La candidatura: come Milano vinse la guerra di Expo

La candidatura: come Milano vinse la guerra di Expo

Dopo le polemiche, le indagini, gli arresti, i ritardi e le figuracce (l’ultima sui giovani) sembra difficile – se non imprudente – parlare di Expo come di un “successo italiano”. Eppure c’è chi lo fa. Lo scrive perfino come sottotitolo del suo libro. Gaetano Castellini Curiel, autore de La candidatura, (edizioni Indiana) libro-autobiografico in cui racconta i retroscena della gara con Smirne per far assegnare Expo a Milano, ha una posizione controcorrente (per ora) ma nessun dubbio: «L’atteggiamento nei confronti di Expo vedrà un cambiamento di tendenza. Succederà come nel calcio: tutti criticano all’inizio, e poi, quando si arriva in finale, saremo tutti Campioni del Mondo, dimenticandoci di quello che si era detto qualche mese prima».

Castellini Curiel faceva parte della squadra che dal 2006 al 2008, sotto la guida dell’allora sindaco di Milano Letizia Moratti, ha girato per il mondo per promuovere la candidatura di Milano. L’obiettivo era accaparrarsi voti e appoggi dai diversi Paesi e battere i turchi di Smrine, che pure erano partiti i anticipo. Il racconto procede dal momento della scelta del tema, “nutrire il pianeta”, fino al voto finale, il 31 marzo 2008. È stato un lavoro lungo, difficile e faticoso «e anche se molti mi invidiano per tutti i Paesi che ho visitato – circa 80 – e le persone che ho incontrato, ricordino che ho preso 20 chili, ho perso una fidanzata». C’era da affrontare il gioco degli equilibri geopolitici, le avversità tradizionali tra Paesi, le lungaggini burocratiche, le promesse da mantenere in cambio del voto, gli imprevisti aeroportuali e le complicazioni politiche. «Tutto per mostrare che dietro a un progetto come Expo ci sono state – e ci sono ancora – persone che si ammazzano di lavoro».

Nessuno ne dubita. I problemi su Expo sono altri. I presunti illeciti, ad esempio, o i ritardi.
Io sono convinto che con Expo finirà come con il calcio. Prima, sono tutti negativi. Poi, quando si arriva in finale, diventano tutti Campioni del Mondo. Ma non è un problema: io sono preoccupato per quello che succederà dopo Expo, e temo che ci sarà un afflosciamento. Expo sarà un successo e ci si siederà sugli allori. E al momento, né Milano né l’Italia se lo possono permettere. È un’occasione unica, e forse l’unica, per rifarsi un’immagine.

La tendenza cambierà: tutti saranno a favore di Expo. Ma a me preoccupa il dopo: temo che ci sarà un afflosciamento

Al momento sembra già un po’ in difficoltà.
Guardi che anche l’Expo di Shanghai del 2010, al quale ho collaborato, qualche padiglione ha aperto in ritardo. Ogni Expo è iniziato con qualcosa di incompleto. È una tendenza generale che si spiega a livello organizzativo: si assegnano appalti internazionali, cui si dà una scadenza e una data d’inizio, cominciando a febbraio per finire a maggio. Se non si riesce a concludere in tempo il Paese paga una penale.

Nel caso di Milano, però, c’entrano molto i contrasti politici e le fazioni, più che le questioni organizzative.
Il clima di unità che si era creato nel periodo della candidatura si è dissolto in seguito, e sono emerse tendenze particolariste. Io, dopo la sconfitta di Letizia Moratti alle elezioni nel 2011 sono stato estromesso da ogni attività su Expo. C’ero rimasto male, dopo tutto il lavoro fatto. Ma questa è stata per me una fortuna: mi sono aperto a nuove attività e ho sfruttato i contatti e le conoscenze che avevo acquisito grazie al periodo della candidatura.

Torniamo alla candidatura. Come era impostata la strategia per ottenere voti?
In tre modi. Per la prima volta – e questa è una cosa che voglio sottolineare – abbiamo rinunciato a un tipo di diplomazia “francese”, cioè impostato secondo i canali istituzionali e politici. Abbiamo abbracciato un tipo di diplomazia “anglosassone”, cioè mobilitando anche attori che appartengono ad altri mondi, come le imprese, gli operatori. Agenti estranei che ci hanno permesso, spesso in modo più semplice, di raggiungere le persone che volevamo incontrare. Impregilo in Libia, Edison in Algeria, ad esempio. Era necessario fare in fretta perché Smirne era partita prima.

