Padre e figlio

Padre e figlio

Il racconto di una giornata in barca di Massimo De Ruggero, uno dei protagonisti del libro, con il figlio: una scena di caccia subacquea dalla fine imprevista e poi un difficile dialogo su come funziona la finanza e gli effetti che può provocare sulle persone. Il tutto ne I diavoli, romanzo di Guido Brera, cofondatore di Kairos, la più importante società di gestione del risparmio in Italia. 

***

…cinque… sei… sette…

Massimo  avverte una leggera pressione alle orecchie e compensa spingendo la lingua sul palato. Attraverso il vetro temperato della maschera, osserva il fondale sul quale si mischiano mille sfumature di verde, blu e marrone.

Assomiglia al soffitto d’una gigantesca grotta rovesciata. Come se sopra di lui, oltre la massa d’acqua, non ci fosse il cielo terso d’una giornata d’ottobre, bensì la volta di una caverna. Si sente come se avesse oltrepassato la superficie di un enorme specchio ritrovandosi in un universo capovolto.

Conosce a memoria la disposizione dei banchi di sabbia, le cadute ripide della parete rocciosa e le risalite fulminee. Dopo il fondale del promontorio, dove ha imparato a pescare, quella è la profondità marina che ama di più.

Era stato Siro a insegnargli la geografia sommersa che adesso gli si para davanti. In piedi sullo scafo del barcone, indicava con le mani tozze alcuni punti della distesa d’acqua. “Lì c’è la secca di Tramontana” diceva come se la vedesse. E invece tutt’intorno c’era soltanto mare. “Da quella parte lo strapiombo” continuava facendo un gesto verso Mezzogiorno. “Un attimo, e sei a meno cinquanta.”

…undici… dodici… tredici…

Una volta, Mario gli aveva detto che immergersi era l’unica possibilità per un uomo di volare. Andare sempre più giù era come librarsi in aria. Vincere la pressione per illudersi di sconfiggere la gravità.

“E poi c’è la stessa successione di colori: azzurro, blu, cobalto. Alla fine il buio, come in cielo” aveva aggiunto.

“E c’è sempre meno aria” gli rispondeva Massimo annuendo.

…quattordici… quindici… sedici…

In apnea, a circa venticinque metri, nascosto da un’imponente guglia di roccia, sta immobile dietro il bordo di quella stalattite capovolta, e aspetta. Con le mani stringe il fucile ad elastico e sonda il blu circostante. A una decina di metri oltre l’orlo roccioso ha notato la sagoma argentata d’una ricciola.

Si muove lenta e Massimo aspetta, contando mentalmente e sforzandosi di amministrare la riserva d’ossigeno. Non può far altro. Quel tipo di caccia riduce al minimo i margini d’azione del predatore, puntando tutto su un misto d’ingegno e pazienza.

Lo svantaggio del rapporto di forza l’ha sempre affascinato. Trova equo partire da una condizione d’inferiorità, perché l’uomo che pesca è fuori dal suo elemento, ha sospeso in via temporanea l’attività primaria della vita, e sfida creature nel loro habitat.

I duelli per Massimo erano quelli. Scontri impari, che lo vedevano sfavorito in principio: come quel trade che aveva finito per cambiargli la vita. Rovesciare lo stato di sfavore gli pareva l’unico buon motivo per giustificare la caccia.

No, non si trattava di una mattanza. Non aveva a che fare con la banalità di massacri su scala industriale.

…ventuno… ventidue… ventitré…

Il pesce è immobile. Massimo emette un suono gutturale con la gola, lasciando filtrare una piccola bolla d’aria dalle labbra. Altro ossigeno che si consuma. Ma non c’è molto da fare. Può soltanto provare a catturare l’attenzione del pesce, incuriosirlo affinché si avvicini concedendogli un buon angolo di tiro.

Per certi versi la tecnica “dell’aspetto” ricorda l’arte della seduzione.

Una seduzione omicida.

La ricciola sussulta, ruota la testa e con un colpo di coda si avvicina.

