Il bunker di Ugovizza, Udine, è abbandonato dal 1992. Era stato costruito durante il fascismo ma è stato utilizzato soprattutto in chiave anti-sovietica, come la gran parte delle strutture militari del Friuli Venezia Giulia. Dal 2010 l’associazione Landscape accompagna i turisti nel suo dedalo di corridoi sotterranei che portavano i soldati alle bocche di fuoco. A Lucinico, frazione di Gorizia alle spalle del monte Calvario, un’ex polveriera che ospitava 40 soldati si è trasformata in uno spazio aperto per le associazioni sportive, soprattutto di tiro con l’arco, dopo essere stata ceduta nel 2003 dal Demanio al comune. A Paluzza, Udine, la caserma La Tambra dal 2006 è diventata una pizzeria. Ci vanno locali, turisti austriaci e tedeschi e qualche vecchio soldato. Tre stemmi ricordano i battaglioni degli Alpini Gemona e Pinerolo e la brigata Iulia, che si alternaro nella caserma fino al 1992. Il comune di Mortegliano, Udine, ha recuperato tre aree militare dismesse. In una ci sono un’Arci che organizza un festival musicale, un’associazione dedicata all’aviomodellismo e una all’automodellismo, con una pista per auto radiocomandate. Poco distante ci sono un circolo ippico e, in un’altra area, una società che produce veivoli ultraleggeri. La scelta per una grande caserma (De Gasperi, 16 ettari) di Spilimbergo, Pordenone, è stata quella di installare un estesissimo parco fotovoltaico, caso unico in Italia. Altri siti militari sono diventati un centro polifunzionale e un centro sportivo, mentre un quarto potrebbe diventare un ricovero per cani e gatti. A San Vito al Tagliamento, Pordenone, è stato invece deciso di far diventare un nuovo carcere una vecchia caserma.
Una regione di caserme abbandonate
Una pizzeria, una pista per automodellismo, un parco fotovoltaico: tutti esempi di riconversioni di caserme in Friuli Venezia Giulia
Sono tutti progetti realizzati in Friuli Venezia Giulia: positivi, creativi, portati avanti con il supporto e il volontariato delle associazioni locali. Ma sono pochi e non nascondo una situazione grave. «Lo Stato si limita a dare ai comuni delle mele avvelenate. In pratica se ne lava le mani». Moreno Baccichet è tra le persone in Italia che più si è dato da fare per il riutilizzo delle aree dismesse. Architetto, per Legambiente è responsabile scientifico di un progetto sulla situazione delle aree militati dismesse nella regione Friuli Venezia Giulia. È stato lui, per conto dell’associazione ambientalista, a curare la ricerca delle storie citate sopra. Bastano pochi numeri per capire quale sia la situazione: 200 caserme già cedute ai comuni della regione, più altre 400 abbandonate che lo Stato non ha ancora decido di cedere. Sono caserme, fortini, politigoni di tiro, polveriere, a cui si aggiungono 1.300-1.500 bunker.
Il confine tra la base missili di Plasencis e la campagna si sta riempiendo di alberature (foto tratta dal volume Fortezza Fvg, Legambiente-Edicom Edizioni)
In Friuli 200 caserme sono già state date ai comuni della regione, più altre 400 abbandonate che lo Stato non ha ancora decido di cedere. Ma spesso sono mele avvelenate
Il Friuli Venezia Giulia è stata la regione più militarizzata d’Italia. Se qualche parente o amico ha fatto il militare, ci sono molte possibilità che sia stato mandato da quelle parti. Metà dei comuni friulani ha qualche tipo di insediamento militare, per lo più dismesso. Ma se molti dei nomi delle caserme ricordano la Prima Guerra Mondiale, si sbaglierebbe a pensare che le postazioni militari ora in rovina siano del conflitto a cui l’Italia prese parte esattamente cento anni fa, il 24 maggio 1915. Come ha ricostruito il volume “Fortezza Fvg”, curato da Baccichet, mentre nel resto d’Italia metà delle caserme sono antecedenti al primo conflitto mondiale, in Friuli Venezia Giulia le postazioni furono costruite quasi tutte durante la Guerra Fredda. Era la “linea porosa”, fatta in realtà non di una vera linea di bunker e forti ma di tanti punti che si sarebbero supportati a vicenda in caso di invasione dalla Jugoslavia. In quel caso, la sorte della regione sarebbe stata segnata per sempre, perché era stata disseminata di “fornelli” che avrebbero dovuto ospitare delle “mine atomiche”. «La maggior parte delle bombe atomiche conservate nel nord-est – si legge nel volume – sarebbero state usate all’interno della regione», perché la gittata dei missili era di soli 120-150 chilometri.
