Questa edizione del festival di Cannes, per l’Italia, è un’edizione speciale. Per la prima volta negli ultimi 20 anni, infatti, i film italiani in concorso saranno tre e di altissima qualità: Mia madre, di Nanni Moretti, Il racconto dei racconti, di Matteo Garrone e Youth, di Paolo Sorrentino. L’Italia si presenta dunque con il meglio del proprio arsenale, sia della nuova generazione — gli splendidi quarantenni Garrone e Sorrentino —, sia di quella precedente, dei maestri come Moretti. Per l’occasione abbiamo parlato con Gianni Canova, uno dei più autorevoli critici cinematografici italiani, giornalista, scrittore e preside della facoltà di Comunicazione, Relazioni Pubbliche e Pubblicità dello IULM di Milano.
Professore, che cosa ne pensa di questa edizione del festival di Cannes?
Cannes è sempre stata una conventicola per addetti ai lavori, dove tutti gli anni tornano gli stessi. Io da questo punto di vista sono del parere che non si debba dare troppa importanza a questi appuntamenti, a non enfatizzarne troppo il valore, perché i festival ormai sono più passerelle che promuovono se stesse che strumenti al servizio della diffusione del gusto e dell’estetica del cinema. Tant’è che spesso sono dei ritrovi a cui partecipano sempre i soliti noti. Non c’è un film di Lars von Trier che non va a Cannes, come di Gus Van Sant o dei fratelli Dardenne, e potrei continuare. E poi ci sono altri grandi talenti che invece non vengono invitati agli oscar, che non vanno ai festival, come un Tim Burton, per esempio.
«Il cinema è un dispositivo che crea forme, che le inventa, che produce vitamine cognitive, nutrimento per gli occhi e quindi anche per la mente e per il cuore»
E degli italiani in concorso?
Quest’anno mi sembra veramente che l’Italia sia il paese che arriva con le proposte più forti, con tre film molto diversi tra di loro, uniti però dal fatto di non appiattirsi su una visione grezzamente realista del cinema. Sorrentino, Moretti e Garrone hanno capito che il cinema non può essere e non sarà mai uno specchio puro del mondo, il cinema è un dispositivo che crea forme, che le inventa, che produce vitamine cognitive, nutrimento per gli occhi e quindi anche per la mente e per il cuore. Questo, seppur, ripeto, in modi diversi, sia Sorrentino, sia Garrone, sia Moretti lo sanno e lo fanno, e per questo sono tra i candidati più interessanti.
«Il cinema italiano, a livello artistico, progettuale e creativo è il migliore del mondo. A livello produttivo e industriale, invece, molto meno, ma qualcosa sta cambiando»
Al di là di queste tre eccellenze del nostro cinema, quasi dei fuoriclasse, come sta il cinema italiano?
Il cinema italiano, a livello artistico, progettuale e creativo è il migliore del mondo. A livello produttivo e industriale andiamo invece meno bene perchè in passato siamo stati spesso un po’ cialtroni, perché siamo dei cialtroni. Come talento creativo e visionario nessun’altra cinematografia può mettere sul piatto tre talenti come quelli che noi oggi portiamo a Cannes. e a questi vanno aggiunti anche grandi maestri ancora in attività, come Bellocchio e Bertolucci e i tanti altri registi di talento che abbiamo in Italia, per non parlare della nuova commedia italiana, con personaggi come Maccio Capatonda, che apprezzo molto.
Cosa ci manca a livello produttivo?
Noi non abbiamo ancora un’industria culturale degna di questo nome. In passato abbiamo spesso perseguito un’idea di cinema assistito, con produttori che non erano mossi da autentica passione, che non rischiavano, e che erano più abili nel fare la questua qua e là nel sottobosco politico romano che nel reperire e attivare investimenti privati a sostegno dell’industria del cinema e dello spettacolo. Il risultato è l’attuale oggetiva debolezza della nostra industria culturale. Il che per l’Italia è gravissimo: è come se il Texas fosse debole nell’industria petrolifera. Faccio solo un esempio, negli ultimi dieci anni l’Italia è agli ultimi posti nella produzione di film per bambini. I film per bambini, come sa chiunque si occupi in maniera minimamente professionale di questo settore sa che sono il genere che tira di più.
«Il produttore in Italia molte volte non è mosso da passione ed estetica cinefila, fa fatica a rischiare, è piuttosto un frequentatore del sottobosco politico romano»
Chiunque sia andato a vedere un cartone animato ultimamente si sarà reso benissimo conto del fatto che le sale, per quel genere di film, sono piene. I genitori vanno con i bambini al cinema. Negli ultimi dieci anni la Francia e la Germania hanno prodotto circa una cinquantina di film per bambini, l’Italia 11 se non ricordo male. Questo cosa vuol dire? Che da noi l’industria cinematografica non produce artefatti ludici e d’intrattenimento per il pubblico, ma insegue un po’ troppo il narcisismo dell’autore, che mette al centro il proprio bisogno espressivo e non i bisogni del pubblico, o meglio, dei pubblici, che vanno creati. In questo senso secondo me in Italia siamo proprio indietro.
Garrone e Sorrentino hanno realizzato due film ambiziosi, dal respiro internazionale, in lingua inglese, coprodotti da produzioni estere. È una buona notizia?