Massimo valuta la distanza e la posizione del pesce, che gli si offre frontale, concedendo una superficie minima per il colpo. E lui ha solo un colpo. Non può commettere errori.

Poi, un altro movimento. Ora la ricciola è più esposta.

…ventotto… ventinove… trenta…

Adesso.

Massimo  sta per sparare quando un’esitazione sconosciuta gli blocca la mano. Il dito sembra paralizzato.

Si rende conto di avercela fatta, che la preda è sua. E sa che ucciderla, a quel punto, non conta più. Non ha bisogno di un trofeo, perché l’applicazione corretta della tecnica porta già sé il senso stesso di vittoria.

O forse a fermarlo è una sensazione di pena che un tempo ignorava.

[..]

Abbassa il fucile, muove piano le pinne ed emerge dal nascondiglio. Quando l’animale percepisce la presenza minacciosa dell’intruso, schizza via nel blu.

Andato.

…trentatré… trentaquattro… trentacinque…

Solleva al testa per guardare la luce che dall’alto si riflette sulla superficie dell’acqua. Controlla i piombi disposti intorno alla vita, considerando l’equivalenza approssimativa tra il conteggio e i minuti che ha trascorso in apnea. Dovrebbero essere all’incirca due e mezzo. Quando era più giovane, in una condizione di perfetta forma fisica, in pieno allenamento, arrivare fino a meno trenta significava sfiorare i tre minuti. Una volta, però. Quando con Mario la sfida era sempre aperta.

[..]

Con un altro movimento delle gambe inizia la risalita, attento a decomprimere. Negli ultimi dieci metri quasi si ferma, aspettando che sia la spinta dal basso a sospingerlo in alto.

Al che emerge dall’acqua con gesti misurati. Si sente come uno di quei sommozzatori che compiono spericolate azioni di sabotaggio. Quindi solleva la maschera sulla fronte e si volta con le palpebre abbassate verso la morbida luce del sole. Ma la voce squillante di Roberto lo sta aspettando. «Allora, papà?»

Apre gli occhi, è a una trentina di metri da un isolotto disperso nell’azzurro. Si tratta di una piccola chiazza di terra, con un diametro di circa un centinaio di metri. Al centro si erge un austero faro in pietra. Tutt’intorno esplode un vorticoso gioco di colori, infinite gradazioni di verde e blu che corrispondono alle diverse profondità del mare. A Oriente, Montecristo domina l’orizzonte con la sua presenza enigmatica e leggendaria. Sulla destra è ormeggiato un gommone.

«Papà, che hai preso?»

Massimo cerca il figlio con lo sguardo.

Roberto è in piedi sull’isolotto, vicino a una piccola cala dove gli scogli sporgono a pelo d’acqua.

L’uomo fa un cenno con la mano mentre comincia a nuotare verso la rientranza. Quando raggiunge gli scogli, si gira su un lato e si sfila le pinne. Quindi si alza in piedi.

«Niente, Roby» dice con rammarico. «Non c’era niente.»

«Ma come?» Nella voce del ragazzo la delusione è evidente. «E stasera?»

«Mangeremo quello che hai preso tu.»

Roberto lancia uno sguardo dubbioso a una retina poggiata per terra accanto a una grande bottiglia d’acqua. Soppesa la consistenza del pescato: tre saraghi, due cefali e un’orata. Quindi sbuffa scuotendo la testa. «Paulo e gli altri mangiano un sacco…»

«Dovranno accontentarsi» ribatte Massimo con voce allegra, mentre pensa alla voracità del portoghese e della sua squadra.

«Vedrai che chiederanno ad Ada di cucinargli qualcosa.»

«Questo è sicuro.»

I due si avviano verso il faro e, giunti alla meta, il ragazzo corruga la fronte.  «Quant’è lontana l’Africa?» chiede.

«Eh, un bel po’» risponde il padre frizionandosi i capelli col palmo d’una mano. Piccole gocce schizzano tutt’intorno.

«E allora perché lo chiamano Scoglio d’Africa?»

Perché la geografia è relativa.

«È soltanto un’esagerazione. Visto che sta più a sud rispetto alle altre isole, l’hanno chiamato così.»