In caso di conflitto il Friuli sarebbe stato disseminato di mine atomiche
Questi scenari apocalittici – che per decenni hanno scoraggiato investimenti nelle zone interessate – sono fortunatamente lontani. Ma per la regione lo smantellamento delle caserme è stato un problema notevole. Ha significato perdere l’indotto economico di centinaia di migliaia di soldati, prima per la fine della Guerra Fredda e poi per la fine della leva obbligatoria (il calo, peraltro, è destinato a continuare nei prossimi dieci anni). Ha significato, soprattutto, trovarsi delle strutture enormi («generalmente brutte, non sono le caserme eleganti ottocentesche di altre parti d’Italia», spiega Baccichet) che si andavano degrando velocemente. Lo Stato, all’inizio degli anni Duemila, ha cominciato a regalare queste strutture ai comuni. «Ma è stato un finto regalo. Ci sono caserme che sono più grandi del territorio rimanente del comune, come a Chiusaforte o a Villa Vicentina», spiega il rappresentante di Legambiente. «Molte sono lontane dai paesi, è difficile pensare a un riutilizzo. Il Comune di Cormons per demolire una caserma ha dovuto cedere una parte della caserma alla ditta di demolizione».
Del tema delle postazioni militari dismesse nel Friuli si occupa dal 2007 anche il progetto “Un Paese di primule e caserme”. Curato da un gruppo multidisciplinare, negli anni ha prodotto un film-documentario, varie ricerche fotografiche e una ricerca urbana che ha portato alla mappatura reale e consultabile di 245 siti e alla redazione di diversi scenari di riconversione. Il loro lavoro è stato premiato nel 2012 dal Cnappc con il premio nazionale RIUS01.
Accesso a una postazione in parete a Passo Monte Croce Carnico (foto tratta dal volume Fortezza Fvg, Legambiente-Edicom Edizioni)
Valori gonfiati
Moreno Baccichet: «Ci serve un recupero organico, come quello che la Germania ha messo in piedi già nel 1993»
Ma questi spazi non sono anche una risorsa? «Qualsiasi cosa può essere una risorsa – risponde l’autore di Fortezza Fvg – se si segue una politica. Se non si ha idea di come fare rigenerazione urbana non si va lontano. Ci serve un recupero organico, come quello che la Germania ha messo in piedi già nel 1993». Quell’anno per la prima volta l’Europa finanziò un programma, il Konver, che prevedeva la riconversione dei siti militari dismessi, a seguito del crollo del Muro. Ne approfittarono la Germania, il Regno Unito e la Grecia, ma ben poco l’Italia.
In altri circa 350-400 casi lo Stato in Friuli non ha ancora avviato le dismissioni. «Forse per lo Stato è più conveniente tenerle e supervalutarle nel bilancio dello Stato. Hanno una valutazione altissima, ma il vero valore è inferiore».
Sul fatto che la valutazione delle caserme abbandonate sia stata eccessiva non ha dubbi Simone Cola, componente del consiglio nazionale degli Architetti con delega a cultura, promozione e comunicazione. «Spesso i valori sono sovrastimati. Quello che poteva andare bene dieci anni fa, oggi non va più bene. Ci vogliono strumenti flessibili per la dismissione, non ci si può limitare a scaricare il costo della riqualificazione sul comune. È possibile per esempio trovare partnership con soggetti privati a cui i beni si possono affittare per tot anni, magari venti, per evitare il loro rapido deterioramento».
