Cdp Reti, Eni, Enel, Assicurazioni Generali, Telecom, Prysmian, Mediobanca, Fiat-Chrysler, Krizia. Sono alcuni dei nomi più noti delle aziende italiane che nel 2014 hanno visto entrare capitali cinesi, con acquisizioni o quote di minoranza. Ma, per quanto imponenti, potrebbero essere poca cosa rispetto a quello che ci aspetta nel 2015. La vendita della Pirelli a China Chemical è solo un assaggio. Ora tocca ai macchinari, all’agroalimentare, alla scalata delle aziende in cui finora le quote sono state di minoranza, e soprattutto alle attività commerciali per favorire le importazioni dalla Cina. Che, se ve lo foste perso, tra il marzo 2014 e il marzo 2015, sono cresciute del 51%, mentre le esportazioni italiane verso il paese asiatico segnavano un asfittico più 0,8 per cento.
La vendita della Pirelli è solo un assaggio. Ora tocca ai macchinari, all’agroalimentare, alla scalata delle aziende in cui finora le quote sono state di minoranza, e soprattutto alle attività commerciali
«Ci sarà sicuramente un aumento quest’anno rispetto al 2014, è una previsione che viene facile». Non ha dubbi Thomas Rosenthal, direttore del Centro studi per l’impresa della Fondazione Italia Cina, alla presentazione del rapporto “La Cina nel 2015”, nel grattacielo Pirelli (nome che oggi evoca quanto mai la presenza del Dragone a queste longitudini) a Milano. «Basterebbe considerare l’investimento su Pirelli, che da solo fa fare un balzo al flusso di investimenti. Ma c’è molto di più».
Fonte: Fondazione Italia Cina, “La Cina nel 2015”. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
I settori in cui i cinesi investiranno di più nel 2015 sono almeno cinque. «Le aziende italiane in cui i cinesi sono in minoranza potrebbero essere ulteriormente scalate – spiega Rosenthal -. Inoltre l’Italia offre molto valore aggiunto in settori come i macchinari, che servono ai cinesi per accedere al know how tecnologico italiano». Il terzo fronte è quello commerciale. «I cinesi cresceranno con società commerciali di distribuzione in Italia di loro prodotti, ci attendiamo investimenti massicci». Continuerà lo shopping dei brand del made in Italy. «Prevediamo che ci saranno ulteriori acquisizioni importanti nel settore dei marchi, perché questo evita alle aziende cinesi di perdere decenni per far crescere brand forti e permette loro di “catturare” in fretta la catena di valore a un livello superiore. Questo avverrà sia nei marchi B2C (rivolti al consumatore finale, ndr) che in quelli B2B (rivolti al mondo delle imprese, ndr), soprattutto, ancora una volta, nei macchinari».
Rosenthal: «Un’altra tendenza avverrà in funzione di Expo 2015, dove ci saranno molte delegazioni cinesi portate a livello politico. Prevediamo grandi possibilità di investimento»
Gli occhi sono infine puntati sul cibo e il vino italiano. «Un’altra tendenza avverrà in funzione di Expo 2015. All’esposizione saranno molte delegazioni cinesi portate a livello politico. Prevediamo grandi possibilità di investimento, per il 2015 o per l’anno successivo, sia per quanto riguarda i macchinari per la produzione alimentare sia per la produzione alimentare destinata ai consumatori finali. Non a caso nell’ambito della commissione mista Italia-Cina, il governo italiano sta spingendo per ridurre le restrizioni all’accesso dei prodotti italiani in Cina».
Il tappeto rosso della politica
A che si deve l’accelerazione di queste acquisizioni? Soprattutto alla politica. «C’è stata una fortissima spinta del governo italiano, sia da parte di quello attuale, sia da parte di quello precedente (Letta, ndr), per intensificare le relazioni Italia-Cina, a 10 anni dall’inizio del partnerariato tra i due paesi», spiega Rosenthal. «L’aspetto politico è da rimarcare. I cinesi non fanno nulla che rischi di offendere i governi in cui acquistano. Non si mettono a comprare ingenti quantità di capitali senza un accordo politico alle spalle, anche se si tratta di acquisizioni sui mercati borsistici».
Import export Italia-Cina, in milioni di dollari Usa
Fonte: Fondazione Italia Cina, “La Cina nel 2015”; Cesif; Ceic
C’è anche un mercato più favorevole. Durante gli anni bui della crisi del debito sovrano, con lo spread alle stelle, c’era stata una sospensione degli investimenti, perché ritenuti troppo rischiosi. «Con il normalizzarsi della situazione, prevedevamo una ripresa nel 2014 e così è stato – dice il direttore del Centro Studi per l’impresa della Fondazione Italia-Cina -. Così è stato. Gli investimenti sono stati sbloccati, perché il rischio era relativamente basso e le opportunità alte. Le imprese italiane soprattutto dal punto di vista della capitalizzazione erano notevolmente deteriorate. Sono state colte soprattutto occasioni per ingressi di minoranza e fusioni, più che per acquisizioni».
