A Sud, tra Catania, Palermo, Crotone, Napoli e Bari, si gestiscono a stento i soccorsi delle migliaia di profughi e immigrati che continuano a sbarcare sulle nostre coste: oltre 33mila dall’inizio del 2015. Nel resto d’Italia, dove si dovrebbe gestire l’accoglienza vera e propria, regna il caos. Da un lato Angelino Alfano chiede un impegno maggiore di Regioni e Comuni, dall’altro molti enti locali gli danno il due di picche e si girano dall’altra parte. I centri esistenti sono già pieni: la procedura prevede che gli arrivati dovrebbero restare in media nelle strutture non più di sei mesi, ma molti sono fermi in questo limbo da un anno o forse più. Su 75mila migranti circa presenti nei centri, due su tre sono arrivati l’anno scorso e dovrebbero già essere avviati in un percorso di integrazione o fatti tornare nei Paesi d’origine. «Ci sono persone ferme da un anno e due mesi o un anno e tre mesi: questo significa dimezzare la capienza delle strutture», dice Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas. «Colpa della lentezza nelle procedure d’esame delle richieste di protezione internazionale».
Il no di Valle D’Aosta, Lombardia e Veneto
E con le elezioni alle porte, la questione si fa anche politica: accogliere migranti potrebbe far perdere voti. Da alcune regioni – Valle D’Aosta, Lombardia e Veneto – è già arrivato il no alla circolare del Viminale del 4 maggio che chiede di trovare almeno 80 posti letto per provincia «perché i centri di accoglienza sono tutti in soprannumero». Con un forte sbilanciamento verso il Sud. La Sicilia, con 107 strutture temporanee, accoglie già il 23% di tutte le presenze di immigrati in Italia. La Calabria, con 54 strutture, copre il 6%; la Puglia con 50 centri arriva all’8 per cento. Ma ci sono regioni come la Lombardia, per esempio, che con 313 strutture si fa carico del 9% dei migranti presenti.
Per il 7 maggio è fissato un incontro che si prevede infuocato tra il ministro dell’Interno Angelino Alfano e i rappresentanti dei Comuni. Da Sinperf e Ap, i due sindacati più rappresentativi dei prefetti, il giorno prima hanno fatto sapere di voler disertare la riunione. Causa la riforma sulla pubblica amministrazione Madia, ma anche la gestione emergenziale dell’accoglienza immigrati. «Siamo stati lasciati soli», denunciano. «Sconcerto e malessere», scrivono, «accomunano, da Nord a Sud, quanti, specie in questo delicatissimo momento del Paese, stanno assicurando con i consueti spirito di servizio e senso delle istituzioni, l’espletamento di funzioni essenziali dello Stato: nei settori dalla immigrazione alla sicurezza, dalle crisi sociali a quelle economiche». Senza contare che in alcune delle città di prima accoglienza per i migranti, come Bari e Salerno, da mesi la poltrona del prefetto è vuota.
Con le elezioni alle porte, la questione si fa anche politica: accogliere migranti potrebbe far perdere voti. Da Valle D’Aosta, Lombardia e Veneto è arrivato il no alla richiesta di Alfano di trovare nuovi posti
Accoglienza al collasso
L’accoglienza degli immigrati è gestita dalle prefettura e poggia in primis sui centri ufficiali governativi. Nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo), Cpsa (Centri di primo soccorso e accoglienza) e Cda (Centri di accoglienza per richiedenti asilo), al momento sono ospitate circa 11.300 persone. Le strutture sono al collasso, ospitando numeri ben oltre la soglia di capienza massima. Circa 20mila migranti si trovano invece negli Sprar, Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Il resto, oltre 42mila migranti, si trovano nelle 1.861 strutture di accoglienza temporanee. In tutta la penisola in questi anni di “emergenza” è cresciuta una rete di cooperative, associazioni, centri di accoglienza e privati (i cosiddetti Cas, centri di accoglienza straordinaria) che mettono a disposizione posti letto in strutture (spesso non adeguate) per una spesa media di circa 35 euro al giorno, a seconda dei costi di gestione dei centri, di cui 2,50 euro in media (pocket money) vengono dati ai migranti per le spese quotidiane. Si tratta di alberghi, pensioni, agriturismi che spesso non sono in grado di offrire le tutele e le garanzie necessarie per i richiedenti asilo, a partire dall’orientamento legale e sanitario.