Certo, è un tentativo finalmente maturo di una produzione alla altezza dei tempi, che non deve più guardare ai piccoli confini della piccola patria italiana, ma che può guardare al mondo. Hanno capito che bisogna giocare la partita fuori. In Italia ci sono 50 milioni di abitanti che sono sostanzialmente analfabeti. L’Italia è l’unico paese europeo che non prevede l’insegnamento di media e prodotti audiovisuali nelle scuole dell’obbligo. E questo si riflette — e lo si può verificare facilmente, io l’ho fatto mediante una ricerca universitaria — in una incompetenza sconcertante, in una reale e completa analfabetizzazione del pubblico. È per questo che quando Canale 5 manda in onda La grande bellezza, il grande pubblico non capisce e si perde. È chiaro, sono abituati a vedere da decenni prodotti pessimi, come le serie televisive italiane o come altri prodotti con strutture narrative banali ed elementari. E un prodotto come La grande bellezza per un pubblico del genere non è assolutamente decodificabile. E purtroppo non è nemmeno soltanto un discorso cinematografico, pensi a quei dati di qualche tempo fa, quella ricerca da cui emergeva che 4 italiani su 10 non sono in grado di capire un testo scritto con una sintassi non elementare. Come può un pubblico del genere capire La grande bellezza? E dico capire, non apprezzare o criticare, perché può anche non piacere, ma prima bisogna avere gli strumenti, come per leggere bisogna conoscere l’alfabeto. Le responsabilità di chi negli ultimi 20 anni ha gestito Rai e Mediaset, ma soprattutto Rai, da questo punto di vista sono enormi.
«Veniamo da trent’anni di duopolio televisvo Rai Mediaset, senza mercato né concorrenza qualitativa, con Sky potrebbero cambiare le cose»
Perché in Italia la qualità dei prodotti per il grande pubblico è così bassa?
Veniamo da un trentennio in cui in Italia non c’è stato veramente un mercato. Per quanto riguarda la televisione, c’era un duopolio — Rai contro Mediaset — che erano sostanzialmente omologhi e quindi non avevano nessun bisogno di alzare la qualità delle proprie produzioni. Quando in un sistema del genere entra in gioco un terzo competitor, che non deve essere necessariamente più bravo degli altri due, succede che, per guadagnarsi un nuovo pubblico, il terzo arrivato alza immediatamente il livello, sia qualitativo che di produzione. Quindi spero che con l’ingresso nel campo da gioco di Sky gli altri due si decidano a muoversi per non perdere spettatori.
Questi prodotti potranno essere di aiuto per rialfabetizzare il pubblico italiano?
Per rialfabetizzare non saprei, è un discorso complicato. Certo è che serie come Gomorra e 1992 faranno bene al pubblico. Il problema è che c’è un grosso divario tra il pubblico medio e quello a cui questi prodotti sono diretti. È un divario gigantesco, perché questo tipo di prodotti richiedono allo spettatore la confidenza con linguaggi e strutture narrative molto diverse da quelli della serialità classica italiana, quella prodotta da Canale 5 o Raiuno per intenderci. Noi siamo indietro di secoli, e benché l’Unione Europea ci abbia più volte sanzionato e abbia richiamato molti governi italiani degli ultimi dieci anni per la nostra carenza scolastica nell’insegnamento di queste discipline, noi continuiamo a fare orecchie da mercante. Addirittura siamo ancora qui a domandarci se cambiare la Storia dell’arte, o del Latino.
«La percentuale di riconoscimento de La dolce vita è più alta tra gli studenti croati e ungheresi che tra quelli italiani. E questo è un problema culturale immenso»
Un ultimo esempio: ho fatto recentemente una ricerca per l’università sulla riconoscibilità dei grandi film della storia cinema italiano tra gli studenti italiani ed europei. Ho preso 10 immagini da 10 film italiani storici — da La dolce vita a Rocco e i suoi fratelli — e li ho mostrati a studenti di fine liceo o inizio università, in Italia e nel resto dell’Unione Europea. Bene, i risultati sono sconcertanti, o forse no, date le premesse: per esempio la percentuale di riconoscimento de La dolce vita è più alta tra gli studenti croati e ungheresi che tra quelli italiani. E questo è un problema culturale immenso.
Qualcosa però si sta muovendo…
Sì, assolutamente, anche perché lo stato di cose attuale — a cominciare dal preoccupante analfabetismo iconico del pubblico — deriva in gran parte dalle scelte politico-culturali effettuate in passato. Il produttore più faccendiere che imprenditore culturale è una triste realtà della nostra storia recente, così come lo è l’idea di un cinema iperassistito anche se non meritevole, ma ora per fortuna qualcosa sta cambiando. Non saremmo a Cannes con tre film produttivamente così coraggiosi e innovativi se non ci fossero produttori capaci di ideare e concretizzare simili progetti. Insomma, dopo anni di palude, ci sono segni vigorosi di rilancio e di cambiamento. I film italiani a Cannes sono un esempio di operazioni anche produttivamente virtuose. e la notizia fresca fresca per cui Fox distribuirà il film di Sorrentino negli Usa conferma che anche da noi ci sono ormai produttori capaci di competere con orgoglio sul mercato mondiale.