Il recinto della caserma completamente riempito di pannelli fotovoltaici (foto tratta dal volume Fortezza Fvg, Legambiente-Edicom Edizioni)
I protocolli d’intesa
Qualche strumento in realtà è stato messo a punto. La novità più importante è quella dei protocolli d’intesa che hanno riguardato alcune grandi città: Torino, Milano, Piacenza, Firenze, Roma, Napoli, Padova, Trieste e Vittorio Veneto (Treviso). La novità di questi protocolli è che coinvolgono da subito delle task force composte da una serie di soggetti con finalità diverse: Agenzia del Demanio, ministero della Difesa, soprintendenze, comuni, città metropolitane. Il tavolo ha il compito di valorizzare i beni perché siano messi sul mercato e farli diventare oggetto di riqualificazione urbana. La collocazione centrale di queste strutture nelle città le rende molto più appetibili rispetto a quelle periferiche descritte inizialmente. Il fatto che siano presenti da subito le soprintendenze dovrebbe evitare che i progetti vengano bloccati in seguito agli accordi con i privati.
La novità più importante in tema di dismissioni delle caserme è quella dei protocolli d’intesa che hanno riguardato alcune grandi città
Federico Camerin, ricercatore in Urbanistica presso l’università Iuav di Venezia, sul sito dell’associazione Audis dà conto dell’aggiornamento della situazione città per città. E dà un giudizio a luci e ombre di queste iniziative. «Questi protocolli erano stati previsti dalla Legge Finanziaria del 2009, poi furono sospesi e sono stati ripresi nel 2014. Spesso c’è una carenza di progettualità. A Milano, per esempio, si parla di fare di Piazza D’Armi (zona Baggio, ndr) un’area di trasformazione, ma non si va in dettaglio». Tra i casi dove la progettualità è maggiore vengono citati quelli di Torino, Firenze e in parte Trieste e Piacenza, mentre, per esempio, «a Vittorio Veneto non si sa bene cosa fare». Moreno Baccichet, a proposito della realtà di Trieste, nota che in realtà ci sono difficoltà e ritardi.
Gli alloggi dei militari oggi disabitati a Chiusaforte (foto tratta dal volume Fortezza Fvg, Legambiente-Edicom Edizioni)
A Torino l’università va in caserma
Nelle caserme possono convivere residenze private, social housing, attività direzionali, attività commerciali, aree verdi e università
In diversi casi (Torino, Trieste, Firenze) la destinazione finale prevede un mix funzionale, con soggetti pubblici e privati. Dato che gli spazi sono spesso amplissimi, possono convivere residenze private, social housing, attività direzionali, attività commerciali, aree verdi. A Torino è inoltre molto coinvolta l’università (come a Milano si è parlato per anni di spostare l’Accademia di Brera in una caserma). Paolo Mellano, professore ordinario del Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino, spiega a Linkiesta che nel comprensorio di Piazza d’Armi il centro sportivo dell’esercito potrebbe essere presto utilizzato anche dagli studenti universitari, che a Torino sono 100mila. Ci sono una pista di atletica, un centro per l’equitazione e una piscina olimpionica. Una delle tre caserme nel capoluogo piemontese potrebbe essere inoltre trasformata in campus universitario. I primi incontri istituzionali sono iniziati alla fine di aprile e alla firma della Difesa si potrebbe arrivare entro luglio. A Torino si parla sulla stampa per lo più della caserma La Marmora, occupata da giovani dopo che per anni ha versato in stato di abbandono. Il complesso militare è chiuso da anni e recentemente è stato venduto dal Comune alla Cassa Depositi e Prestiti con progetto annesso di valorizzazione immobiliare.
