dell’incapacità di negoziare. È il rafforzamento delle istituzioni, molto più che la capacità di attrarre investimenti dall’estero, è convinto Larizza, che permetterà a buona parte dell’Africa di avere nazioni con un “middle income” (reddito medio), simili a molti Paesi asiatici odierni. Già oggi, comunque, nonostante Ebola, Aids, malaria, guerre e terrorismo, il continente africano sta vivendo una vera rivoluzione, con un cambiamento, politico ed economico, radicale rispetto a soli dieci anni fa.
Il dibattito nella “Banca”
Con 4.000 progetti che in giro per il mondo, “la Banca”, come viene chiamata da chi ci lavora, è stata spesso accusata di disperdere finanziamenti per alimentare la propria burocrazia e di non raggiungere gli obiettivi che si è posta. Tra i più critici ci sono le associazioni che alimentano la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale (Crbm), che contestano il ricorso ai “reinsediamenti involontari”, cioè l’obbligo per i cittadini di spostarsi a causa delle costruzioni di grandi infrastrutture (strade o dighe). Come raccontato da la Repubblica, i progetti finanziati che prevedono esplicitamente tali azioni di reinsediamento sono cresciuti di oltre il 400% nelle ultime due decadi: erano 146 quelli in corso nel 1993 (8% delle spese totali), 747 a fine 2009 (29%).
Marco Larizza, Banca Mondiale: «Si è creato un dibattito sulle politiche che creano sviluppo, perché non sempre gli obiettivi di creare occupazione si realizzano, ci sono flussi di denaro con risultati modesti, a volte negativi»
Il dibattito è presente anche all’interno della Banca Mondiale. In essa, spiega Larizza, non esiste un’ideologia netta come nel Fmi. «Il Fondo monetario è più semplice da raccontare: nel 90% dei casi di crisi finanziarie per prevenire contagi impone di tagliare le spese e aumentare le tasse. Avendo un mandato molto ristretto, ha un approccio tradizionale». Ma, aggiunge, « la Banca Mondiale in generale è altrettanto ostile al cambiamento, come tutte le burocrazie. Essenzialmente esiste perché deve dare soldi ai Paesi che ne hanno bisogno. Ma si è creato un dibattito sulle politiche che creano sviluppo, perché non sempre gli obiettivi di creare occupazione si realizzano, ci sono flussi di denaro con risultati modesti, a volte negativi. È un dibattito trasparente perché ci sono pressioni dei Paesi donatori perché ci siano migliori risultati».
All’interno della “Banca”, spiega Larizza, «per 40 anni la ricetta è stata simile: incentivare la costruzione di infrastrutture, come strade e dighe. Questo però ha portato a pochi progetti, o a enormi dighe che gli Stati non erano in grado di gestire e che quindi non hanno portato sviluppo. Un altro gruppo all’interno della Banca Mondiale dice che sono più importanti le istituzioni, ossia tutto il lavoro per non far catturare le istituzioni dalle elite. Ci sono persone che tendono ad aprire questi dibattiti».
L’esempio del Burundi
L’esempio della riforma fiscale in Burundi racconta come vanno avanti questi programmi di “costruzione dello Stato”. La richiesta, spiega Larizza, è arrivata dal governo locale, perché il sistema di raccolta delle tasse è completamente inefficiente e le entrate fiscali coprono solo il 12% del Pil.
Larizza: «Il 90% dei fondi del progetto di riforma fiscale in Burundi sono per la formazione di breve o di lungo termine»
«Il 90% dei fondi del progetto – racconta – sono per la formazione di breve o di lungo termine. In larga parte si tratta di insegnare ai funzionari a gestire la fiscalità, per esempio nel settore minerario, costituito anche da piccolissimi produttori che vanno a cercare minerali nei fiumi. Si porta un esperto che forma i funzionari sul posto». Un altro fronte è creare un sistema fiscale informatizzato. «In Burundi e in altri Paesi tutti i documenti fiscali si compilano ancora a mano, con tutti i rischi di contraffazione ed errori. Il software è simile a quello che è stato introdotto in Europa».
