Nessuna politica industriale, anzi, nessuna politica. È durissimo il giudizio dell’economista Gianfranco Viesti sulle scelte del governo sul Sud Italia. Una critica che comprende il dirottamento di 3,5 miliardi di euro dai fondi per il Sud alla decontribuzione dei contratti su scala nazionale, le politiche per i fondi europei ma soprattutto le scelte di tipo industriale. Perché, spiega, il caso Indesit, con la chiusura del sito di Carinaro (Caserta) è la dimostrazione di un’assenza di linee di indirizzo da parte dell’esecutivo.
Viesti, professore ordinario di Economia applicata nella facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari, è uno dei massimi esperti di economia meridionale. Ha lavorato all’Ocse, Banca Mondiale, Unido, ed è considerato vicino a Fabrizio Barca, Romano Prodi (di cui è stato consigliere economico) e Massimo D’Alema. Fa parte del Comitato di direzione della rivista “il Mulino”, del Comitato di indirizzo della Fondazione ItalianiEuropei, dei comitati scientifici di Nomisma, di Legambiente, di Srm (Studi e ricerche per il Mezzogiorno, gruppo Intesa Sanpaolo), della Fondazione Res. Tra i suoi libri l’ultimo è “Cacciavite robot e tablet”, scritto con Dario Di Vico per Il Mulino.
Professore, il governo si sta veramente disinteressando del Sud, come dice chi critica l’atteggiamento dell’esecutivo sulla vicenda Whirlpool?
Penso di sì. Tra gli ultimi governi è uno dei meno interessati al Sud. Guardando le diverse scelte effettuate, ci sono passi indietro sia rispetto al governo Letta che al governo Monti. Ricorda piuttosto il governo Berlusconi del 2008.
A che scelte si riferisce?
«Oggi non è chiaro chi nel governo si occupi dello sviluppo del Meridione. Vanno avanti in modo confuso, non c’è una guida politica»
Innanzitutto a quelle riguardo alla struttura del governo stesso. Oggi non è chiaro chi nel governo si occupi della coesione territoriale. La Commissaria europea per la politica regionale, Corina Cretu, ha incontrato nei giorni scorsi il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti, ma la delega è nelle mani del presidente del Consiglio. Avendo cancellato la delega ministeriale, ora vanno avanti in modo confuso. Non c’è più una guida politica. Le deleghe alla coesione territoriale le aveva Delrio, quando era sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Non faccio una critica alla persona, ma faceva mille altre cose e il tempo dedicato al Sud era poco.
Al di là dell’organizzazione del governo, qual è la scelta che critica nel merito?
La legge di Stabilità 2015 prevede che tutte le nuove decontribuzioni (per i nuovi contratti di lavoro, ndr) utilizzino fondi che prima erano destinati al Sud. È una decisione che giudico negativamente. Si parla di 3,5 miliardi, non di una cifra piccola, che avevano un vincolo patrimoniale. La nuova decontribuzione non ha differenze territoriali ma è evidente che il delta da colmare è più forte nel Sud. Sono poi stato molto colpito dall’operazione Whirlpool-Indesit.
Nella chiusura dello stabilimento di Carinaro (Caserta) da parte della Whirlpool il governo ha una responsabilità?
Caso Whirlpool: «O il presidente del Consiglio non ha visto il piano industriale o se lo ha visto non è intervenuto»
O il presidente del Consiglio non ha visto il piano industriale o se lo ha visto non è intervenuto. Un’azienda può far quello che crede. Ma c’è un problema di politica industriale. Tutti i governi si muovono in base alle loro linee di priorità, con strumenti operativi o tramite la moral suasion. Il governo attuale non ha queste linee di politica industriale. Linee che, a mio personale parere, dovrebbero avere il compito di abbassare le disuguaglianze territoriali, che sono cresciute molto negli ultimi anni.
È un governo che si limita a fronteggiare le emergenze?
