La mattina del 10 settembre 1880, tra le piane intorno al fiume Congo, un friulano – naturalizzato francese da quattro anni – riesce a convincere il re Makoko, della tribù del Téké, a firmare un foglio molto importante. L’italiano è Pietro Savorgnan de Brazzà, l’ufficiale gentiluomo al servizio di Napoleone III, aristocratico esploratore, che marciava scalzo e si batteva contro la schiavitù. Il foglio era il più prosaico trattato di protezione francese su tutta la regione del Congo, con cui Parigi entrava a gamba tesa nel Grande Gioco dell’Africa centrale, estendendo il suo dominio nell’interno. Anticipava, per pochi mesi, il Belgio di Leopoldo II, che si era invece affidato con una spedizione imperiale (ma segreta) al giornalista esploratore inglese Henry Morton Stanley (celebre autore della frase: “Mr. Livingstone, I presume”).
Con il protettorato francese nasceva il Congo. La sua città capitale, Brazzaville, è l’unica in Africa ad aver mantenuto il nome del suo fondatore europeo – a differenza della dirimpettaia Leopoldville, diventata Kinshasa. Brazzà in pochi anni e tre spedizioni era diventato un eroe del colonialismo, il volto buono dell’arrivo degli Europei, l’avventuriero presentabile. Una figura celebrata ancora oggi anche dalla popolazione congolese. Il suo atteggiamento “dolce e paziente” si contrapponeva alla violenza del “collega” Stanley e a quella dei suoi successori, tanto da lambire i confini della leggenda e, a volte a superarli.
Le origini
Nato in una famiglia aristocratica friulana, Brazzà crebbe nella Roma pontificia che subiva i colpi del nuovo Stato italiano. Il padre, il conte Ascanio, proveniva dalla famiglia dei Severiani di Aquileia. Era un artista, con la mania del viaggio. Aveva girato per l’Europa e per le terre dell’impero ottomano. Una volta aveva anche comprato con i propri soldi uno schiavo per poterlo liberare subito dopo. Aneddoto non confermato, forse leggendario. In ogni caso la dice lunga sulla riscrittura in chiave oleografica dell’ambiente familiare in cui visse Pietro. La madre, Giacinta Simonetti, era discendente di un ramo patrizio veneziano e vantava una cospicua ricchezza immobiliare, con cui finanziò le spedizioni del figlio.
«Qui decisamente vi è da guarire, se è possibile, da qualsiasi velleità di abolire la schiavitù», scriveva al padre
Brazzà decise presto di diventare marinaio. Entrò, grazie ai favori dell’amico ammiraglio de Montaignac, nella scuola navale di Brest nel 1866. L’anno dopo acquisì la cittadinanza francese, si imbarcò nelle sue prime missioni, fino a quando, nel 1874 teorizza che il fiume Ogoué sia la via attraverso cui i grandi laghi africani sfociano in mare. Ripercorrendo il suo corso al contrario si arriva al cuore dell’Africa. È sbagliato, ma Brazzà appartiene all’ultima generazione della storia umana per cui i corsi d’acqua non sono ancora del tutto cartografati.
Le missioni
Nel 1875 parte per la sua prima missione: trovare le fonti dell’Ogoué. La Francia lo appoggia e gli affianca altri studiosi. Per i soldi, però, Brazzà dovrà rivolgersi al patrimonio familiare. Mentre risaliva, con mille difficoltà la corrente dell’Ogoué, non sapeva che, in parallelo, Morton Stanley stava guidando un esercito di tremila uomini che, con ogni efferatezza, si faceva strada tra le popolazioni indigene rendendole ostili ai bianchi.
Fu un viaggio difficile. Si ammalò, perse degli uomini, faticò. Fu anche pieno di delusioni. I suoi tentativi di liberare gli schiavi che incontrava lungo la strada si rivelarono infruttuosi: «Qui decisamente vi è da guarire, se è possibile, da qualsiasi velleità di abolire la schiavitù», scriveva al padre. Gli uomini che liberava «sono rimasti con me un poco di tempo, ma poi mi hanno abbandonato per tornare a quegli stessi che a forza, prima, li avevano resi schiavi». Era un sistema invincibile, ed era ingenuo – concluse – pensare che si potesse debellarlo con le leggi europee.
Ma non solo. Arrivato alle sorgenti dell’Ogoué, scoprì che non portavano ai Grandi Laghi e non costituivano una via d’accesso ai territori dell’interno: tutta la missione era sbagliate.