Rimangono in silenzio ad ammirare l’incanto di quella domenica  d’inizio ottobre. L’aria è limpida, il mare trasparente. L’isolotto sembra custodire un mistero antico.

Massimo alza la testa e osserva la sommità del faro: fissa il tiburio che custodisce l’antica lanterna grigia e pensa al tempo in cui quel lembo di terra era abitato sempre e soltanto da due persone che, ogni quattro mesi, lasciavano il posto a un’altra coppia. Gli sarebbe piaciuto essere uno dei guardiani del faro, perso nella notte marina, in una sospensione perenne dello spazio e del tempo.

Poggia l’attrezzatura per terra, apre la muta sul davanti e, da una fondina sul fianco, estrae un lungo coltello con una lama affilata e il bordo seghettato.

«Allora?»

Roberto fa un gesto affermativo col capo prima di prendere l’orata dalla retina. La passa al padre tenendola con entrambe le mani.

Massimo l’afferra dalle cavità sotto la testa, si piega e la dispone sulla superficie dello scoglio.

«Prima cosa?» domanda a Roberto che si è accovacciato a sua volta.

«Le pinne.»

Massimo  annuisce. «Quali?»

Gli occhi verdi di Roberto scompaiono per un istante dietro le palpebre. Poi indica il fianco dell’orata. «Queste.»

Con un gesto sicuro Massimo  rimuove le pinne laterali.

«Poi?»

«Le altre!»

L’uomo taglia la ventrale e la dorsale. «Adesso stai attento, perché qua è difficile.» Con la mano sinistra afferra il pesce qualche centimetro oltre la coda. Lo inclina e avvicina la lama per squamarlo.

«Papà…» mormora Roberto con una voce strana.

Massimo  si blocca.

«Che c’è?»

Roberto lo fissa, indeciso se proseguire.

«Dimmi» lo incoraggia lui.

«Quelli che abbiamo visto alla televisione, quelli che spaccavano tutto… dicevi che vivono male…»

Massimo sapeva che il figlio sarebbe tornato sull’argomento. Le risposte che gli aveva dato il giorno degli scontri a Parigi, evidentemente, non erano state sufficienti. Gli era dispiaciuto tagliare corto, ma l’amarezza l’aveva sommerso. Poco contava che le previsioni che aveva urlato a Derek tempo prima si fossero avverate. […]

«Ma vivono male come te quando stavamo a Londra?»

«No, Roby, peggio.» Sospira, posa il pesce e si rimette in piedi, iniziando a sfilarsi la muta. Poi riprende a parlare con voce bassa come se stesse raccontando una storia: «Vedi… per alcune persone, pagare un affitto, comprare delle cose, anche solo trovare un lavoro può essere molto complicato».

«E quindi sono arrabbiati.»

«Molto arrabbiati, sì. E quando stai così è difficile capire cos’è meglio per te.»

«Come quando vi arrabbiavate tu e la mamma?»

[…]

«Non proprio» ribatte guardando Roberto. «Quando io e mamma ci arrabbiavamo, era perché non ci capivamo più, e soffrivamo.» S’interrompe sperando che quelle parole siano sufficienti. «Quelle persone invece potrebbero essere felici se non avessero tanti pensieri. Allora cercano di cambiare le cose.»

«E com’è che hanno cominciato a stare male?»

È difficilissimo riuscire a farsi capire. Si concentra alla ricerca di un’immagine che possa illustrare il processo di corruzione della cartamoneta e gli esiti funesti della spirale inflattiva.

«Pensa a uno di quei posti in cui tanto tempo fa venivano scoperte le miniere d’oro…»

«Come zio Paperone nel Klondike?» lo interrompe Roberto.

Massimo  fa un cenno d’assenso col capo, benedicendo quei vecchi fumetti che aveva conservato e che un giorno avevano riletto insieme. Descrivevano alla perfezione ciò che gli economisti avrebbero liquidato con due parole: “effetto Cantillon”.

«Un posto simile, sì. Te lo ricordi quant’era cattivo il proprietario dell’emporio?»