Poi?
In secondo luogo, abbiamo deciso di fare una politica “terzomondista”. Visto anche il tema – il cibo – abbiamo puntato sui Paesi emergenti, con promesse di accordi e progetti insieme. La scelta, col senno di poi, si è rivelata vincente.

Ma i progetti sono stati portati a termine?
Sì, certo. Ci sono dei documenti che li elencano. Quelli di Expo non lo hanno trovato, e non ne parlano. Ma sono a disposizione di tutti, su Internet.

Raccontare la candidatura di Milano è anche un modo per riguardare un mondo che non c’è più e che è cambiato in pochi anni

E nel pacchetto di promesse al Bie però c’erano anche idee che non sono mai andate in porto. Come le vie di terra, le vie d’acqua.
Ci sono alcune considerazioni da fare: all’epoca i mezzi a disposizione erano diversi rispetto a oggi.

In che senso?
Quando è comciata la campagna per la candidatura e abbiamo girato, bussando porta a porta a ogni Paese del mondo, la situazione economica era un’altra. La crisi non era cominciata, e comunque non aveva ancora colpito in modo così forte. La credibilità dell’Italia era maggiore rispetto a oggi, aveva un reticolato di relazioni internazionali forti con governi che non esistono più. In Libia con Gheddafi, che si è attivato molto per la candidatura italiana. In Tunisia avevamo incontrato Ben Alì, in Egitto c’era Mubarak – e comunque erano Paesi che intrattenevano un forte rapporto con l’Italia da molti anni. Ripercorrere il racconto del libro è anche un modo per osservare un mondo che non c’è più, che in pochi anni ha mutato volto, modificando gli assetti.

Milano ha vinto, ma concorreva con Smirne. Non proprio una capitale europea. Come se la sarebbe cavata contro Parigi a Londra, o Lione?
Contro Parigi e Londra sarebbe stato molto difficile, perché sono capitali. Milano non lo è. Ma contro Lione se la sarebbe giocata. È importante non sottovalutare l’azione dei turchi, comunque. E anche se all’epoca l’identità turca, almeno dal punto di vista economico, non era ancora così forte, c’erano dei sostenitori importanti. Ad esempio il blocco europeo, disposto a votare per Smirne come forma di compensazione per il mancato ingresso della Turchia in Europa. In più si aiutava, nella sua attività di lobbying attraverso l’Oci, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica.

L’Italia aveva incontrato anche il no di Israele.
Sì. Erano arrabbiati per le dichiarazioni di Massimo D’Alema, allora ministro degli Esteri. Hamas aveva appena vinto le elezioni in Palestina e D’Alema aveva sostenuto che fosse giunto il momento per dialogare con loro. Agli israeliani non è piaciuto, e hanno deciso di votare per Smirne. Però ci ha fatto gioco.

Quando i Paesi arabi vennero a sapere che Israele avrebbe votato per Smirne, hanno deciso di votare per noi

E come?
Pochi giorni prima del voto un giornale turco aveva pubblicato un articolo in cui rivelava che Israele avrebbe votato per loro. A quel punto i Paesi arabi hanno deciso di votare per noi, per reazione nei confronti di Israele. E abbiamo guadagnato dei punti in più.

La diplomazia si regge su equilibri delicatissimi.
Sì, ma anche sul gioco di squadra. Come dicevo prima, per far vincere Milano si sono mossi tutti, dal Comune al Governo. C’è stato un momento in cui l’aiuto di Prodi, allora presidente del Consiglio, si rivelò decisivo. La mattina del voto il presidente della Repubblica Gül aveva convocato gli ambasciatori africani per una riunione. C’erano in ballo 40 milioni di euro di investimenti in Africa, era una mossa furba. Noi eravamo spiazzati. A quel punto Prodi convocò una riunione bilaterale con Gül, proprio alla stessa ora in cui era previsto l’incontro con gli ambasciatori. Non poteva rifiutarsi, il cerimoniale lo imponeva. Fu un genio.

Una volta vinta l’assegnazione le cose sono cambiate.
È cambiato il sindaco, è cambiato il governo, è cambiato tutto. Il rischio è che Expo passi –io sono convinto che andrà comunque bene – senza che venga colta l’occasione, unica, per rilanciare Milano e il Paese. È il messaggio di fondo del libro e, in generale, quello che credo. Expo è una opportunità, forse l’ultima che abbiamo.

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