Viva la FifaEvra, o l’arte di metterci sempre la faccia

Evra, o l’arte di metterci sempre la faccia

«Vivo il presente, non vendo sogni». Ma una solida realtà, quella della finale della Champions. A fine settembre dello scorso anno, Patrice Evra teneva i piedi ben piantati in terra in un’intervista a Repubblica. In fondo, non sarebbe costato nulla dire che la Juve poteva ambire alla finale. «Ma perché no? È una competizione così pazzesca che mi sembra incredibile aver giocato quattro finali», aggiungeva infatti alla fine.

Ecco appunto, quattro finali. Con la prossima del 6 giugno sono cinque. Di cui una sola vinta, ai rigori, sotto una pioggia moscovita sottile e infida che quella sera fregò John Terry sul dischetto. Ma Evra non molla. Quando arriva alla Juve, i tifosi stanno ancora metabolizzando l’addio di Conte e l’arrivo di Allegri. Anche quell’Evra lì non convince. In Italia assieme a lui ci sono altri due vecchi della Premier. Uno è l’ex compagno del Manchester United, Vidic, finito all’Inter. L’altro è Ashley Cole ed è andato alla Roma. I tre non convincono. Sono tre scarti del campionato più bello e intenso. Lì si corre, se sono venuti qui è perché non ce la fanno più.

Per Evra non è però come quell’altra volta, la prima, in cui arrivò in Italia. Nel 1998, mentre la Francia multietnica alzava la prima coppa del mondo, un giovane Patrice si ritrova, solo, alla stazione centrale di Milano. È appena arrivato da Torino, portato lì da un italiano che lo ha conosciuto a Parigi, dove il giovane Patrice era finito a giocare, dopo un duro apprendistato tra la strada di una banlieu del sud di Parigi e un paio di club locali. In Piemonte, lo aspettavano un provino e un posto nella Primavera granata. Nel frattempo, si era sistemato in un pensionato. Poi aveva conosciuto un dirigente del Marsala: «Sei bravo, vieni a giocare con noi». E Patrice si era buttato, letteralmente. Perché il  Marsala era già una squadra di professionisti, in C1. E perché i suoi nuovi compagni sono già in ritiro, in montagna: Patrice deve raggiungerli da solo, senza parlare in pratica una parola d’italiano. Arriva così in stazione, dove tutti corrono, nessuno si ferma e le scritte sono in italiano. «Mi sedetti a terra e mi misi a piangere. Mi trovò lì un senegalese», racconterà ricordando quell’episodio. Il connazionale lo porta a casa sua, gli dà da mangiare e lo fa dormire in una stanza con altri cinque connazionali. Il giorno dopo è di nuovo in stazione e sa quale treno prendere.

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A Marsala, per Evra è una nuova vita. A differenza di Thierry Henry, con il quale ha condiviso gli inizi per strada e nei campi di periferia, Patrice non è entrato presto nel centro tecnico federale di Clairefontaine. Mentre Titì si allena e cresce a spese della Federcalcio francese, Evra resta in strada, a sud di Parigi. Gli succede la stessa cosa avvenuta a Zidane: impara difendersi, a farsi rispettare. Senza l’affanno di un padre come quello di Henry, che entrava in campo brandendo la cinghia tutte le volte che il figlio si mangiava un gol. Così, quando molti club lo scartano perché troppo piccolo di statura, lui non si preoccupa. Poi arrivano le occasioni, ma nessuno crede in lui fino in fondo, nemmeno il Psg.

Quando si ritrova nel profondo sud italiano, per Evra è una casa, lui che è emigrato con la famiglia dall’Africa quando era bambino: «A Marsala ho i ricordi più belli, quando sono arrivato in Sicilia ero un ragazzino di 17 anni e mi sono sentito in famiglia». Ventisette gare, 6 gol. L’anno dopo va al nord. Il Monza lo prende per 250 milioni di lire: è la B, la grande occasione dopo solo un anno di professionismo, ma gioca poco e torna in Francia. A Nizza lo attende Walter Salvioni, una vita nelle giovanili del Parma. In lui vede un potenziale difensore e l’occasione arriva quando si infortunano due laterali. Quando rientrano, Salvioni è chiaro: tu giochi esterno, altrimenti stai in panca.  Sarà Deschamps, al Monaco, ad usarlo come terzino. In poco tempo, Evra diventa un punto saldo, tanti da diventare vicecapitano nell’anno in cui il Munegu va a sorpresa in finale di Champions, quella persa contro il Porto di Mourinho.

La coppa, nella sua seconda finale in carriera, se la prende a Mosca, nel 2008, contro il Chelsea. La maglia è quella dello United, dove diventa anche qui un punto di riferimento. La maglia numero 3, quella che fu di Phil Neville, non gli pesa. Di più, quello che succede nel 2011, in campo, contro Luis Suarez. Il 15 ottobre, durante il match contro il Liverpool, Evra ha il compito di tenerlo sotto controllo. Durante uno scontro di gioco, Suarez non la prende bene e gli dice qualcosa. Dopo la gara, Evra racconta di essersi sentito chiamare «negro» per otto volte. Suare chiarirà di averlo fatto una volta sola, ma in tono a suo dire amichevole. La questione anima il Regno Unito e si conclude dopo un’inchiesta della Football Association con una squalifica di 8 turni a Suarez. Nel match successivo, l’uruguaiano si rifiuta di dare la mano al francese.

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Evra è uno che ci mette la faccia, sempre. Non è irruento, un Gattuso. Lui pensa, sa fermarsi un secondo prima. Ma non ti regala nulla: «Mi hanno tirato le banane, mi hanno ululato dietro, ma non me la sono mai presa: è l’ignoranza di chi ha paura della differenza, posso capirla. Ma Suarez è un collega e a lui stavo per reagire. Mi chiesi: adesso che faccio, gli do un pugno che farà il giro del mondo, che mi causerà due anni di squalifica, che tutti i bimbi vedranno?». La faccia ce l’ha messa anche nel 2010, quando da capitano della Francia guidò il clamoroso ammutinamento a Domenech al Mondiale. Dal Sudafrica è tornato senza più i gradi, ma ha più volte ricordato di poter dare l’esempio lo stesso.

Poi la Juve. Il calcio ha voluto per lui un’altra prova. I giornali italiani lo hanno salutato con entusiasmo, in fondo è arrivato per soli 1,2 milioni di sterline ed è di esperienza provata. Poi le critiche, la diffidenza sull’età. Piano piano, come quando gli promettevano che ai provini lo avrebbero chiamato e poi nulla, si è messo a lavorare con pazienza. Il 15 maggio è stato il suo compleanno numero 34 e su Twitter i tifosi lo hanno assalito di auguri. Sarà la finale numero 5 di Champions. E dall’altra parte ci sarà Suarez. «Quando lo ritroverò in campo, gli darò la mano. Ma nei tackle sarò un po’ più duro». 

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