I fondi in campo
La Cdp fa parte, con il Demanio e la Invimit di un sistema tripolare per la dismissione di immobili pubblici
La Cdp è stata molto coinvolta nel processo di valorizzazione delle caserme. Una sua controllata (al 70%), Cdp Investimenti Sgr, ha avviato il fondo Fiv (Fondo investimenti per la valorizzazione) che ha al suo interno una ventina di caserme ed ex aree militari da rinconvertire. La Cdp fa parte, con il Demanio e la Invimit, società che fa capo al ministero dell’Economia e Finanze, di un sistema tripolare, come è stato definito da Repubblica, «capace di almeni di uscire dalla palude delle parole vuote, valorizzando finalmente gli immobili pubblici e risparmiando sulle spese vive degli affitti e della gestione».
C’è poi il Fondo Immobili Pubblici (Fip), il primo fondo di investimento promosso dalla Repubblica italiana nell’ambito di un più ampio processo di valorizzazione promosso dal Mef. È gestito dalla Sgr Investire Immobiliare e ha in pancia alcune caserme, della Guardia di Finanza. Come riportato dal Sole 24 Ore, il fondo di private equity americano Cerberus starebbe per rilevare un portafoglio di circa sette immobili, tra i quali potrebbero primeggiare due caserme, quelle di Roma e Bari, proprio dal Fip. Cerberus, scrive Carlo Festa,
«si andrebbe così ad aggiungere a Blackstone, l’altro colosso finanziario statunitense che solo qualche mese fa ha concluso l’acquisto per uno dei suoi fondi di diversi immobili pubblici appartenenti al fondo Fip tra Torino, Genova, Milano e Como. Ma non è tutto. Anche il Quantum Fund del magnate George Soros da circa un anno sta guardando con interesse al patrimonio pubblico italiano, anche se fino ad oggi non ha concluso alcuna transazione. Le caserme poi sono uno dei settori d’investimento del fondo statunitense Och-Ziff (lo stesso che ha mostrato attivismo sul dossier Montepaschi), che per alcuni mesi ha trattato l’acquisto della caserma de L’Aquila»
(…)
C’è da pensare che lo shopping dei grandi fondi americani continuerà. Sul piatto, in vendita, ci sono infatti caserme, in particolare della Guardia di Finanza e dell’Esercito, un po’ in tutta Italia, dal Nord al Sud. Secondo le ultime stime, sul territorio nazionale ci sarebbero sul mercato 450 caserme, che potrebbero valere alcuni miliardi di euro. Ma perché i giganti finanziari americani entrano in questo settore? La logica è molto semplice: l’acquisto di una caserma è infatti un tipo di investimento assimilabile a un bond di uno Stato sovrano, come ad esempio i Btp. Le caserme sono infatti affittate all’esercito o alla Guardia di Finanza (quindi allo Stato) con contratti di lunga durata: tra i 10 e i 20 anni. Gli affitti diventano quindi una rendita ventennale, garantita dallo Stato, per questi fondi internazionali».
In questi casi si tratta dunque di caserme ancora utilizzate. Per le altre, lo Stato a pensato al “federalismo demaniale”. Con una norma inserita nel Decreto del Fare, il governo Letta nel 2013 ha provato ad accelerare il passaggio di beni non più utilizzati dallo Stato agli enti locali. Per ogni bene trasferito, spiegava ancora Il Sole 24 Ore, ogni comune si vede tagliare i finanziamenti erariali a compensazione del minor gettito per lo stato. In più un quarto degli incassi di un’eventuale vendita va girato al Fondo ammortamenti titoli di Stato. Allo scorso ottobre c’erano state 10mila richieste da parte dei comuni, di cui il 60% erano state accettate. Tuttavia all’epoca solo il 16% degli immobili (864) era stato effettivamente trasferito ai comuni. Come mostra il caso friulano, tuttavia, se i comuni non sono messi nelle condizioni di operare, il rischio è che la riqualificazione sia solo un’utopia.