Il catalogo è questo
Il rapporto “La Cina nel 2015” offre un quadro ampio per capire come stia cambiando l’economia cinese e per smontare una serie di miti. Il settore dei servizi, anche avanzati, per esempio, sta assumendo già oggi un rilievo superiore all’industria manifatturiera. La necessità di costruzione del consenso da parte del presidente Xi Jinping è in pieno svolgimento, come avviene negli anni successivi ai passaggi generazionali e alla formazione dei nuovi governi. In quest’ottica vanno interpretati sia la politica durissima contro la corruzione (che ha fatto grandi danni a tutto il settore del lusso, ma anche alle importazioni in Cina di olio d’oliva) sia le nuove leggi in tema ambientale.
Tra i molti spunti – tra cui c’è una inedita classifica delle province in cui le aziende italiane, anche in considerazione dei trattati bilaterali, hanno più opportunità di investimento – si trova anche la chiave per interpretare gli investimenti cinesi in Italia.
Fonte: Fondazione Italia Cina, “La Cina nel 2015”
Nel nuovo catalogo degli investimenti esteri ci sono più liberalizzazioni, ma anche nuove restrizioni. Dove i cinesi hanno abbastanza know how da voler fare da soli
La parola chiave è “Catalogo”, o per meglio dire il “Catalogo sulle linee guida per gli investimenti esteri”, che è stato aggiornato il 10 aprile 2015. La tendenza generale è che diminuiscono i settori sottoposti a restrizioni per gli investitori esteri, da 79 a 38 (dal metallurgico dei metalli non ferrosi all’e-commerce e a vari servizi finanziari), così come scendono da 43 a 15 quelli che prevedono joint-venture tra aziende straniere e realtà cinesi. Ma non si può ignorare che sono state aggiunte nuove restrizioni, per esempio nel settore dell’educazione, istruzione e cultura o tutto il mondo dell’intrattenimento e dei parchi a tema (campo dove l’Italia è attiva con player come Zamperla). Ci sono anche nuovi “settori proibiti”, in cui non è proprio più possibile fare affari da parte di imprese straniere. Dalla produzione di semi Ogm (per favorire la ricerca cinese) alla lavorazione del petrolio, dalla produzione di energia nucleare alla vendita di tabacco.
Fonte: Fondazione Italia Cina, “La Cina nel 2015”
Che significa tutto questo? Semplice: «Il catalogo è la lista della spesa di quello di cui i cinesi hanno bisogno – spiega Rosenthal -. Attenzione, non è un dire “facciamo entrare gli investimenti esteri”. Ma è “facciamo entrare quello di cui abbiamo bisogno”, o prendendolo attraverso acquisizioni dall’estero, o facendo entrare gli investitori in Cina». «Spesso si è sentito ripetere – aggiunge – che ci sono dei passi avanti nelle liberalizzazioni degli investimenti stranieri in Cina. Ma non si può non considerare che ci sono anche dei passi indietro. Quando hanno raggiunto un obiettivo, lo cambiano».
Risultati economici delle imprese italiane in Cina
Fonte: Fondazione Italia Cina; CeSif
Rosenthal: «Loro hanno una politica industriale, noi no. Loro hanno una continuità fortissima nelle scelte economiche, piano quinquennale dopo piano quinquennale»
Ci dobbiamo preoccupare? Se l’obiettivo è far entrare know how, per poi chiudere le porte una volta che le nostre competenze tecniche siano state assorbite, non stiamo semplicemente regalando alla Cina quello che abbiamo di più prezioso in modo miope? «Non credo – risponde Rosenthal -. Il caso dell’azienda Eldor, raccontato durante la presentazione del rapporto, dice che l’azienda non avrebbe investito a Como se non avesse investito prima in Cina. Un’altra azienda, la Cifa di Senago (Mi) (prodotti per le costruzioni), ha potuto accedere al mercato cinese solo dopo essere stata acquisita da un gruppo cinese. La lezione è che operazioni che sembrano essere di delocalizzazione sono generatrici di business tra i due Paesi. Pur tenendo presente che i cinesi non fanno niente per niente». E soprattutto che c’è un’enorme differenza tra l’Italia e la Cina. «Loro hanno una politica industriale, noi no. Loro hanno una continuità fortissima nelle scelte economiche, piano quinquennale dopo piano quinquennale», noi trattiamo ogni emergenza industriale, dall’Electrolux alla Whirlpool, facendoci prendere sempre di sorpresa.
«La paura non è sempre negativa – conclude Rosenthal -: fa tenere gli occhi aperti, dobbiamo sempre farlo quando facciamo gli accordi con la Cina. Questo non vuol dire avere un approccio legalistico, perché chi lo fa viene sempre fregato. Non dimentichiamoci che durante la Rivoluzione Culturale il diritto venne stravolto. L’approccio legale viene visto come ostile, i rapporti li sistemano a livello umano, attraverso il concetto di armonia».