Stimo e ammiro le grandi case di consulenza strategica, ma le conosco abbastanza per sapere che hanno un’anima profondamente commerciale, perciò quando sventolano pubblicamente studi che di norma tengono strettamente confidenziali sono incline a pensare che stiano cercando innanzitutto un posizionamento nel mercato. Accantonato questo primo dubbio mi esercito nel confutare alcune delle tesi sostenute nello studio Bcg/Bernstein (“La riforma delle banche popolari”) riportato da Linkiesta e da molti altri giornali. Uno studio che in 20 pagine evidenzia grandi vantaggi nelle aggregazioni – per ora teoriche – tra banche popolari (a seguito della recente riforma) e banche in crisi (Mps, Carige).
Con rispetto propongo alcune controargomentazioni che hanno radici nell’esperienza diretta delle organizzazioni bancarie e nei loro comportamenti tipici.
a) Tagliare i costi o aumentare i ricavi?
Le migliori fusioni e acquisizioni sono costruite per due terzi sull’aumento dei ricavi, e per un terzo sul taglio dei costi
Prima osservazione sulla finalità delle combinazioni bancarie. Lo studio Bcg ammette che deriveranno quasi esclusivamente dalla razionalizzazione, dal taglio dei costi e non dalla crescita dei ricavi (+0,4 miliardi di euro). Già questo è un inizio zoppicante: le migliori fusioni e acquisizioni sono costruite per due terzi sull’aumento dei ricavi, e per un terzo sul taglio dei costi. Ciascuna banca popolare sta già manovrando da anni sul taglio dei costi di struttura, sulla riduzione delle filiali e del personale con accordi sindacali non semplici. Senza negare le economie di scala, realizzabili soprattutto nelle aree amministrative e di backoffice, il problema numero uno delle banche italiane nei prossimi anni è la ricrescita e riqualificazione dei ricavi e dei margini. Se la crescita dei margini deriva quasi totalmente dal calo fisiologico del costo del rischio (minori accantonamenti e rettifiche dopo 7 anni) – come indicato dalle frecce apposte sul grafico Bcg – trovo il presupposto di queste operazioni fragile nel lungo termine e i benefici nel breve indipendenti dall’ipotesi di fusione. Sono propenso a pensare che si otterrebbero anche nella versione stand-alone forse in misura leggermente inferiore, ma con maggiore velocità e certezza.
Della stessa opinione sembra essere anche il navigato Ceo di UBI Banca Victor Massiah che nel corso della recente assemblea ha raffreddato gli entusiasmi affermando che in passato solo un’aggregazione su due ha prodotto i risultati teoricamente sperati e che oggi occorre andare molto cauti sui presunti vantaggi delle fusioni («Non basiamoci su schemi precedenti per le aggregazioni, le condizioni sono cambiate»).
fonte: BCG-Bernstein (modificato con annotazioni)
b) Le diseconomie striscianti da fusione
Colpisce che, nonostante le passate esperienze, lo studio Bcg non adotti maggiore cautela nel bilanciare economie di scala, con le molte diseconomie di scopo, quelle che si sono puntualmente verificate in casi precedenti e che mi accingo ad elencare:
1) lentezza: i tempi delle integrazioni sono sempre stati lunghi, più lunghi del previsto a causa della complessità e delle enormi resistenze interne ai tagli che sono spiegati di seguito. Non mi sembra che in un settore che deve accelerare e creare redditività anche nel confronto europeo l’idea di fermarsi un paio di anni per integrare due entità sia di per sé saggia;
La fusione tra due banche rallenta e complica scelte strategiche di tecnologia proprio ora che le banche devono liberarsi di procedure informatiche non competitive
2) caos informatico: le fusioni comportano inevitabili decisioni sulla scelta dell’infrastruttura informatica (IT), già gravata da stratificazioni avvenute in passato e poco efficienti. La fusione della piattaforma informatica è obbligatoria e comporta scelte spesso politiche su aspetti che dovrebbero essere puramente tecnici; si realizza con complesse migrazioni di applicativi per la rete filiali, per l’home banking, per i sistemi di pagamento fisso e mobile. In passato queste migrazioni si sono rivelate lente, inefficaci e hanno scaricato enormi inefficienze sulla clientela lasciando infrastrutture sostanzialmente vecchie. La fusione tra due banche rallenta e complica scelte strategiche di tecnologia proprio ora che le banche devono liberarsi di procedure informatiche non competitive rispetto alla migliore tecnologia disponibile oggi;
In passato tutte le fusioni bancarie sono sfociate in dure guerre tribali
3) conflitto organizzativo: le fusioni pacifiche tra pari (merger of equals) come quelle ipotizzate tra le varie popolari, sono teoria, non esistono in natura. In passato tutte le fusioni bancarie sono sfociate in dure guerre tribali in cui una parte ha cercato di prevalere sulla tribù rivale, a dispetto di qualsiasi logica meritocratica e di creazione di una cultura vincente comune. Alcune di queste guerre tribali sono infinite e ancora in corso, ad esempio tra Bergamo e Brescia; altre hanno sterminato tribù di qualità (Bam e Antonveneta) creando nuovamente sconcerto nella clientela. Non c’è poesia quando si tratta di scegliere chi comanda in organizzazioni che sono rimaste altamente gerarchiche. Le cordate, le affiliazioni vincono sempre. Immaginabile che questo si possa ripetere tra i milanesi di Bpm e i veneti di Banco Popolare o ancora peggio tra Vicenza e Montebelluna che si stanno sfidando a distanza da tempo.
