“Da naturalista temo più una guerra che il riscaldamento globale”

“Da naturalista temo più una guerra che il riscaldamento globale”

Uno dei libri rivelazione dell’anno l’ha scritto Fredrik Sjöberg, scrittore, biologo ed entomologo svedese. Si chiama L’arte di collezionare mosche e, partendo dalla passione di collezionare insetti, un libro che il Guardian ha paragonato ad andare a cena con un brillante e geniale intellettuale «ironico, arguto e ricco di osservazioni meravigliosamente interessanti». Un libro mondo, che sfugge a qualsiasi tassonomia di genere, che parte dall’entomologia e arriva a parlare della vita.

In questi giorni Fredrik Sjöberg è a Milano in occasione del festival I Boreali, organizzato da Iperborea, e noi l’abbiamo incontrato, ma non per parlare di mosche o altri insetti; un po’ come lui stesso fa nel libro, siamo partiti da collezionismo per arrivare un po’ più in là, ai problemi del mondo, alle minacce che incombono sul nostro futuro. Perché, come dice Sjöberg, il mondo assomiglia alla letteratura e per capirlo «prima di tutto bisogna conoscere la lingua. In un dizionario fatto di animali e di piante, dunque, le mosche sono vocaboli in grado di narrare storie di ogni tipo seguendo il codice di leggi grammaticali dell’evoluzione e dell’ecologia».

«La lentezza è difficile da trovare di questi tempi. Ma sono convinto che si possa sempre ritornarci, c’è sempre tempo per imparare di nuovo a goderne»

In un mondo dominato dalla Rete, dalla velocità e dalla globalizzazione, il collezionismo riesce a sopravvivere?
Effettivamente il mondo in cui viviamo è arrivato a una tale velocità, è ricolmo di tante informazioni ed è fonte di tanti stimoli che il lavoro del collezionista si è fatto più complicato, ma non, come si potrebbe pensare, perché abbiamo meno tempo per collezionare, piuttosto perché abbiamo meno tempo e meno capacità di concentrazione per mettere le basi del nostro collezionismo, per diventare esperti di qualcosa, per approfondire ed espandere le nostre conoscenze. Accumulare e organizzare il sapere per poter collezionare — non parlo solo di mosche, vale per ogni ambito — è un’attività slow, serve costanza e, per l’appunto, serve lentezza. È quello l’ingrediente più difficile da trovare di questi tempi. Ma sono convinto che si possa sempre ritornare alla lentezza, c’è sempre tempo per imparare a goderne, in fondo è un processo addirittura istintivo e naturale, pensa al nostro invecchiamento, la riconquista delle lentezza fa parte della nostra vita.

La velocità del mondo è sempre più spesso usata dalla politica come scusa per chiedere più potere e per concentrarlo, rendendo le decisioni più rapide. Cosa ne pensa?
La politica piuttosto che cavalcare questa supposta velocità per chiedere più potere dovrebbe difenderci dai rischi della eccessiva accelerazione di alcune dinamiche economiche e finanziarie. Prendiamo per esempio i mercati finanziari: ormai un tonfo in una qualsiasi delle principali borse mondiali si ripercuote in tutto il mondo nel giro di pochi secondi, o ancora, ci sono algoritmi che, analizzando dati in pochi millisecondi, proprio sulla velocità delle operazioni basano nuove e gigantesche speculazioni. Questi sono gli effetti secondari della velocità da cui i nostri politici dovrebbero tutelarci, questa è la velocità di cui dovrebbero parlare.

«La politica piuttosto che cavalcare questa supposta velocità per chiedere più potere dovrebbe difenderci dai rischi della eccessiva accelerazione di alcune dinamiche economiche e finanziarie»

Ci sono processi storici che invece sono molto più lenti, penso al riscaldamento globale e al cambiamento climatico, come si stanno comportando i nostri politici in questo campo?
È un discorso certamente molto complicato. Per quanto riguarda la Svezia devo dire che ci sono tanti politici che stanno veramente cercando di fare qualcosa per affrontare i problemi relativi al cambiamento climatico. Però bisogna anche presupporre che sia un tema reso ancor più complicato proprio per l’estrema lentezza dei fenomeni di cui parliamo, fenomeni che ci mettono decine, se non centinaia di anni ad accadere. Si tratta di un tempo che, rapportato alla intrinseca lentezza della politica — che se non altro ogni 4-5 anni devo rinnovarsi con delle elezioni — rende difficile costruire una politica di lungo termine.

«Non riesco a vedere le tematiche ambientali come il problema più impellente per l’Umanità, la minaccia più grande è una guerra»

Quindi la politica non sarà in grado di fare nulla?
Ho detto che è difficile, non che è impossibile. Da quando se ne è cominciato a parlare negli anni Settanta, grazie anche alla crescita del movimento ambientalista in tutto il mondo, direi che già qualche passo avanti lo abbiamo fatto. Io sono cresciuto in quel periodo, gli anni Settanta, un periodo in cui tutto aveva preso una direzione pessima per quanto riguarda la distruzione degli ecosistemi, gli abusi edilizi, la cementificazione selvaggia, tutte dinamiche di cui la gente quasi non si interessava. Ma è proprio per questo che sono ottimista, perché da allora sono passati quarant’anni e le cose mi sembrano migliorate. E in ogni caso, forse non te lo aspetterai, ma non riesco a vedere le tematiche ambientali come il problema più impellente per l’Umanità in questo momento. Anche perché sono convinto che questo sia un problema che, a un certo punto, capiremo come risolvere. E comunque la cosa bella della natura è che è straordinariamente resistente, si adatta ed è in grado di riprendersi da sola. Questo mi fa essere ottimista.

