La questione della partecipazione italiana al programma Joint Strike Fighter, per l’acquisto dei caccia F-35 della Lockheed Martin, è andata e venuta nel dibattito pubblico italiano tra il 2012 e il 2013. Poi è come scomparsa: ma nel frattempo il programma è proseguito, come dimostra l’uscita dallo stabilimento di Cameri, vicino a Novara, del primo F-35 assemblato in Italia.
Sui tempi e le risorse da impegnare nel programma restano molte cose da decidere, e la famosa riduzione del numero di aerei ordinati dal nostro Paese non è ancora avvenuta né è sicuro che avverrà, come testimonia l’ultimo bilancio triennale presentato dal ministero della Difesa.
Giovedì 21 maggio, infatti, è uscito il corposo Documento programmatico pluriennale per la Difesa per il triennio 2015-2017 (Dpp), con cui il ministero presenta al Parlamento le previsioni di spesa per l’anno in corso e il bilancio del triennio.
Quest’anno, stabilisce il Dpp, il nostro Paese spenderà per il caccia cosiddetto “di quinta generazione” 582 milioni di euro. Per mettere le cifre in prospettiva, l’Italia destina 19,3 miliardi di euro (l’1,17 per cento del Pil) per la Difesa: circa metà di questi vanno per pagare gli stipendi. Il programma F-35 risulta oggi un quarto del bilancio ministeriale nel settore degli investimenti (complessivamente 2,3 miliardi).
Se le cifre sono queste, c’è molta più incertezza riguardo a un particolare cruciale: quanti aerei acquisterà l’Italia. Nell’aprile del 2009, il Parlamento approvò un piano per 131 F-35 (109 per l’Aeronautica Militare e 22 per la Marina). E questo, come fanno notare oggi diversi deputati e senatori contrari al progetto, è a tutt’oggi l’unico atto parlamentare che costituisce un impegno formale.
Poi venne la crisi e, nel febbraio 2012, l’allora ministro della Difesa del governo Monti, Giampaolo Di Paola – ammiraglio e già capo di Stato maggiore tra il 2004 e il 2008 – prospettò la riduzione degli aerei da acquistare da 131 a 90. Ma all’annuncio non fece seguito alcun atto parlamentare, per cui si trattò appunto solo di un annuncio.
La riduzione di una quarantina di esemplari è tutt’altro che irrilevante, se si pensa che, in base alle ultime stime, il costo per ciascun aereo si aggirerà intorno ai 140 milioni di euro.
Diverse interrogazioni parlamentari hanno chiesto di far chiarezza sul programma F-35. A settembre dello scorso anno, è stata approvata dalla Camera una mozione del deputato Pd Gian Piero Scanu che impegnava il governo a «a riesaminare l’intero programma F-35 per chiarirne criticità e costi con l’obiettivo finale di dimezzare il budget finanziario originariamente previsto».
La riduzione, finora, non si è vista. Nell’ultimo Dpp le spese sono dettagliate così: 900 milioni di dollari per il sostegno alla produzione entro il 2047; 500 milioni di dollari per la «predisposizione in ambito nazionale»; 10 miliardi di dollari entro il 2027 per «l’avvio dell’acquisizione e supporto logistico».
Sono le stesse cifre che il ministero della Difesa indicava nell’aprile del 2012 (escluse quelle per la predisposizione, che allora non erano specificate) e, tenendo conto che negli ultimi anni le spese per il programma sono state di 3,6 miliardi di dollari, sono sostanzialmente invariati dal periodo pre-crisi, come dimostrano i bilanci presentati a inizio 2010 , quando il governo era Berlusconi e il ministro competente La Russa. Se la mozione Scanu è stata accolta dal governo, nei documenti contabili non se ne trova traccia.