Quanto ai meccanismi burocratici, sono uguali per tutti i progetti, cambiano solo le competenze e le istituzioni con cui si parla. Per la riforma fiscale in Burundi ci sono state cinque missioni sul posto, in cui un team di 5-10 persone ha incontrato il ministero delle Finanze e il dipartimento di statistica. Dopo una serie di controlli qualità interni da parte della Banca sulla struttura del progetto, arriva il momento in cui il direttore del Paese in questione decide di dare o meno i fondi. È solo una questione di scelta di allocazione, perché la quantità di denaro per i singoli Paesi è già assegnata. Il difficile, però, arriva dopo, quando il programma parte e bisogna controllarne l’efficacia nei 4-5 anni di durata. C’è una matrice dei risultati, con indicatori di performance. Spesso a metà strada bisogna ritarare gli obiettivi, perché i risultati sono lontani da quelli attesi.
Il progetto di riforma fiscale del Burundi, fonte Banca Mondiale
Funzionari in divisa
Per pacificare situazioni di guerriglia, a molti ribelli sono state tolte le armi e sono dati posti in amministrazioni pubbliche. E quelli bravi scappano
Uno dei problemi di mettere in atto programmi di costruzione di una burocrazia è che i funzionari formati hanno appena deposto le armi. «Le competenze sono diverse a seconda dei Paesi in cui operiamo – racconta Larizza -. In alcuni c’è una burocrazia già efficiente, ma la maggior parte dei Paesi seguiti sono usciti da conflitti durati 10-15 anni, come il Burundi. Per pacificare situazioni di guerriglia, a molti ribelli sono state tolte le armi e sono dati posti in amministrazioni pubbliche. Questo è avvenuto in Burundi, ma anche in Sierra Leone e in Lesotho». Come è facile prevedere, «la qualità di questi funzionari è molto povera, perché sono stati assunti in funzione della pacificazione. Sul piano politico l’obiettivo viene raggiunto, mentre sul piano pratico, il funzionario non risponde a logiche di competenza. Manca anche la predisposizione, non sono lavori che sono stati scelti per avere una carriera».
Un secondo problema è che quando si trovano dei funzionari capaci, una volta formati vanno a lavorare in banche o in altri istituti donatori. «C’è una forte distorsione, perché i migliori se ne vanno, c’è un brain drain strutturale».
La crescita è arrivata
Per il 2015 l’aumento medio del Pil nell’Africa sub-sahariana sarà del 4,5%, con picchi dell’8-10 per cento
Se si fa mente locale sulle notizie che arrivano dall’Africa, quello che viene in mente sono l’epidemia di Ebola, l’Aids, la malaria, le stragi e i rapimenti di Boko-Haram in Nigeria, quelle degli Al Shaabab tra Somalia e Kenya, la guerra in Libia, la repressione in Egitto, gli attentati in Tunisia, la situazione sempre tesa in Algeria, la guerra in Mali e quella (di cui nessuno parla) nella Repubblica Centrafricana. Questo elenco di conflitti e malattie avrà il suo effetto: dopo anni di crescita a ritmi sostenuti, c’è stato un rallentamento degi investimenti diretti esteri. Anche il calo dei prezzi delle materie prime, a partire dal petrolio, avrà un impatto negativo. Ma la crescita c’è stata per anni e, secondo i report dell’Onu e della Banca Mondiale, è destinata a proseguire in futuro. Per il 2015 l’aumento medio del Pil nell’Africa sub-sahariana sarà del 4,5%, un punto in meno rispetto a stime precedenti, e nel 2016 del 5,1 per cento.
Quali sono gli effetti di questi incrementi nella vita quotidiana? «Sono processi di lungo periodo e quindi bisogna sempre capire qual è l’anno di confronto – risponde Larizza -. Le condizioni sono in ogni caso assai diverse da quelle di 10-15 anni fa. Un indicatore è l’accesso a Internet, soprattutto grazie alla rivoluzione del mobile phone. Ci sono stati tassi di crescita enormi e si stanno creando delle opportunità incredibili. Il settore privato sta esplodendo: i piccoli imprenditori possono usare il telefono per trasferire i crediti, i piccoli agricoltori hanno accesso ai fondi, c’è una forte crescita dell’agribusiness o di piccole attività manifatturiere. In più sono state create una serie di zone a integrazione economica, di libero scambio, che è stato uno dei mantra della Banca Mondiale».
