Una delle cose più difficili in natura è fare i complimenti a qualcuno, pur sapendo che non ti sta simpatico. Sia chiaro: parliamo di un’antipatia non a pelle, ma giustificata. Facciamo un esempio. L’altra sera il Porto ha sonoramente sculacciato il Bayern Monaco in Champions League. Il Bayern Monaco è la squadra del tiki-taka, di Neuer, dei record in Bundesliga. Ed è anche una delle favorite alla vittoria finale. Il Porto sulla carta è meno forte, schiera anche uno come Quaresma che in Italia arrivò come il mago della “Trivela” e se ne andò nell’ombra. Però ogni anno tira fuori giocatori sconosciuti e li fa giocare mettendoli in mostra, tipo Brahimi o Jackson Martinez. In Europa ha già vinto due volte questa coppa, la prima proprio contro i tedeschi. Insomma, la “favola” è servita: Quaresma si ricorda di essere un giocatore di calcio e fa due gol, mentre Neuer scorda di essere un portiere già candidato al Pallone d’Oro e incassa tre pere totali. Quindi del Porto ti viene subito da parlare bene, pensi che poi sono bravissimi a scoprire talenti e rivenderli facendo un mucchio di soldi. Poi realizzi che il club, di fatto, è in mano ai fondi d’investimento che speculano sui ricavi dal trading player, condannando di fatto il Porto a essere spesso una squadra di seconda fascia. Così, una brutta storia come quella delle Tpo rischia di intaccare il tuo giudizio su quanto fatto in campo.
In Italia, esiste una storia simile. C’è una squadra che in campionato sta facendo benissimo, tanto che al momento è seconda in campionato dietro solo all’inarrivabile Juventus, che affronterà pure in finale di Coppa Italia. In panchina ha un tecnico giovane ma con alle spalle già tanta gavetta nella provincia del pallone. In campo, una serie di giocatori di ottimo livello, tra i quali spicca un brasiliano che in questa stagione spesso fa urlare al miracolo. Ha tra i migliori settori giovanili d’Italia, i conti con qualche perdita (vedi l’ultima semestrale chiusa a -11 milioni) ma che tutto sommato reggono, tanto che il presidente verrà pure premiato per la gestione economica dei bilanci del club. Ecco, il presidente. Si chiama Claudio Lotito ed è da circa 10 anni il patron della Lazio.
Claudio Lotito è per molti il vero padrone del calcio italiano. Moralizzatore, didascalico, di parola eccessiva quando rilascia interviste. Ogni tanto parla in latino e quando invece torna all’italiano spesso si lascia andare. Come quando, nella ormai famosa intervista a Iodice, dirigente dell’Ischia, spiegava per filo e per segno che Beretta vale zero e che il Carpi e Frosinone in A non portano soldi, perché abbassano il valore dei diritti tv e su quelli spesso campa il calcio italiano. Amico e grande elettore di Carlo Tavecchio, Lotito non ha esitato a farsi fotografare accanto a lui nella prima uscita della Nazionale di Conte, con indosso la felpa azzurra. Un’ostentazione del potere raggiunto in qualità di Consigliere Federale e, visti i legami con Federazione e Infront (che della Federcalcio e della Lega è advisor rispettivamente commerciale e dei diritti tv), del potere raggiunto al vertice del pallone italiano.
Dunque, lo avrete capito, il problema non è di poco conto. Si può parlare bene della Lazio, nonostante Lotito? Se si guardano i risultati, la questione si fa un po’ più facile. Cominciamo dai bilanci, che nel pallone di oggi contano sempre di più. La Lazio ha chiuso l’ultimo anno fiscale con un utile di 7,1 milioni di euro. Perché la prima cosa è fare risultati tagliando dove possibile. E Lotito taglia. Gli stipendi, soprattutto: il monte-stipendi della squadra passa da 64,3 a 52 milioni di euro. Se si guarda la rosa del club, di nomi altisonanti ce ne sono pochi. Ma i colpacci li mette a segno lui, grazie a un “vecchio” giocatore diventato dirigente di fiducia; Ighli Tare. Ancora, all’ex attaccante albanese, fischiano le orecchie se pensa all’ultimo calciomercato estivo. Cioè quando stava per prendere dal Cagliari il difensore Davide Astori, che gli venne poi soffiato dalla Roma e da Walter Sabatini, che in quella sessione comprò di tutto, fregando pure Iturbe alla Juve. Tare allora chiuse per De Vrij, che a differenza di Astori era tornato dal Mondiale brasiliano con la medaglia di bronzo al collo. L’olandese è stato uno dei migliori in campionato nel suo ruolo, Astori un po’ meno. Comprato per 6,5 milioni, ora nel vale 12. Assieme a lui è arrivato Marco Parolo per 5,5 milioni (un affare, diciamolo).