È evidente che quando spuntano emergenze come funghi, vanno affrontate ed è stato fatto un grande lavoro dal sottosegretario Claudio De Vincenti, quand’era al ministero dello Sviluppo economico. Ma dal governo mi aspetto che ci siano linee di indirizzo, non che intervenga volta per volta a risolvere situazioni specifiche.
Il governo però ha portato avanti i contratti di sviluppo territoriale.
In varie forme e modi sono strumenti che esistono dagli anni Ottanta. È una forma di intervento che c’è in tutti i Paesi, lo stesso intervento di Barack Obama con Marchionne per l’operazione Fiat-Chrysler è stato di questo tipo. Renzi ne ha firmati un gruppo, il che va bene. Ma l’intensità di questi interventi deve essere ben maggiore.
Si può obiettare che gli incentivi dati negli anni passati non abbiano portato a risultati, visto il crollo degli investimenti al Sud. Quali forme di incentivo funzionerebbero?
Non c’è una pallottola magica che risolve tutti i problemi. Le strategie sono varie, i settori e le aziende sono diverse, bisogna ragionare su una gamma di interventi. Si possono comunque individuare quattro ambiti su cui agire, come abbiamo scritto di recente in un libro con Dario Di Vico. I primi due sono la crescita delle imprese, dimensionale e patrimoniale, e l’incremento del personale di qualità. Sono condizioni abilitanti, che permettono alle imprese di crescere più facilmente. La presenza di pochi laureati nelle aziende è uno dei limiti maggiori che esce nel confronto con le aziende di altri Paesi, a partire dalla Germania.
Quali sono gli altri due ambiti?
Ci sono poi i temi dell’innovazione e dell’internazionalizzazione. Sull’innovazione si vai dai voucher per le Pmi ai programmi di tipo pubblico-privato per le imprese più grandi. Si deve fare uso della domanda pubblica per l’innovazione, fare politiche “mission oriented” come quelle che negli Stati Uniti hanno portato allo sviluppo di tecnologie, compresi i telefoni più avanzati. Noi non siamo gli Usa, ma queste politiche si possono fare anche in Italia. Quanto all’internazionalizzazione, non sono necessarie grandi innovazioni, che pure ci sono state, come l’ingresso di Sace in Cdp. È più un problema di intensità, cioè di aumento dei soldi.
Sono cose diverse da quelle che servono al resto d’Italia?
«Al Su servono le stesse cose del resto d’Italia ma con più intensità. Creare una start up a Crotone è più difficile che a Milano»
No, non penso che al Sud si debbano fare cose diverse, servono le stesse cose ma con più intensità. Vedo per esempio positivamente il lavoro sulle start up e le Pmi innovative. In questo momento tanto complicato è importante stimolare nuove piccole imprese per tappare dei buchi dell’occupazione. Ma è un problema di intensità, farle a Crotone è più difficile che farle a Milano.
Quando si parla di Sud si sente dire spesso che il futuro è il turismo. Ma ci può essere sviluppo senza industria?
«Non conosco alcun Paese avanzato che abbia fatto a meno dell’industria, che è il luogo dove si innova e dove si esporta»
No, l’industria è necessaria. Ovviamente non ci può essere un ritorno al passato. Nell’era di Uber, Airbnb, BlaBlaCar non si può pensare di avere una dimensione industriale da Fiat degli anni Settanta. Ma non conosco alcun Paese avanzato che abbia fatto a meno dell’industria, che è il luogo dove si innova e dove si esporta. Solo il Regno Unito ha attuato una politica di de-industrializzazione in passato, ma l’attuale governo, pur conservatore, ora è attivissimo sulla politica industriale, per esempio nell’aerospaziale.
Il caso della Grecia sembra confermarlo.
Come possono dieci milioni di persone vivere solo di turismo? Lo possono fare le Baleari, non un’isola da sei milioni di abitanti come la Sicilia. È un problema di ragionevolezza.
Al Sud ci sono settori industriali che sembrano reggere meglio di altri, come l’automotive. Avrebbe senso favorire solo alcuni settori?
