Il fumettista americano Scott McCloud è uno di quegli artisti — e non ce ne sono poi così tanti — che non si limita all’applicazione del proprio genio al proprio lavoro, ma che ci ragiona, su quel genio e su quel lavoro, arrivando a dominare la tecnica e la teoria della propria arte, il fumetto, alla perfezione.
In molti pensano che l’eccessiva passione per il formalismo e la conseguente attenzione spasmodica verso gli strumenti di cui l’artista dispone per creare le sue opere, sia un vicolo cieco per l’arte, che la porti verso il baratro del barocco, dell’insignificanza e dell’autocompiacimento. Non è una credenza del tutto sbagliata, in ogni arte ce ne sono decine di esempi di questo tipo, di artisti che concentrandosi troppo su quello che fanno, si perdono per strada il contenuto, ovvero l’ingrediente più importante quando si parla, come in questo caso, di narrativa.
Ecco, l’arte di McCloud, così totalmente e perfettamente riassunta nelle circa 500 pagine di questo Lo scultore, edito in Italia da Baopublishing, è esattamente la prova che ogni tanto la teoria precedentemente esposta non funziona, o quantomeno vacilla prepotentemente. Perché Lo scultore è un capolavoro, e non uno di quelli che vengono definiti tali solo dai propri uffici stampa, o in bandella o da qualche strillo, in quarta o in copertina, ricavato da una recensione di 1000 battute pubblicata da un grande giornale pescato a caso dal mazzo.
McCloud ha costruito un immenso e bellissimo monumento senza che si veda neanche l’ombra della lavorazione, né dell’impalcatura
No, no, questo è un capolavoro. Sul serio. E lo è proprio perché Scott McCloud, usando al massimo ogni strumento tecnico a sua disposizione, come ogni genio, ha costruito un immenso e bellissimo monumento senza che si veda neanche l’ombra della lavorazione, né dell’impalcatura.
Un po’ come David Smith, lo scultore protagonista di questo fumetto, McCloud sembra plasmare la sua scultura senza usare alcuno scalpello, riuscendo nella sua più grande scommessa: far perdere il lettore nella storia che racconta e sparire, lasciando la storia da sola e stregando chi, dall’altra parte della pagina, la vede scorrere davanti agli occhi.
Ah, ecco, la storia: David Smith è un giovane scultore, ma non è un artista. O meglio, non è un artista riconosciuto dall’establishment: non ha all’attivo mostre, non è considerato dai collezionisti, le poche opere che riesce a vendere sono piazzate a frazioni del loro valore di mercato. E per lui, che per entrare nelle grazie di quell’establishment darebbe tutto, questa marginalizzazione è una condanna.
La chance che la sorte concede a David è uno degli stratagemmi più usati della letteratura fantastica: il patto con la morte, che con le sembianze di un suo prozio, gli offre la possibilità di plasmare la materia direttamente con le proprie mani in cambio, come al solito, dell’unica moneta con cui si può fare affari con la morte: la vita.
Da quel giorno David inizia un conto alla rovescia: 200 giorni prima di morire, 200 giorni per compiere il suo destino e scrivere il proprio nome nella storia dell’arte e del mondo, per vincere l’oblio e, in qualche modo, proprio quella morte che, nelle sembianze del prozio, sfida spesso a scacchi, perdendo sempre. Ma sono 200 anche i giorni che David ha per scoprire quanto può essere potente l’amore, quello che scopre conoscendo e innamorandosi di Meg.
Amore, morte e arte, ma anche senso della creazione, destino, lotta contro l’oblio; nelle pagine di questo imponente fumetto ci sono gran parte, se non tutte, le ossessioni che inseguono gli artisti, e gli uomini, da sempre. E McCloud le fonde e le plasma con tanta maestria da lasciare il lettore senza fiato. E non è forse questa l’essenza dei capolavori?