Era, in lui, forte la convinzione che la colonizzazione fosse un bene per l’Africa. Si sbagliava, ed ebbe anche tempo per capirlo
Infine l’incontro con la tribù degli Apfuru si rivelò disastroso: incattiviti dall’eccidio compiuto dagli uomini di Stanley, attaccarono la spedizione di Brazzà, costringendolo a tornare sui suoi passi. Nonostante la missione fosse fallita, in Francia fu accolto come un eroe.
La seconda missione seguì il medesimo percorso, ma con finalità diverse. La Francia, In una fase revanchista, voleva partecipare alla corsa alle colonie dell’Africa centrale. Allarmata dalle iniziative di Leopoldo II, che aveva assoldato Morton Stanley per fondare una colonia nella regione del Congo, incaricò Brazzà di anticiparlo e di creare uno spazio commerciale francese. Anche in questo caso, quasi tutte le spese del viaggio ricaddero sulle spalle della famiglia. Brazzà ripartì nel 1879, risalì l’Ogoué, fondò diverse stazioni commerciali, superò l’altipiano che separava gli affluenti del Congo dal bacino dell’Ogoué e raggiunse la terra dei Téké. Qui si ingraziò il capo Makoko e firmò il trattato di protettorato. La sfida con Stanley era vinta e la Francia ebbe la sua colonia.
I viaggi successivi avvennero nel quadro della Conferenza di Berlino, dove Francia e Belgio regolarono, con trattati di reciproco riconoscimento, la spartizione dell’area intorno al fiume Congo e Niger. Venne sancita la nascita dello Stato libero del Congo, voluto dal Leopoldo II, e prese piede il concetto di Hinterland, in seguito alle rivendicazioni tedesche nei territori africani. Si decise, tra le altre cose, di non commerciare superalcolici agli indigeni.
Brazzà l’africano
Brazzà aveva maniere da gentiluomo e una vocazione al dialogo. A differenza di Stanley, che seguiva con opportunismo le dinamiche di potere dell’area (alleandosi con gli schiavisti arabi, ad esempio), Brazzà cercava di opporsi, inoculando con pazienza le idee che riteneva giuste per le popolazioni che si trovava ad amministrare. Era, in lui, forte la convinzione che la colonizzazione fosse un bene per l’Africa. Si sbagliava, ed ebbe anche tempo per capirlo.
Lo stregone dei Teké, in una danza inedita, riesce a fargli capire che verso il nord ci sono prigioni e lavori forzati. Brazzà è l’unico a comprendere
Nel 1886, dopo un soggiorno francese, tornò in Congo. Vide morire il fratello Giacomo, che per emularlo lo aveva seguito in Africa. Vide l’arrivo dei concessionari per lo sfruttamento del territorio, in particolare per il caucciù e l’avorio, cui cercava di imporre come condizioni “il rispetto per i diritti dei lavoratori e la promozione dell’agricoltura attraverso l’insegnamento”. Vide una serie di spedizioni, tra cui quella di Alfred Fourneau, concludersi con uccisioni e morti. Era la fine di un sogno. E in patria lo attaccavano: “Dove sono finite dunque le belle promesse di un tempo che animavano le conferenze del Signor Commissario generale?”, scrive la Dépêche coloniale nel dicembre 1896. E ancora, Le Matin nel 1897: “Continua a fare filantropia, rifuggendo da qualsiasi forma di colonizzazione… Rispetto agli indigeni, veste i panni del professore che rimpinza i suoi allievi di marmellate, nell’attesa che questi ultimi gli chiedano di insegnarli del greco e del latino. Gli indigeni continuano così a saggiare le nostre marmellate, ma derubano e massacrano i nostri connazionali.” La salute lo obbligò a ritirarsi ad Algeri, dove si sposò ed ebbe figli.
La relazione del 1905
C’è un passaggio, nella vita di Brazzà, che segna la sua leggenda successiva. Nel 1905 il governo francese si trova in difficoltà. Le condizioni di lavoro degli indigeni nella colonia sono disastrose. L’amministrazione violenta ed efferata. In nulla si distingue dal Congo di Leopoldo II. Il 14 luglio 1903 esplode (in senso letterale) il caso Toqué-Gaud. In occasione della liberazione di alcuni prigionieri per festeggiare, i due amministratori della colonia decidono però, di punirne uno in modo esemplare, facendolo esplodere con una carica di dinamite nel corpo. Lo scandalo colpisce l’opinione pubblica francese, le proteste montano e l’unico rimedio che viene in mente ai governanti è di richiamare Brazzà, l’unico di cui sia i francesi che i congolesi si sarebbero potuti fidare. Avrebbe dovuto tornare in Congo e fare un rapporto sulle condizioni di vita degli indigeni. Il piano era di tenerlo sotto controllo e depistarlo, per mettere a tacere le polemiche. Ma non funzionerà: lo stregone dei Teké, in una danza inedita, riesce a fargli capire che verso il nord ci sono prigioni e lavori forzati. Brazzà è l’unico a comprendere il messaggio criptato e parte. La sua relazione (qui si trova una sua edizione) documenterà le violenze e gli abusi dei coloni, verrà consegnata alle autorità nel 1904 ma sarà insabbiata dal Parlamento. Brazzà, intanto, era già morto.