«Il padre di Paperone… Uh, cattivissimo.»

«In posti come quello c’è tanta ricchezza, ci sono tanti soldi…»

«Però sembrava un posto triste» lo interrompe Roby.

«Esatto» esclama il padre sorridendo. «Era un posto molto triste.»

«Ma se c’erano tanti soldi, dovevano essere tutti felici.»

Massimo passa la lama del coltello su un lato del pesce, attento a non rovinare la carne con una pressione eccessiva.

«No, Roby», dice con voce lontana, concentrato sulle squame, «perché i soldi non girano per tutti nella stessa maniera. Alcuni ne hanno più di altri. Il proprietario della miniera, quelli che vendono le macchine per estrarre l’oro, chi contrabbanda i liquori, be’, quelli ne hanno molti di più.»

Roberto annuisce mentre Massimo continua a spiegare: «Allora cominciano a spenderli per comprare delle cose.» Ora pulisce l’altro lato del pesce. «E sai che succede?»

Il ragazzo scuote la testa.

«Succede che il padrone dell’emporio, il papà di Paperone, e la gente che vende la carne, la lana, il vino, la gente che vende le merci, insomma, fa pagare tutto di più. Perché vuole guadagnare altri soldi.» Massimo  si blocca per controllare la pelle del pesce e si rende conto di aver impresso troppa forza. Ricomincia con movimenti più leggeri.

Roberto lo ascolta in silenzio, rapito da quelle parole. È come se il padre gli stesse svelando un segreto importantissimo.

«Ma succede pure che le persone che non lavorano per la miniera, quelle che guadagnano ogni mese uguale, oppure quelle che lavorano la terra cominciano a stare male…»

«…perché tutto costa di più…» Le parole di Roberto sono sospese tra l’affermazione e la domanda.

«Ma allora perché non ne mettono solo un po’?»

«Perché è difficile: hai presente quando metti il ketchup sulle patatine?»

Roberto quasi strilla. «Sì! Spingo e all’inizio non viene fuori niente, poi di botto esce tutto insieme e mi schizza addosso.»

«Ecco, l’inflazione è la stessa cosa.»

Massimo alza gli occhi e incrocia lo sguardo interrogativo del figlio.

«Bravissimo, hai capito perché tanta ricchezza in un posto non sempre è un bene. Adesso che si fa?» e indica il pesce con un movimento del capo.

«Devi tagliare, no?»

«Dove?»

«In basso.»

«Su, non fare il furbo» esclama Massimo. «Come devo tagliare?»

«Lo tieni premuto con una mano.»

«Lo tengo premuto così» dice mentre con il palmo sinistro fa leva sul pesce incidendo il ventre per lungo con il coltello.

«Ma oggi non ci sono miniere» esclama Roberto dopo qualche attimo.

Massimo si morde un labbro. Quel botta e risposta rischia di diventare un labirinto senza uscita: l’intelligenza del figlio è vivace e non si accontenta di una spiegazione da fumetto.

«A parte che le miniere ci sono ancora, e sono posti bruttissimi. Comunque, oggi la stessa roba delle miniere la provocano alcune banche che si chiamano banche centrali e hanno un sacco di poteri. Per esempio decidono se creare nuovo denaro.»

«Dovrebbero farlo e darlo a tutti.»

«Infatti all’inizio va a tutti. E per un po’ la gente ha l’impressione di star meglio. Comincia a spendere, compra più cose, magari poco alla volta, facendo dei debiti.»

«Perché non ce li hanno davvero, i soldi?»

«Ce li hanno nel senso che qualche banca più piccola glieli ha prestati. Ma poi i soldi vanno restituiti e non tutti ci riescono, allora chi ha debiti sta molto male.» Adesso Massimo fissa la distesa d’acqua. In quel posto nessuna legge dell’economia aveva valore: la dialettica domanda-offerta, le politiche monetarie, il quantitative easing davanti all’essenzialità d’un paesaggio compreso tra cielo e mare, in cui perfino quella manciata di terra assomigliava a una presenza invadente.

Alla fine, era la natura che rendeva tutto semplice. […]

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