D-Day, saper raccontare in tv la storia che ritorna

D-Day, saper raccontare in tv la storia che ritorna

Come si sa, la storia si ripete sempre. La prima volta come tragedia, la seconda come farsa. La terza, si potrebbe aggiungere, come programma televisivo. L’ultimo, in ordine di tempo, arriva da Rai 3, che in occasione dei settant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale decide di ri-raccontare gli ultimi giorni del conflitto con una nuova trasmissione. Si chiama “D-Day, i giorni cruciali della storia”, lo conduce Tommaso Cerno, direttore del Messaggero Veneto e firma dell’Espresso. Va in onda nella non facile prima serata del venerdì e ha, a detta del conduttore, un obiettivo ambizioso: «raccontare la storia di ieri con interrogativi di oggi», con «un nuovo linguaggio», spiega Cerno. Ci riesce?

Gli elementi che lo compongono sono quelli tipici: ospiti in studio, filmati d’epoca in bianco e nero, racconti di “inviati” sui luoghi e testimonianze autorevoli (ad esempio, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano). Se il materiale è tradizionale, il modo in cui è disposto ha un certo margine di originalità.

A cominciare dagli ospiti: il primo è Paolo Mieli, giornalista e saggista, che è fisso in tutte le puntate e «ha il compito di mantenerci sui binari di un discorso storico». In eterno collegamento (anche se è a Milano, dove viene registrata la trasmissione), incombe e (quando è il suo momento) commenta sui temi affrontati. Attorno a lui si susseguono altri interventi, per ogni puntata, di giornalisti, accademici, scrittori, testimoni ed esperti, declinati in maniera quasi cencelliana (per un Cencelli del discorso storico, sia chiaro). Per cui, a misurare la debolezza dell’esercito italiano interviene un generale come Fabio Mini, e a raccontare i rastrellamenti nazisti c’è Gad Lerner. Ma si dà spazio anche a elementi più pop, come Irene Cao che analizza la storia di Edda Ciano, e Natalia Aspesi che racconta la vita sotto le bombe. L’accademico è Filippo Focardi, che ha studiato la nascita del mito dell’”Italiano buono”, contrapposto al “tedesco cattivo”, grazie al quale l’Italia ha sfangato le sue responsabilità, non ha mai fatto i conti con la storia e, a differenza dei tedeschi, vive con tranquillità quel periodo.

Il secondo ingrediente sono i filmati, che hanno il compito di dare vividezza a ciò che si racconta, anche insistendo sul lato emotivo. Da un lato materiale d’archivio, in bianco e nero, di processioni, parate, bombardamenti, corpi straziati e rovine. Dall’altro i servizi di Fabio Toncelli, inviato “nella storia”, che va, oggi sui luoghi reali, quelli in cui si sono svolti i fatti di cui si parla nella puntata. Gira nella sala del Pappagallo, a Palazzo Venezia, dove il 25 luglio 1943, in una sera caldissima, venne votata la destituzione di Mussolini. Mostra la stanza da recluso del Duce a Campo Imperatore, appena prima che venisse “liberato” (meglio: rapito) dai nazisti. Oppure scende in mare con un sottomarino italiano dell’epoca.

Il suo compito è aggiungere colore, in senso letterale, alle immagini storiche e, in generale, utilizzare strumenti narrativi diversi: si affida al particolare, al dettaglio. Il racconto diventa un’inchiesta, o qualcosa che ci somiglia. In questo modo, cioè utilizzando strumenti dell’oggi per raccontare il passato si ottiene un solo effetto: portare dentro alla storia lo spettatore. Si riconoscono, nel passato, elementi quotidiani e familiari. Ne risulta un’idea più vivida appunto, più simile al presente.

Un esempio lo chiarisce: nella puntata si spiega che l’impreparazione –proverbiale – delle truppe italiane è figlia della corruzione, sistematica e diffusa, che favoriva alcune aziende (Fiat e Pirelli su tutte). Il risultato furono ritardi nelle consegne, materiali scadenti e tecnologie obsolete. In questo caso, il riferimento al presente, cioè a Expo non è solo ovvio: viene esplicitato. Il gioco è questo, a più livelli: ritrovare gli stessi meccanismi del presente nel passato, «nel rispetto della filologia», puntualizza Cerno. Si va dalla documentazione, al filmato, alla psicologia storica (“come pensava Edda Ciano, come sentiva?”). Ma siamo ancora lì: la tragedia, la farsa, la trasmissione.

Emerge, insomma, in un programma nuovo, un’idea circolare della storia: le cose accadono e ritornano (lo evidenzia anche il movimento della telecamera, e quello del conduttore nello studio). I fatti del passato tornano presenti, più vividi e vicini, «gli interrogativi sono quelli dell’oggi», appunto, e si indebolisce la caratteristica onniscienza sui fatti del passato di chi viene dopo. Ma se il passato è come il presente, le domande diventano inquietanti: come avremmo agito noi? Dove ci saremmo messi? Cosa avremmo fatto in quei momenti? Loro, i nostri nonni o bisonni, non tutti e non sempre, in qualche modo se la sono cavata, con eroismi e vergogne. E noi? Lo si scoprirà. Per ora, è sufficiente aver scoperto un’altra cosa: che esistano programmi in televisione che queste domande sono ancora in grado di suscitarle. E non è poco.