Un giovanissimo venditore di carte per telefoni cellulari a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo (FEDERICO SCOPPA/AFP/Getty Images)
Dieci anni fa i due terzi dei governi in Africa erano regimi autoritari. Oggi sono prevalentemente democrazie, anche se incomplete
Inoltre, aggiunge, «c’è un cambiamento politico: dieci anni fa i due terzi dei governi in Africa erano regimi autoritari. Oggi sono prevalentemente democrazie. Sono incomplete o democrazie solo elettorali, ma stanno nascendo delle società civili, che in caso di problemi vanno a protestare nelle strade, non prendono le armi».
Le carestie continuano, soprattutto nel nel Corno d’Africa, e la Fao mostra che la situazione nel 2014 è peggiorata in sei Paesi. Ma la mappa dell’organizzazione dell’Onu dice che, se in dieci Paesi non ci sono stati progressi sufficienti, in 18 gli obiettivi sono stati raggiunti con uno scostamento dagli obiettivi inferiore al 5 per cento. «Se le carestie diminuiranno – commenta Larizza -, troverà conferma la profezia del Nobel per l’Economia Amartya Sen, secondo cui le carestie non esistono nelle società libere, perché hanno modo di correggere il tiro. Sen mette a confronto la Cina di Mao, dove morirono milioni di persone perché nessuno aveva il coraggio di presentare le cose come stavano, e l’India, dove queste correzioni erano possibili».
La mappa dei progressi sulla lotta alla fame della Fao. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Yes, Africa Can
Se questa è la situazione odierna, che succederà tra dieci anni? Un rapporto della Banca Mondiale, Yes Africa Can, sostiene che l’Africa andrà a due velocità. I Paesi più integrati con le economie mondiali e con più risorse si stima che diventino delle “middle income countries”, come molti Paesi dell’Asia. Ci saranno soprattutto problemi di redistribuzione della ricchezza, con elite molto ricche e altri poveri. L’altra parte dell’Africa è fatta dai paesi fragili, che o escono da conflitti o vivono in conflitti permanenti, o hanno istituzioni che non controllano il territorio.
Uno Stato per rialzarsi
Larizza: «Le multinazionali lasciano briciole ai governi, per una incapacità di negoziazione e mancanza di competenze che in queste dimensioni si vedono solo in Africa»
Proprio per questo, aggiunge Larizza, è la creazione di Stati la chiave per la crescita. «Penso che lo sviluppo dell’Africa non abbia a che fare con la capacità di attrarre il capitale. La variabile è la qualità delle istituzioni». La mancanza di istituzioni, aggiunge, porta a situazioni come quelle del Congo, dove esistono risorse naturali immense, ma in tasca allo Stato resta pochissimo. «Le multinazionali lasciano briciole ai governi, in Congo ci sono miliardi di royalties perse – spiega Larizza -. Le multinazionali strappano contratti predatori, sia per la corruzione dei funzionari, sia per una incapacità di negoziazione e mancanza di competenze che in queste dimensioni si vedono solo in Africa».
«I guai li fanno i governi, che hanno più possibilità di fare pressioni della Banca Mondiale o delle multinazionali»
Non è però il caso di adagiarsi sullo stereotipo dei Paesi poveri affamati dalle multinazionali. «Quando arrivi in Africa per la prima volta, ti porti dietro l’idea che ci siano Paesi ricchi e paesi poveri e che bisogna dare i soldi a quest’ultimi. Poi vedi che i governi hanno sempre delle elite ricche, il cui stile di vita è simile al nostro. L’idea terzomondista che l’Africa è povera perché c’è lo sfruttamento delle multinazionali e il neo-colonialismo è difficile che trovi aderenza con la realtà». La lezione che se ne trae è che «i guai li fanno i governi, che hanno più possibilità di fare pressioni della Banca Mondiale o delle multinazionali. Stando sul posto ti rendi conto che gli effetti principali vengono da chi li governa. È una lezione anche per noi in Europa, si pensa che si stia male solo per entità soprannazionali. Gli Stati stanno male perché i governi fanno politiche sbagliate».