Esattamente un secolo fa — era un mercoledì — nasceva in uno slum di Philadelphia (e non Baltimora, come altre fonti riportano) una certa Eleanora Fagan. Figlia d’arte, se artisti si possono definire un suonatore di banjo di sedici anni e una ballerina di fila di tredici. Trapiantata ben presto in un bordello di Harlem, New York, e strapazzata dalle violenze e dall’odio razziale, Eleanora Fagan approderà infine alla Carnegie Hall diventando una vera e propria leggenda della musica jazz e non solo, diventando cioè la meglio conosciuta Billie Holiday.
Le tristi domeniche, le domeniche blues, sono qualcosa che Eleanora Fagan conobbe benissimo, e che interiorizzò fin dalla sua infanzia di arresti e violenze.
La prima volta l’ho incontrata durante l’adolescenza: in preda a uno Sturm und Drang stavo cercando le diverse versioni di Gloomy Sunday, la celebre “canzone ungherese del suicidio” composta da László Jávor e musicata da Rezső Seress. Frutto di una maledizione (o di un’abile mossa di marketing), quel testo malinconico eppure orgoglioso sembrava fatto su misura per lei, e la sua versione è probabilmente la più triste di tutte. (Pare che la BBC nel ’41 si rifiutò di trasmetterla perché considerata troppo deprimente in un momento così difficile per Londra, che si trovava sotto i bombardamenti tedeschi). Né poteva essere altrimenti; le tristi domeniche, le domeniche blues, sono qualcosa che Eleanora Fagan conobbe benissimo, e che interiorizzò fin dalla sua infanzia di arresti e violenze. Qualcosa che Billie Holiday imparerà col tempo a sublimare in musica: del resto è questo il blues, no?
Trascurata dal padre, con una madre impegnata a sbarcare il lunario tra mille lavori, Eleanora cresce sballottata tra amici e parenti. Trasferitasi a New York nel ’28, approda infine in un bordello di Harlem e per arrotondare si mette anche a fare le pulizie nelle case del quartiere. L’unica da cui non si fa pagare è proprio la tenutaria del bordello, che in cambio le fa ascoltare sul suo fonografo i dischi di Bessie Smith e Louis Armstrong.
La prima audizione è come ballerina e va male, ma il pianista si accorge di un altro talento: la ragazza sa cantare.
La musica inizia pian piano a diventare un lavoro a partire dall’ottobre del ’29, quando Eleanora cerca un ingaggio come ballerina in uno dei tanti club della 133esima. L’audizione non va come sperato, il ballo non è decisamente il suo forte, ma il pianista si accorge di un altro talento: la ragazza sa cantare.
Inizia così a esibirsi nei locali, alternando la mansione di cantante a quella di cameriera e assumendo il nome di Billie Holiday, che mette insieme il cognome d’arte paterno e il nome della sua attrice preferita, Billie Dove. È proprio mentre canta al Log Cabin Club che nel ’33 viene notata dal produttore John Hammond, un uomo dall’orecchio fine, che scoprirà gente come Aretha Franklin, Bob Dylan e Bruce Springsteen. Hammond la presenta al re dello swing Benny Goodman e da lì in poi, non senza qualche iniziale incertezza, prende avvio la fase professionale della sua carriera.
Nei club in cui cantava era costretta a utilizzare un ingresso riservato ai neri e doveva rimanere chiusa in camerino fino al momento dell’esibizione.
Dal ’36 inizia a incidere dischi con l’etichetta Vocalion e cominciano anche le collaborazioni illustri, come Lester Young, che conia per lei il soprannome “Lady Day”, e Artie Shaw, grazie all’aiuto del quale sarà una delle prime cantanti nere a esibirsi insieme a musicisti bianchi. Non senza difficoltà, in ogni modo; e incontrando resistenze non solo a sud della linea Mason e Dixon. Nei club in cui cantava era costretta a utilizzare un ingresso riservato ai neri e doveva rimanere chiusa in camerino fino al momento dell’esibizione.
In generale, episodi di razzismo più o meno latente l’accompagnarono per tutta la vita, come una volta in un hotel di New York quando dovette utilizzare il montacarichi anziché l’ascensore, nonostante si trovasse lì per cantare e fosse a tutti gli effetti la star della serata. Tuttavia è proprio in un locale della grande mela che Billie Holiday avrà modo di dire la sua al riguardo: il Café Society di New York, un locale in cui, in modo assai eloquente, dal soffitto pendeva un fantoccio di Hitler dai tratti scimmieschi. Un locale in cui le classi sociali si mescolavano in modo quasi inedito: il locale perfetto per far ascoltare Strange Fruit.