La retorica di un colonialismo light
Inviato, sfruttato, deposto e poi richiamato per servirsi della sua immagine di “colonizzatore buono”. Pietro Brazzà non ha mai smesso di essere uno strumento nelle mani della politica. Nemmeno a cento anni dopo la morte, il suo mito, alimentato da varie narrative, è venuto meno. Fin da subito, ad esempio, emerge la contrapposizione tra lui e Stanley, il colonialismo illuminato e la violenza efferata. Il confronto diventa anche iconografico, come mostrano le immagini di Brazzà e quelle, contemporanee, dell’esploratore inglese:
Qui appare fotografato da Felix Nadar, il fotografo più noto di Francia. Ritrasse anche Baudelaire. (foto Hulton Archive / Getty Images)
Il ritratto di Morton Stanley evidenzia il fucile, lo sguardo severo, gli stivali. Il bambino nero accanto è il segno della sottomissione (foto Hulton Archive / Getty Images)
Emerge anche la figura di un Brazzà come nuovo Cristo redentore, che si apprezza nel racconto di alcuni episodi (non si sa quanto apocrifi) del suo periodo in Africa, come quello del salvataggio di uno dei suoi servi, caduto nel fiume in seguito a un colpo di sole.
Della sua storia, poi, vengono messi in evidenza due momenti: la prima spedizione, tra il 1879 e i 1885 e il suo ruolo finale di castigatore delle malefatte del colonialismo, con la sua relazione insabbiata. Viene dimenticato (anche perché meno interessante,in verità) tutta la sua azione di burocrate della colonia, e di lobbista per le società concessionarie. Per una Francia che cerca di contrastare il declino della sua presenza nelle ex colonie africane, Brazzà è ancora una volta, la pedina giusta da muovere.
A sua volta, anche il Congo si mostra disponibile. Secondo quanto dice Bélinda Ayessa (qui un suo ritratto), presidente della Associazione Congolese degli amici di Brazzà, l’italiano «era venuto in pace per conquistare il nostro popolo. Ha osservato i rituali e le abitudini dei neri che incontrò. Li ha rispettati e li ha considerati esseri umani. E quando il re lo accoglie, è un amico». Non è un caso che nel 2006 il presidente congolese Sassou N’Guesso, tornato al potere in Congo anche grazie all’intervento francese, decide di costruire un mausoleo in suo onore a Brazzaville e di trasferirvi i resti dell’esploratore. Oltre alle polemiche da parte dei discendenti, scoppieranno le lamentele di alcuni congolesi, che preferirebbero conferire il titolo di eroe non a un conquistatore, benché benevolo, come Brazzà, ma a chi ha lottato per liberare il Paese. Si aggiunga la denuncia da parte dell’International Herald Tribune, che etichetta tutta l’operazione come “farsa neo-coloniale”.
In realtà, come è evidente, l’operazione è simbolica e, al tempo stesso, molto concreta. I funerali e i corpi di uomini straordinari sono un capitale politico essenziale. Per portare a termine l’operazione ci sono voluti due anni di trattative tra Congo, Francia, Gabon e Algeria, che hanno accompagnato una serie di accordi e di scambi, soprattutto tra Congo e Francia. La visita di Chirac, per porre la prima pietra, ha sancito la nuova natura del rapporto tra i due Paesi. Il Congo rinuncia a chiedere pentimenti ai suoi ex-colonizzatori, trasforma (come si è visto) la storia della conquista in un incontro personale tra due personaggi, pieno di affetto e solidarietà fraterna. E così, sul fronte interno, Sassou N’Guesso cerca di cancellare anni di scontri tornando al passato; sul fronte estero trova un terreno comune – fraterno – con la Francia, agevolando la celebrazione di Brazzà e del suo colonialismo light. È una mossa politica, come accade ogni volta in cui si ritorna al passato.