4) danni alle relazioni: per i consulenti la razionalizzazione (=chiusura) degli sportelli è un vantaggio economico. Trascurano sempre che la rescissione di un contratto d’affitto su due filiali vicine è un beneficio economico modesto rispetto a inefficienze e confusione generata nel trasferimento del personale da una filiale all’altra, nel disaccoppiamento forzato tra il cliente e il suo referente storico, con la perdita totale di informazioni soft sul cliente, che non sono conservate in banca ma ancora archiviate nella testa del dipendente. I clienti delle banche si sono sempre lamentati rumorosamente di questi caroselli di personale.
5) concentrazione del credito: scrivere che non ci sarebbero effetti sul credito concesso ai clienti (“una bufala”) è indice di superficialità o di quanto poco i consulenti frequentino le imprese o le Centrali Rischi. In un sistema basato sulla molteplicità dei fidi, con imprese che usano spesso da 5 a 10 banche, negare che gli accoppiamenti tra due popolari (entrambe al Nord o addirittura nella stessa regione) comporteranno una revisione dei fidi per una quota non banale dei clienti è sbagliato. Soprattutto in un periodo di politiche del credito altamente selettive. La realtà è che trovare affidamenti concessi da entrambe le banche candidate alla fusione è abbastanza frequente in Lombardia, in Piemonte in Veneto e proprio dove il credito ha maggiore peso (medie e grandi imprese) e maggiore criticità (i rating peggiori). Nelle fusioni bancarie passate raramente la somma aritmetica degli affidamenti è stata mantenuta. Poco o tanto le aggregazioni contribuirebbero alla riduzione dei volumi totali di impieghi.
c) La storia delle fusioni insegna
Un’ultima osservazione. Alcune delle popolari oggetto dello studio (Banco Popolare, Bper, Ubi e Bpm) hanno nel tempo assorbito altre banche. Si pensi ad esempio al Banco Popolare che nel tempo ha conquistato e deglutito Banca Popolare Novara, Popolare Lodi, le Casse di Lucca e Pisa, il Banco San Gimignano e Creberg. Quindi nei passati processi di aggregazione le “sinergie” avrebbero già dovuto realizzarsi e sostenere Roe e redditività. Invece…i bilanci sono andati comunque in rosso per motivi diversi. Una ragione in più per prendere con il beneficio del dubbio i grafici che vengono forniti nello studio. A posteriori credo si possa dimostrare che i risparmi ci sono stati ma mai nella dimensione e nei tempi in cui erano stati previsti. E non si trattava di fusioni, ma piuttosto di vere e proprie acquisizioni.
Ristrutturare e poi acquistare da posizioni di forza
Penso che queste annotazioni possano bastare per supportare la mia convinzione che un valzer di M&A (soprattutto in una situazione in cui nessuna popolare accetterà di essere acquisita e schiavizzata dall’altra), non sia la scelta più efficace nell’attuale momento storico. Non nego in futuro che la crescita dimensionale possa servire alle maggiori popolari, ma ritengo che per le banche popolari sane sarebbe più opportuno aderire alla riforma accelerando la riorganizzazione degli affari interni, a partire dal processo del credito problematico e normale, per riprendere il cammino della crescita. Un esercizio non facile che permetterà nei prossimi due anni di distinguere le banche migliori da quelle più lente e incapaci di rinnovarsi. Solo a quel punto sarà opportuno tornare a parlare di acquisizioni (non più di fusioni) con più trasparenza su chi comanda e impone le scelte organizzative.
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