Direi di no. Il mondo è troppo complesso perché ci siano oggi delle politiche di settore. Credo di più alle politiche “orizzontali”. Certamente si possono però fare delle politiche per “cluster” di attività. Uso questa parola magica proprio perché è più sfumata, indica un gruppo di attività. In casi come l’industria aeronautica a Napoli e la meccatronica a Bari, si può lavorare con corsi universitari, scuole, istituti tecnico scientifici che creino una sponda tra la scuola e le imprese, in chiave settoriale. È quello che è avvenuto storicamente in Germania ma di recente anche nel Regno Unito. Da noi non ne parla nessuno.
Chi dovrebbe farsene carico?
Un’istituzione come il Cnr ha un ottimo presidente ma non si capisce che ruolo abbia nell’innovazione delle imprese. Si dovrebbero attuare dei meccanismi misti pubblico-privati, attivare meccanismi di valutazione e accreditamento. C’è tanto da copiare da altre esperienze.
Lei ha già avuto modo di scrivere che però il grande problema è che oggi non c’è un consenso politico per una policy per il Sud.
«Nell’orizzonte di Renzi questi temi sono completamente assenti»
Non c’è. Nell’orizzonte di Renzi questi temi sono completamente assenti. Eppure i dati degli ultimi 15 anni dicono che l’industria ha avuto colpi seri. Bisogna cambiare passo anche nei confronti dell’Europa. L’Italia non sta portando alcun contributo, come dovrebbe, a una discussione molto interessante che è in corso sulle regole sugli aiuti di Stato. Se l’impostazione sulla concorrenza è stata accettata da noi tutti negli anni passati, ora si può riflettere se sia così valida, se valga la pena essere così ideologici.
Bisogna cambiare anche impostazione nel ricorso ai fondi europei?
«Nei piani europei precedenti si è puntato troppo sulle infrastrutture. Vanno tolte a favore di fondi per la tenuta sociale e il rilancio industriale»
Ci sono due aspetti. Il primo è che bisogna assicurarsi che nella rendicontazione di quello che è stato fatto in passato i fondi non si perdano. C’è un filo di lavoro che è partito da Fabrizio Barca, Carlo Trigila e poi Graziano Delrio, più i presidenti delle regioni del Sud interessati. La mia impressione è che si riesca a ottenere un risultato anche soddisfacente. La domanda da porsi è però perché siamo così in ritardo nell’utilizzo dei fondi. La mia opinione è che nei piani precedenti si è puntato troppo sulle infrastrutture, che però in Italia richiedono tempi più lunghi dei sette anni di durata di questi piani. La discussione nel governo non c’è stata. Si è persa l’occasione con Renzi di costruire il nuovo piano 2014-2020 con un’altra impostazione.
Quale?
Tenere fuori dal piano europeo le infrastrutture, che si possono fare con i fondi di sviluppo e coesione, e usare i fondi Ue per la tenuta sociale e per il rilancio industriale. Poi questo si traduce in norme e progetti, ma non ha senso fare progetti senz’anima e senza visione politica. Non c’è poi discussione, per esempio sulle Smart specialization strategies. Sono magari programmi etichettabili sotto le buone intenzioni di Bruxelles, ma oggi un pezzo rilevante della politica industriale, cioè dei soldi stanziati, passa da lì.
La si fa troppo semplice sugli sprechi dei fondi Ue?
La discussione è sempre sul Sud slabbrato che non sa usare i fondi, ma non si parla della finalità politica di questi interventi. Che non sono tutto ma sono comunque una parte importante per quella che non è una politica per il Sud, è semplicemente politica, cioè la capacità di individuare le priorità.
Ci sono poi i freni della criminalità organizzata. Pensa che sia usata come alibi per non cambiare?
La criminalità organizzata è un problema serissimo. Aumenta i costi dell’attività economica e soprattutto li distorce, soprattutto nelle tre regioni più interessate (Campania, Calabria, Sicilia, ndr). Ma non credo che sia la determinante decisiva per il mancato sviluppo.