Ad oggi, questa rete di accoglienza è satura. Servono nuovi posti. E se le prefetture sono in affanno, dagli enti locali la disponibilità è scarsa. I prefetti fanno appello ai sindaci, ma se non arrivano risposte positive l’alternativa è rivolgersi al terzo settore o ad alberghi e agriturismi. Allo Sprar finora hanno aderito solo 500 Comuni su 8mila. «Dev’essere il singolo Comune ad accettare», spiega Forti. Sul tavolo della riunione con i sindaci al Viminale c’è proprio l’aggiunta di altri 20mila posti nello Sprar, che dovrebbe riportare ossigeno a un sistema al collasso. Si è parlato anche dell’utilizzo delle caserme e della costruzione di tendopoli. L’extrema ratio potrebbe essere la requisizione e l’occupazione dei locali.
I prefetti sono in affanno. E i sindaci fanno orecchie da mercante. Allo Sprar finora hanno aderito 500 Comuni su 8mila
Il 10 luglio 2014, in realtà, la Conferenza Stato Regioni sembrava aver raggiunto un accordo per la gestione dei profughi in maniera strutturale e non più emergenziale. L’accordo prevedeva, dopo il salvataggio in mare, lo smistamento entro 48 ore nei centri regionali per l’identificazione e poi la sistemazione con il metodo Sprar. Ma il sistema non funziona. «Gli Sprar», dice Forti, «oggi sono pieni e fanno anche la prima accoglienza», quando invece dovrebbero intervenire solo in un secondo momento.
Immigrati nei centri da più di un anno: così la capienza è dimezzata
«La procedura prevede che queste persone stiano nei centri per sei mesi in media in attesa di ricevere una risposta sulla protezione internazionale», spiega Oliviero Forti. «Vuol dire che lo stesso posto in un anno può essere usato da due persone». I Centri di accoglienza dovrebbero servire solo per garantire un primo soccorso e accertare l’identità dello straniero. Stessa cosa i Centri di prima accolgienza, dove dopo aver avuto le cure mediche necessarie ed essere stati fotosegnalati gli immigrati possono richiedere la protezione internazionale. I richiedenti asilo a loro volta potrebbero sostare nei Cara al massimo per 35 giorni. Ma ci sono persone che sono ferme in queste strutture anche da un anno e tre mesi, tra «problemi di natura burocratica e difficoltà a nominare i membri delle commissioni territoriali che devono valutare le richieste di protezione internazionale». Oltre al fatto che ogni commissione ha i suoi tempi. In alcuni casi tra l’audizione del richiedente e la decisione successiva passano solo poche settimane, in altri ci vogliono mesi. È questione di fortuna. Nell’estate 2014 Alfano ha raddoppiato le commissioni territoriali per velocizzare le procedure. Ma alcune commissioni, soprattutto quelle di nuova istituzione, non lavorano ancora a pieno regime.
In media gli immigrati dovrebbero restare nei centri non più di sei mesi. Ma c’è chi è fermo in questo limbo da oltre un anno. Colpa delle lungaggini delle commissioni territoriali che devono esaminare le richieste d’asilo
Così, mentre gli sbarchi premono sulle coste, come scrive il Corriere della sera ci sono ancora quasi 40mila richieste d’asilo presentate nel 2014 che devono ancora essere esaminate. E dei quasi 34mila arrivati già dall’inizio del 2015, quasi 21mila hanno già fatto richiesta per ottenere lo status di rifugiato. E i dinieghi sono sempre più in aumento: 13.300 solo nel 2014. Nel caso di diniego, il richiedente può fare ricorso al giudice ordinario, e finché la situazione non viene definita dal punto di vista legale, si resta nei centri di accoglienza. «Aumentano le richieste da parte di nazionalità che non sono in condizioni di chiedere la protezione», spiega Forti. «Dopo il no definitivo da parte del giudice, queste persone devono lasciare l’Italia. La conseguenza è che cresce il numero di persone che rischiano di restare in maniera irregolare sul territorio».
Alternative: l’accoglienza in famiglia
Un’alternativa all’accoglienza standard potrebbe essere quella nelle famiglie. Alla Caritas lo scorso anno hanno fatto un primo esperimento con 34 famiglie. E altre realtà del terzo settore hanno seguito l’esempio. «Vivere in casa per sei mesi con una famiglia italiana è una forte opportunità di integrazione», dice Forti. «Stiamo ricevendo molte richieste da parte dei territori e faremo ripartire il progetto. È un’accoglienza che costa un quarto di quanto spende lo Stato e ha un esito migliore. Ospiti una persona, la fai conoscere al tuo vicino, le fai frequentare il quartiere. Così si allegerisce la tensione sui territori».