Sarà capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di trovarsi in viaggio all’estero e di sentirsi dire dallo straniero di turno: «ah Italia, pizza mafia e mandolino!». Ebbene, ci abbiamo messo decenni a liberarci da questa percezione di Paese corrotto e retrogrado e, quando ancora non ci siamo riusciti del tutto, vogliamo sostituirlo con un «ah Italia, parmesan e pasta shuta»?
Perché pensare che l’Italian sounding sia un “ambasciatore inconsapevole” del nostro modo di produrre e di essere nel mondo, significa esattamente questo: affidare l’immagine dell’Italia a luoghi comuni, alla sottoqualità, alla contraffazione.
È inaccettabile per chi pensa che l’Italia sia invece bellezza, eccellenza, storia, unicità e qualità. Inaccettabile per chi rappresenta le aziende, non solo agroalimentari, che subiscono un grave danno economico. Inaccettabile per chi pensa che la nostra più grande materia prima si chiami Made in Italy — il terzo al mondo, se fosse un brand — e che sia stato proprio il nostro patrimonio culturale e imprenditoriale a portarci fuori dalle peggiori crisi.
Il nostro Made in Italy, per decollare, ha bisogno di risorse e progettualità ed anche di legalità
Un fenomeno, quello dell’italian sounding, che produce ogni anno un fatturato di circa 60 miliardi di euro, una forma eclatante di concorrenza sleale rispetto alle imprese italiane e, purtroppo, anche un esempio del fallimento delle nostre istituzioni, non solo dell’Italia ma in primis dell’Europa, che non è riuscita a negoziare al di fuori del mercato interno norme per contrastare l’usurpazione del marchio e la tutela del Made In.
Il nostro Made in Italy, per decollare, ha bisogno di risorse e progettualità ed anche di legalità.
C’è un pezzo d’Italia nella giornata di ogni cittadino del mondo
In assenza di una regolazione internazionale che “protegga” i nostri prodotti – attraverso parametri di conformità e l’obbligo di indicare i passaggi della catena produttiva – rimangono tuttavia degli spazi di azione per contrastare lo sfruttamento del brand Italia. Ma serve passare a una logica di attacco: ovvero “promuovere” il vero Made in Italy e vincere la competizione direttamente sul mercato. Che significa agire su penetrazione del mercato e costi. C’è un pezzo d’Italia nella giornata di ogni cittadino del mondo. Tocca a noi portare questo patrimonio nel futuro.
Innanzitutto è urgente dotarci di una rete per l’export più efficiente: le piccole e medie imprese produttrici del settore agroalimentare per crescere devono lavorare in filiera, creare rete con la grande distribuzione, internazionalizzarsi e puntare tantissimo sull’e-commerce. Perché gli italiani sono bravi nel saper fare ma molto meno nel far sapere! Insomma innovazione, digitalizzazione, lavoro di squadra e cooperazione con le istituzioni per fare promozione. Partendo, chiaramente, da Expo.
Accanto alle misure per competere all’estero serve però un piano di lungo periodo per fare in modo che anche produrre in Italia sia sempre più conveniente. Serve, in una sola espressione, una politica industriale.
Bisogna far sì che il Made in Italy sia anche Make in Italy
Ovvero guardare alle dinamiche decennali dei mercati internazionali, capire su quali l’Italia può e deve misurarsi e adeguare le nostre infrastrutture materiali e immateriali per farlo: energia, logistica, ricerca, digitalizzazione. Politica industriale non vuol dire privilegiare un settore ma agire sui fattori produttivi. Politica industriale significa passare dalla tattica quotidiana alla strategia. E chi fa impresa ha urgentemente bisogno di strategia, di orizzonti più ampi per investire: chi decide di comprare un macchinario infatti non può farlo pensando solo alle stime trimestrali, lo fa anche pensando a quale sarà il posto del nostro Paese nel mercato mondiale fra 10 anni.
Politica industria significa, infine, non soltanto risolvere le 153 crisi aziendali sul tavolo del Ministero ma anche prevenirle. E dare un incentivo concreto al reshoring, al rimpatrio produttivo di quelle aziende che sono state costrette negli anni ad andare a produrre in Cina o Romania pur di non chiudere.
Insomma l’unico modo per far sì che il Made in Italy — ovvero “chi” produce e “come” produce — sia sempre più “Make in Italy” — ovvero “dove” si produce.
Con un ritorno positivo per il territorio, i distretti, i fornitori, i lavoratori.
Per l’Italia intera.
Quella bella, quella unica, quella che all’estero vorremmo non fosse associata a parole false e stereotipate ma che lasciasse “senza parole”, dallo stupore e dall’ammirazione.
*Marco Gay è il presidente Giovani Imprenditori di Confindustria