Cresce in queste ore il dibattito sui “minimi”, che si articola su due fronti: l’introduzione di un salario minimo applicabile alla totalità della forza lavoro (ma non necessariamente unico ed universale) e l’implementazione di una struttura di reddito minimo garantito per specifiche fasce di lavoratori, categorizzati su base anagrafica. Le due diverse proposte condividono una volontà politica: combattere le disuguaglianze di reddito e la diffusione della povertà.
Il salario minimo
La proposta di salario minimo potrebbe essera inclusa nei decreti attuativi del Jobs Act
La proposta di un salario minimo, già presente tra l’altro nel programma del Partito Socialista Europeo (Pse) alle ultime elezioni europee, è una delle novità che potrebbero essere incluse nei decreti attuativi del Jobs Act, da approvare prossimamente in Consiglio dei ministri. Le teorie moderne sui mercati del lavoro, che tentano di catturarne le imperfezioni, vedono nell’introduzione di un salario minimo (di livello moderato) la possibilità di ovviare all’eccessivo potere di negoziazione che il datore di lavoro ha in fase di contrattazione, specialmente nei confronti dei lavoratori a bassa produttività. Un minimo salariale accuratamente bilanciato produrrebbe un effetto nullo o positivo sull’occupazione, rafforzerebbe il potere d’acquisto dei lavoratori ed andrebbe a stimolare gli investimenti in capitale umano da parte dei lavoratori a bassa produttività (si veda Card e Krueger).
Il salario minimo c’è anche in Italia, dove vige per alcune categorie di lavoratori in virtù dei contratti collettivi nazionali
Il salario minimo fissato per legge, su base oraria, è ad oggi presente in molti Paesi europei, ma non in Italia, dove esso vige per alcune categorie di lavoratori, in virtù dei contratti collettivi negoziati a livello nazionale. Ad esempio, nell’agricoltura, il minimo orario è fissato a 7,13 euro, nell’industria metalmeccanica a 7,32 euro, per poi arrivare agli 8,21 euro nel settore alimentare e agli 11,11 euro nel settore del credito. Anche alcuni settori del terziario (incluso il commercio) sono regolamentati, ma il minimo non è univoco e varia in base alla tipologia di prodotto commerciale e alle dimensioni dell’azienda. Ad esempio, per l’abbigliamento la fascia minima è di 6,60 euro orari.
Sul tema dell’introduzione di un salario minimo legale, Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, ha dichiarato poco più di un mese fa che l’introduzione di un salario minimo a un livello inferiore a quello negoziato dai contratti nazionali servirebbe semplicemente a porre le basi per una diminuzione dei salari nel medio termine. Introdurre ora un salario minimo al 40% del salario mediano, vorrebbe dire fissarlo a circa 5 euro l’ora, mentre al 60% del salario mediano, come nel programma del Pse, vorrebbe dire fissarlo a 7 euro l’ora.
Il 4% dei lavoratori guadagna meno di 5 euro l’ora, mentre l’8% dei lavoratori guadagna meno di 7 euro l’ora
Che incidenza avrebbe tale operazione? Da dati del 2012, si calcola che circa il 4% dei lavoratori guadagna meno di 5 euro l’ora, mentre l’8% dei lavoratori guadagna meno di 7 euro l’ora. Sembra dunque che vi sia una percentuale consistente di lavoratori che non sono coperti da un salario minimo contrattato dalle parti sociali a livello nazionale e che necessiterebbero di una copertura legale in tal senso. La maggior parte degli “esclusi” opera nei settori agricolo (con particolare concentrazione di lavoratori stagionali), edilizio, artistico, della ristorazione e alberghiero. È importante anche sottolineare come i lavoratori precari, con contratti a progetto o a prestazione, non beneficino di alcuna tutela legale che garantisca una soglia minima alla loro retribuzione. È evidente che questi sono spesso i settori in cui operano le categorie di lavoratori più deboli, come giovani ed extracomunitari, che hanno sopportato il peso maggiore della crisi in questi anni e che spesso si ritrovano con paghe minime e scarsa protezione sociale.