E questi sono i due colpi più onerosi: in tutto, il saldo del mercato è in negativo per 13 milioni. Ma sono soldi che rientreranno. Perché quando il club non spende, è lì che spesso arriva il grande acquisto che frutta la plusvalenza. Se siete appassionati di Ligue 1, magari conoscevate Filip Djordjevic. Di sicuro, lo conosceva la Lazio: arrivato a parametro zero, un mese dopo l’inizio del campionato ha già realizzato una tripletta. E poi ci sono i giovani, certo, come Cataldi (stabile in prima squadra), Tounkara, Rozzi e Crecco (entrambi in prestito tra Lega Pro e Serie B). tutta gente che viene da un settore giovanile che negli ultimi anni ha fatto faville. Nel 2012, la Primavera è arrivata in finale scudetto (persa contro l’Inter), per poi rifarsi l’anno successivo. Quest’anno la squadra è in finale di Coppa Italia, dove affronterà la Roma nel derby. Una serie di risultati che ha portato il club a importare al centro sportivo di Formello il modello dell’Ajax, considerato tra i migliori del mondo assieme alla Masia del Barcellona. «Ma noi non vogliamo dimenticare quella che è la nostra identità come S. S. Lazio. Per questo stiamo portando avanti un progetto tutto nostro, che porti alla crescita non solo dei giocatori, ma anche dei tecnici presenti all’interno del settore giovanile. Per riuscirci ci affideremo a professionisti di grandissimo livello», spiegava lo scorso maggio Tare, nel presentare il progetto della Academy “Roberto Lovati”, le cui chiavi sono state affidate a Joop Janssen, già vice di Van Gaal.
Ok, si potrebbe obiettare, ma i soldi? Spendi poco, tagli qui e investi su qualche giovane là. Eppure i ricavi contano. La Lazio dove li genera? Lo scorso anno, il floor degli introiti biancocelesti è stato di 80 milioni di euro. Nel giro di due stagioni possono arrivare a 130, grazie soprattutto all’eventuale secondo posto in campionato, che garantirebbe l’accesso diretto alla Champions: la sola partecipazione garantisce un gettone di presenza di 15 milioni di euro, più 37,5 dal market pool, più ricco grazie ai diritti tv comprati dalla Champions. Per non parlare del merchandising, ambito nel quale Lotito ha ingaggiato una dura battaglia con la Curva Nord: il presidente ha acquistato i diritti del logo dell’aquila, in voga negli anni Ottanta, facendola rimettere sulle maglie grazie anche alla collaborazione con lo sponsor tecnico Macron.
Un risultato, quello della Champions, che Lotito raggiungerebbe avendoci anche speso su, perché con i soli parametri zero, vedi Galliani, non è che raccogli tanto. Lo scorso anno, Lotito ha scucito 28 milioni di euro, tra cui ci sono i 10 per Candreva, gli 8 per Biglia e i 7,4 per Felipe Anderson. Questi ultimi sono quelli meglio spesi, perché quest’anno il brasiliano è letteralmente esploso. Gol, assist, giocate da urlo. Ecco, Felipe Anderson è per metà di un fondo, il mitico Doyen, di cui Lotito nel 2013 diceva: «È assurdo che questo fondo detenga le prestazioni sportive di un essere umano. È una schiavitù». Salvo poi farci l’affare, perché in fondo lo è e lo sarà per entrambi: Doyen si metterà in tasca una bella percentuale sul trasferimento futuro e Lotito grazie anche alle sue prestazioni potrà tornare in Champions e aumentare i ricavi. Antipatico, vero?