Strange Fruit nella carriera della Holiday rappresenta un netto spartiacque. Dopo anni passati a intrattenere i bianchi con canzoni leggere, spiazza tutti parlando di corpi neri impiccati agli alberi come «uno strano amaro raccolto». La canzone è un pugno allo stomaco — o meglio, come disse il pianista Mal Waldron, è «come strofinare il naso della gente nella loro stessa merda». A comporla non era stato un afroamericano, ma un ebreo newyorkese, il comunista Abel Meeropol, lo stesso che adottò gli orfani dei coniugi Rosenberg, assassinati dalla follia maccartista. Firmato con lo pseudonimo di Lewis Allan, il brano era stato ispirato da una foto agghiacciante scattata a Marion, nell’Indiana, il 7 agosto 1930 e raffigurante una folla sorridente di bianchi davanti ai corpi di due neri, Thomas Shipp e Abram Smith, impiccati a un albero.
«Se mai la rabbia degli sfruttati dovesse raggiungere livelli sufficientemente alti negli stati del Sud, adesso ha trovato una sua Marsigliese»
Dirà Samuel Grafton sul New York Post: Strange Fruit «è un’opera d’arte incredibilmente perfetta che rovescia la relazione consueta tra una persona di spettacolo nera e il suo pubblico bianco. “Vi ho intrattenuto”, sembra dire, “ora ascoltatemi”. Le convenzioni di cortesia tra razza e razza sono sparite. È come se ascoltassimo i discorsi che si fanno nelle capanne, dopo che i predatori notturni si sono allontanati… Se mai la rabbia degli sfruttati dovesse raggiungere livelli sufficientemente alti negli stati del Sud, adesso ha trovato una sua Marsigliese».
Billie Holiday rimarrà affezionata al Café Society, dove canterà molto spesso Strange Fruit come brano finale della scaletta, eseguito con un unico faro di luce puntato su di lei e il solo accompagnamento del pianoforte. La cantava così, soltanto piano e voce, una voce il cui punto di forza non stava certo nell’estensione, ma nell’intensità interpretativa e in uno straordinario senso dello swing. E anche quando il fumo, l’alcol e le droghe la renderanno sempre più roca e gracchiante, intorbidendo man mano la sua dizione così limpida, la forza espressiva della sua voce rimarrà intatta.
È a questa immagine di donna malinconica, alle prese con grossi problemi di dipendenza, ma completamente realizzata nel momento del canto, che tributa il suo omaggio a Lady Day un altro grande che di dipendenza ne sapeva parecchio. Lou Reed, nel suo concept album Berlin dedica un brano — il secondo — a un amaro ritratto femminile chiaramente ispirato a Billie Holiday, che entra così a buon diritto nella corte dei miracoli di Berlin: una figura inquieta mossa al canto per una sorta di coazione o di fatalità. ( When she walked on down the street /She was like a child staring at her feet /But when she passed the bar / and she heard the music play /She had to go in and sing /it had to be that way / She had to go in and sing / it had to be that way )
Questa duplice dimensione di tormento nella vita e sollievo nel canto emerge anche nel ritratto che Lady Day sceglie di dare di se stessa nella sua controversa autobiografia Lady Sings The Blues. Più che di autentica autobiografia si dovrebbe parlare di biografia autorizzata, perché a scriverla è stato in realtà il giornalista di tabloid William Dufty, basandosi, sembra, sulle testimonianze dirette della stessa Billie, la quale avrebbe preferito intitolare il libro A Bitter Crop, riferendosi all’amaro raccolto di Strange Fruit.
Il blues fu parte integrante della sua vita, quella nota malinconica che colorava ogni sua interpretazione
Molto è stato detto sulle presunte inesattezze o sulle consapevoli menzogne contenute nell’autobiografia, a cominciare dal luogo di nascita, indicato come Baltimora anziché Philadelphia. Secondo alcuni la menzogna più grossa sarebbe costituita proprio dal titolo, perché nei fatti la signora del jazz di rado cantò il blues. Il blues fu però parte integrante della sua vita: quella nota malinconica che colorava ogni sua interpretazione e che nell’autobiografia, luogo di nascita a parte, emerge chiaramente fin dall’attacco:
«La mamma e il babbo erano ancora due ragazzi quando si sposarono. Lui aveva diciotto anni, lei sedici, io tre. La mamma lavorava come cameriera, da una famiglia di bianchi, e quando i padroni si accorsero che era incinta la buttarono fuori su due piedi… I ragazzi erano tutti e due poveri, e da poveri si cresce alla svelta. È un miracolo che mia madre non sia finita alla pubblica assistenza e io all’orfanotrofio. Ma Sadie Fagan mi volle bene fin da quando non ero per lei che un mucchio di calci nelle costole mentre strofinava pavimenti. Andò all’ospedale e si mise d’accordo con la direttrice. Le disse che per pagare l’assistenza per sé e per me era disposta a pulire per terra, per un certo periodo, e che avrebbe fatto la serva anche alle altre bagasce che andavano lì a partorire. Quel mercoledì 7 aprile 1915, quando io nacqui a Baltimora, la mamma aveva tredici anni».