La Francia impone un salario minimo legale da 9,53 euro lordi
Per avere un’idea di cosa fanno gli altri paesi, la Francia impone un salario minimo legale da 9,53 euro lordi (dati 2013), mentre la Germania lo ha introdotto dal 1° gennaio 2015 soltanto per i lavoratori dipendenti e gli stagisti (esclusi i lavoratori autonomi) ad un livello di 8,50 euro lordi. Anche il Regno Unito ha un salario minimo istituito per legge al livello di 6,08 sterline (pari a circa 8.53 euro) per i lavoratori al di sopra dei 22 anni, mentre negli Stati Uniti esso è fissato a 7,25 dollari a livello federale ed è soggetto a variazioni a discrezione dei singoli Stati. Tuttavia, vi sono anche altri Paesi europei che, come l’Italia, delegano la negoziazione del salario minimo alle parti sociali: fra questi anche tre virtuosi Paesi scandinavi: Svezia, Finlandia e Danimarca.
Una soluzione contro la disoccupazione giovanile potrebbe prevedere un sistema di salario minimo crescente con l’età del lavoratore
Le esperienze estere in tema di salario minimo sono pertanto molto variegate e da esse non si può dedurre un’indicazione di policy precisa su quale livello scegliere. Di certo, un aspetto che merita estrema attenzione è l’impatto che il salario minimo potrebbe avere sulla disoccupazione giovanile, al 43% in Italia. Una soluzione potrebbe prevedere un sistema di salario minimo crescente con l’età del lavoratore, in modo che esso rispecchi progressivamente l’aumento di produttività legato alla maggiore esperienza, senza precludere a nessuno l’ingresso al mercato del lavoro. Sistemi di questo tipo sono presenti in molti Paesi e possono essere strutturati a scaglioni come ad esempio nel Regno Unito, sistema introdotto nel 1999 dal Partito Laburista, oppure possono essere graduali, come in Olanda ed in altri Paesi.
Fissare per legge un salario minimo in modo oculato è una scelta che può andare nella direzione di maggiore equità e tutela della posizione di debolezza del lavoratore nel rapporto di lavoro. D’altra parte se si introduce un salario minimo ad un livello troppo alto, le conseguenze saranno più disoccupazione e maggiori disuguaglianze. È una scelta che metterà alla prova la responsabilità e la volontà politica del governo: continuare su un sentiero progressista ed europeo, senza cedere a facili populismi, anche a sinistra. C’è infatti un’importante scelta politica da porre al centro del dibattito: dire che non si può retribuire il lavoro meno di una certa cifra, significa rimanere coerenti con una tradizione di pensiero che vede nel lavoro non solo una fatica, ma il principale strumento di dignità per un essere umano, il simbolo del suo ruolo di rilevanza all’interno della collettività ed il fondamento della nostra Repubblica.
Il reddito minimo
Il reddito minimo consiste nel garantire un pagamento mensile qualora il reddito di un lavoratore sia inferiore ad una soglia stabilita per legge
Il reddito minimo, da non confondere col salario minimo, consiste nel garantire un pagamento mensile, il cui ammontare varia a seconda dell’età, qualora il reddito di un lavoratore sia inferiore ad una soglia stabilita per legge. Tale reddito si differenzia dal reddito di cittadinanza in quanto non universale nè illimitato nel tempo, ma destinato solo a specifiche categorie della forza lavoro. Sull’argomento c’è stato di recente uno scambio di proposte tra il neo-presidente Inps Tito Boeri ed il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.
La proposta di Boeri è di garantire un reddito minimo ai cittadini appartenenti alla fascia d’età 55-65. Essa va interpretata alla luce delle difficoltà che un lavoratore anziano riscontra nel trovare un nuovo impiego in caso di perdita del precedente (i dati indicano un tasso di re-impiego del 10%).