Qual è il problema più grande che abbiamo di fronte?
Scongiurare una guerra. Quando ero giovane erano gli anni Sessanta e Settanta e c’erano due grandi minacce che ci inquietavano: la sovrappopolazione del mondo e una possibile guerra nucleare. Poi sono arrivati gli anni Novanta, l’Unione Sovietica è crollata, mettendo da parte — almeno per un po’ — il pericolo di una guerra nucleare; contemporaneamente la curva della crescita della popolazione mondiale si è leggermente stabilizzata. Ma una malattia da cui però non siamo ancora immuni — e non dobbiamo convincerci di esserlo — è la guerra.

Neanche l’Europa crede che ne sia immune?
Be’, in Europa stiamo vivendo la più grande crisi economica del dopoguerra, con la Grecia che è al limite delle sue forze e purtroppo non è l’unica, altri paesi che vacillano; e ancora, la disoccupazione è ai record storici, non riusciamo a trovare una quadra per affrontare il problema dell’immigrazione e i movimenti nazionalisti e i partiti di estrema destra stanno guadagnando consensi ovunque. Ora, nella Storia del mondo, quando sul tavolo si sono trovati contemporaneamente tutti questi elementi è sempre scoppiata una guerra. Non so noi come lo affronteremo, ma temo che dovremmo iniziare a pensarci.

«Una piccola minoranza del mondo diventa sempre più ricca mentre una gran parte si impoverisce sempre di più, una situazione instabile, che nella Storia ha sempre portato a un momento di rottura molto violento»

Dobbiamo temere la politica estera della Russia?
No, o almeno, io non sono uno di quelli che teme la Russia, non credo che sarà quella la grande minaccia per l’Europa e per il mondo intero. La grande minaccia è un’altra, è quella a cui accennavo prima, ovvero la sostanziale anarchia del mercato finanziario, che è alla base di una polarizzazione delle ricchezze mondiale insostenibile: una piccola minoranza del mondo diventa sempre più ricca mentre una gran parte si impoverisce sempre di più, arrivando molto spesso a non avere nulla. Questa è una situazione decisamente instabile, pericolosa e nella Storia ha sempre portato a un momento di rottura molto violento.

E come possiamo far fronte a questo pericolo?
Non so come, ma in qualche modo dobbiamo riuscire a trovare la risposta a questa domanda, una risposta che spero vivamente sia meno violenta e drastica di quelle del passato, come ad esempio la Rivoluzione francese o quella russa, che è avvenuta appena un secolo fa, non troppo lontano nel tempo.

«La gente ha sempre bisogno di migrare, per ragioni politiche, ma anche economiche, ed è una cosa che dobbiamo accettare, non possiamo opporci, dobbiamo trovare un modo intelligente di far fronte alla dinamica»

C’è un paradosso a proposito delle frontiere, ovvero che, al contrario di quel che molti pensano, non sono sempre esistite, o almeno, non servivano per bloccare le persone, ma solo le merci e i soldi. Quale crede che sia il futuro delle frontiere?
Negli anni Novanta in Svezia ci fu un referendum sull’entrare o meno nell’Unione Europea. All’epoca i nostri politici ci dissero che sarebbe stata una scelta che puntava al futuro, un futuro senza frontiere, caratterizzato da tre vantaggi: il principale riguardava la mobilità delle persone, che non avrebbero più avuto bisogno di un passaporto per muoversi; il secondo era per le merci e solo il terzo, l’ultimo, per i soldi. Quello che è successo è che istantaneamente si sono mossi i soldi, in completa libertà, poi, subito dopo, è toccato alle merci, ma i confini sono ancora lì per le persone che, salvo noi europei, non possono muoversi liberamente. Io credo che prima o poi il mondo sarà senza frontiere, è una tendenza irrevocabile. Duecento anni fa in Europa c’erano cento volte le frontiere che ci sono ora, gli Stati erano più frammentati, c’erano frontiere ovunque. Ora almeno in Europa non è più così, noi europei possiamo andare praticamente dove vogliamo. Così non è però per tutto il resto del mondo, che non può muoversi liberamente. In qualche modo dobbiamo risolvere questo problema. Le migrazioni ci sono sempre state, pensa che cento anni fa un milione di svedesi emigrò in America — un milione su cinque, è tantissimo — un milione di persone che stava facendo la fame, come adesso la sta facendo il Sudan. La differenza tra gli svedesi di cento anni fa e i sudanesi di oggi è che all’epoca spostarsi era possibile perché in America c’era tantissima terra, quella che gli americani avevano sottratto agli indiani, mentre ora in Europa non ce n’è, o non sembra esserci, è per questo che non vogliamo che i sudanesi vengano da noi. Però ciò non toglie che la gente abbia ancora bisogno di migrare, per ragioni politiche, ma anche economiche, ed è una cosa che dobbiamo accettare, non possiamo opporci, dobbiamo trovare un modo intelligente di far fronte alla dinamica, ma smettendo di chiamarla problema, è un fatto.

E come possiamo risolverlo?
Lo ripeto, sono un ottimista, sono nato così, sono cresciuto in Svezia, che per molti aspetti è un paradiso, come faccio a non pensare che una soluzione si troverà? Se devo individuare dei fattori di speranza, soprattutto in Africa, punterei l’attenzione su quelle nazioni che in questo momento stanno dando segnali di ripresa e di sviluppo. Pensa alla Nigeria, un paese che è riuscito a sconfiggere Ebola, e ce l’ha fatta grazie ai propri medici, al proprio sistema sanitaria, alla propria polizia etc, dimostrando quindi di non essere completamente in balia della corruzione, o almeno, non quanto siamo portati a pensare noi occidentali. Questo è un fattore positivo, certo, è minimo, ma se vogliamo essere ottimisti dobbiamo partire dalle cose positive.

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