Lo stesso Dpp sembra ammetterlo tra le righe: «Troppe sono le variabili e i mutamenti possibili per poter stabilire oggi, con precisione, quali saranno le esigenze minime in un futuro lontano», si legge nella scheda dedicata al programma Jsf. «Decidere ora in modo ultimativo – prosegue il documento – sui volumi complessivi di un programma che si estende per i prossimi 15-20 anni, quindi, non è saggio né utile al Paese». Può essere; ma allora che farsene della mozione approvata a settembre scorso?
Ad ogni modo, il Dpp fa qualche concessione ai critici e dice che «nel breve-medio periodo» saranno acquistati solo i velivoli «strettamente necessari», e il taglio sembra effettivamente significativo: in origine si prevedeva la consegna, entro il 2020, di 101 aerei, mentre oggi si prevede che saranno solo 38.
Quello che non si dice, però, è che la riduzione nei prossimi cinque anni ha probabilmente a che fare anche con i grandi ritardi e problemi tecnici del programma – di cui il Dpp non fa alcuna menzione – su cui hanno posto l’attenzione il mese scorso due distinti report del Pentagono e dell’ente indipendente di controllo del Congresso Usa, il Government Accountability Office (Gao).
Attualmente sono ancora da risolvere problemi al motore, le prove in volo sono indietro rispetto alla tabella di marcia e i livelli di spesa annuali per i prossimi vent’anni – in media 12,4 miliardi di dollari – sono stati giudicati «improbabili» dal Gao statunitense. Nel 2014 Lockheed Martin ha consegnato 36 aerei, ma nessuno con capacità operative sul campo. Nel frattempo, praticamente tutti gli altri sette Paesi, oltre all’Italia, coinvolti nel progetto internazionale capeggiato dagli Stati Uniti hanno avuto ripensamenti.
Un caso emblematico è quello del Canada, che a fine 2012 ha annunciato che non avrebbe più comprato i 65 aerei previsti. Poi ha predisposto una revisione istituzionale del programma, terminata un anno più tardi. Ora pare che il governo non voglia chiarire che ne sarà dell’acquisto, un tema ritenuto troppo spinoso in vista delle elezioni che si terranno alla fine di quest’anno.
In Italia parlamentari più critici sul progetto si aspettavano risposte dal molto atteso Libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa, presentato meno di un mese fa: ma nelle sue 68 pagine non si fa alcun riferimento esplicito agli F-35, men che meno ai numeri o ai costi precisi del programma. Il 4 maggio scorso, l’onorevole Massimo Artini – vicepresidente della Commissione Difesa, eletto con il M5S e oggi iscritto al gruppo misto nella componente Alternativa Libera – ha presentato al ministro Pinotti un’interrogazione per sapere come verrà effettivamente rimodulata la spesa di qui al 2020.
Oggi i ritorni economici del programma sono un tema ugualmente spinoso e difficile da precisare. Il segno più tangibile dei benefici del programma è senz’altro l’impianto di Cameri, l’unico esistente fuori dagli Stati Uniti per l’assemblaggio degli aerei. A Cameri, gestito dalla società Alenia Aermacchi in collaborazione con la Difesa, vengono anche costruite le ali degli aerei, e in futuro si dovrebbe trasformare l’impianto in un centro di manutenzione per tutti gli aerei di quel tipo di stanza in Europa.
Il Dpp stima i ritorni in termini occupazionali in 1200 posti di lavoro, al momento, che saliranno «a regime» fino a 6400. Aggiunge che, davanti ad investimenti fatti finora per 3,5 miliardi di dollari, i ritorni industriali sarebbero pari già oggi a circa 1,6 miliardi.
L’Italia ha già preso, da anni, un impegno sostanziale all’interno del programma Jsf, di cui è partner di secondo livello insieme all’Olanda, con una partecipazione alle spese di ricerca e sviluppo intorno al 5 per cento (l’unico partner di primo livello degli Usa è il Regno Unito, con il 10 per cento circa). Sono impegni presi con una serie di accordi conclusi nel 2002, quando la crisi economica sembrava ancora lontana: ma da allora le cifre in ballo sono rimaste nella sostanza invariate, nonostante gli annunci.