La proposta di Boeri è di garantire un reddito minimo ai cittadini appartenenti alla fascia d’età 55-65
Poletti ha accolto criticamente la proposta avanzata da Boeri, in un’ottica che la vedrebbe estesa, mediata e corretta. Secondo il ministro, infatti, il grande problema rimarrebbe la povertà in conseguenza alla disoccupazione, indipendentemente dalle fasce d’età. Guardando ai dati Eurostat tra il periodo pre-crisi e quello successivo, verrebbe da dare ragione a Poletti: in Italia il rischio di povertà giovanile (16-24 anni) è aumentato di circa tre punti percentuali, mentre è diminuito della stessa percentuale per la fascia 55-65 (Figura 1). D’altra parte, vi è un aumento piuttosto consistente del rischio di povertà tra i disoccupati (Figura 2), con livelli oltre il 60%. Si potrebbe commentare dicendo che le fasce della popolazione al di sotto dei 55 anni hanno tipicamente una situazione patrimoniale più debole, considerando semplicemente il minore periodo di risparmio alle spalle e la possibilità di avere figli a carico.
Quali sono le ragioni economiche di un reddito minimo? Al di là del semplice argomento keynesiano di redistribuzione legata alla maggiore propensione a spendere delle fasce più basse della popolazione, e quindi alla riattivazione dell’economia nel medio periodo, un reddito minimo garantito a supporto di alcune fasce deboli della popolazione favorirebbe un “atterraggio morbido” per quelle categorie più colpite dalla crisi, nel riposizionamento competitivo dell’economia italiana. Inoltre, favorendo il rinnovamento della nostra forza lavoro, il reddito minimo alla Boeri potrebbe dare spinta e fluidità al famoso “cambiamento strutturale” del nostro Paese, che da troppo tempo avanza lentamente e non senza sbandature.
Un programma di reddito minimo universale costerebbe tra i 5 e gli 11 miliardi a seconda della soglia di povertà
Quali sarebbero i costi? Boeri stesso non va troppo per il sottile: un programma di reddito minimo universale costerebbe tra i 5 e gli 11 miliardi a seconda della soglia di povertà (Boeri, Garibaldi et al., 2007). Certo, questa cifra potrebbe scendere considerando le spese risparmiate riformando la cassa integrazione straordinaria e con l’’abolizione di altri meccanismi di assistenza non contributivi, di cui spesso beneficiano persone al di sopra della soglia di povertà. Tuttavia, difficilmente si arriverebbe ad un’operazione con costi al di sotto dei 4-5 miliardi annui. Di qui la proposta di restringere la platea dei destinatari del reddito minimo ad alcune categorie più deboli, secondo Boeri gli over 55 che guadagnano al di sotto di una soglia minima, secondo Poletti i disoccupati in generale (NB: a costo di diminuire o la soglia di diritto, o l’entità del reddito minimo).
Un reddito minimo, se ben disegnato, è un raro caso di misura inequivocabilmente di sinistra, e posizionerebbe il governo Renzi saldamente nel campo di un nuovo centrosinistra
L’impatto più importante è però politico. Un reddito minimo, se ben disegnato, è un raro caso di misura inequivocabilmente di sinistra. Qualora sia veramente indirizzato a quelle fasce di popolazione in condizioni di bisogno estremo, che più hanno sofferto le trasformazioni economiche degli ultimi decenni, sarà difficile non ammettere che sarebbe una grande misura di equità. Un provvedimento di questo tipo posizionerebbe il governo Renzi saldamente nel campo di un nuovo centrosinistra, che persegue con forza gli obiettivi della riduzione della diseguaglianza estrema e di una maggiore giustizia sociale. Metterebbe inoltre a nudo proposte populistiche, inattuabili e non necessariamente eque, come il reddito di cittadinanza, e si distinguerebbe fortemente dalle proposte regressive e anti-solidali della Lega e della Destra. Metterebbe infine ancora una volta in difficoltà certa sinistra, che non avrebbe più il monopolio sulla contrattazione di alcuni tipi di ammortizzatori sociali, che in vent’anni ha permesso che la povertà aumentasse costantemente, e che – incapace di riformarsi – ha forse bisogno di queste ingiustizie arrugginite per continuare ad esistere nelle forme che conosciamo.
* Chi siamo: Siamo Andrea Cerrato, Francesco Filippucci, Cecilia Mariotti e Francesca Viotti. Siamo un gruppo di studenti di Economia alla Bocconi. Ci piacciono i dischi, le foto, gli artisti, i marchingegni alla moda, le muse, i registi, Piero Ciampi e Bianciardi, Notorious, B.I.G., Pasolini e Jay-Z.