Nel 1985, il celebre scacchista Garry Kasparov partecipò ad Amburgo ad un’esibizione di scacchi simultanei. Giocò contro i 32 computer migliori inviati dalle quattro società più avanti nella ricerca sugli scacchi e l’informatica. Otto computer della Saitek si chiamavano “Kasparov” in suo onore. Finì 32 a zero per il Kasparov in carne ed ossa.
Poche settimane prima, un dottorando in informatica di origini taiwanesi era in difficoltà con il suo progetto di ricerca alla prestigiosa università Carnegie Mellon di Pittsburgh, Pennsylvania. Il progetto riguardava la possibilità di stampare più velocemente e soprattutto di rendere in modo soddisfacente i caratteri cinesi e giapponesi da parte delle stampanti laser, una nicchia di mercato in rapida e promettente ascesa. Il tutor fece capire a Feng-Hsiung Hu, lo studente, che il suo percorso accademico era a rischio.
La Carnegie Mellon era una delle università migliori degli Stati Uniti per studiare informatica e c’erano almeno due gruppi che lavoravano a macchine in grado di giocare a scacchi in modo accettabile, chiamati Hitech e ChipTest. Uno dei responsabili del progetto Hitech chiese a Feng-Hsiung se poteva aiutarlo in un problema di progettazione della loro macchina.
Feng-Hsiung ci lavorò un po’, nonostante le difficoltà accademiche, e nell’arco di qualche settimana trovò un’idea che si basava su un’impostazione del tutto diversa del problema. Tra le parti principali che formavano un computer per gli scacchi c’erano un “generatore di mosse”, che trova le mosse da fare sulla scacchiera, e una “funzione di valutazione”, che valuta le posizioni dei pezzi sulla scacchiera considerando un certo numero di mosse possibili in futuro.
Il gruppo Hitech aveva chiesto a Feng-Hsiung di progettare una funzione di valutazione con 64 chip, uno per ogni casella della scacchiera (la macchina a cui stavano lavorando aveva già un generatore di mosse basato su 64 chip). Si poteva fare, si accorse Feng-Hsiung, ma il numero di circuiti esterni necessari avrebbe reso la macchina molto lenta. Dopo aver esaminato i progetti di un altro computer scacchistico, Belle, il ragazzo ebbe un’intuizione: forse si poteva far stare sia la funzione di valutazione che il generatore di mosse in un solo chip ciascuno, rendendo la macchina molto più veloce – e la soluzione del problema degli scacchi più vicina.
Il responsabile del gruppo Hitech non era dell’idea di cambiare così tanto il suo lavoro, ma l’intuizione convinse il tutor di Feng-Hsiung, che lo invitò a lavorarci di più. Lo studente decise di abbandonare le stampanti laser e i caratteri cinesi e di dedicarsi a tempo pieno all’affascinante – ma probabilmente molto meno remunerativo – problema degli scacchi.
Più degli atomi dell’universo
Nel 1950, il matematico Claude Shannon pubblicò Programmare un computer per giocare a scacchi, l’articolo che diede il via a un intero filone di ricerche e tentativi per quello che sarebbe diventato celebre come “the Computer Chess Problem”. Due anni dopo l’articolo di Shannon, Alan Turing pensò un algoritmo a quello scopo, a tutti gli effetti il primo programma informatico per giocare a scacchi. Dato che non aveva un calcolatore in pratica la sua idea, scrisse l’algoritmo su fogli di carta e lo compilò a mano, simulando una partita che Kasparov definì molti anni più tardi «competente».
Nell’entusiasmo per la tecnologia del secondo dopoguerra, progettare un computer in grado di battere un essere umano sembrava questione di pochi anni. Dopotutto, i primi calcolatori avevano aiutato l’uomo a costruire la bomba atomica e a mandarlo sulla Luna. Qui si trattava di riuscire in un compito in apparenza molto più semplice: fare meglio di un essere umano in un gioco in cui le regole sono chiare e definite in partenza, non c’è intervento del caso o della sorte e ogni giocatore conosce tutte le mosse dell’altro (un cosiddetto “gioco a informazione perfetta”).
Almeno in teoria, una strada percorribile è quella di far ricostruire da un computer tutte le mosse possibili sulla scacchiera e scegliere semplicemente quella che conduce sicuramente alla vittoria. Il problema degli scacchi è che il numero di partite possibili, anche solo dopo poche mosse, è mostruosamente alto: una delle metafore più utilizzate per rappresentare quell’enormità è che ci sono più partite di scacchi possibili che atomi nell’universo. Per cui un computer non può limitarsi a giocare tutte le partite e poi scegliere la migliore.
Alla metà degli anni Ottanta, nonostante l’ottimismo di poco tempo prima, la soluzione del problema degli scacchi sembrava ancora lontana, come aveva dimostrato l’esibizione di Kasparov ad Amburgo. Lo stesso Kasparov, nel 1988, predisse che nessun computer sarebbe riuscito a battere un grande maestro di scacchi prima del 2000.
Poi uno studente di origini taiwanesi decise che valeva la pena seguire una pista che al momento consisteva solo in un paio di pagine inviate a qualche professore della sua università.
L’ultima resistenza
L’idea di Feng-Hsiung era molto semplice, nella sua essenza. Non si trattava di rendere i computer in qualche modo intelligenti come gli esseri umani, dando loro le capacità di strategia, intuizione e creatività che caratterizzavano gli stili di gioco degli scacchisti migliori. Come ha ricordato Feng-Hsiung diversi anni dopo, lui era attratto dal problema in primo luogo perché era un problema di velocità.
Le capacità di calcolo dei computer stavano migliorando in modo molto rapido, grazie alla miniaturizzazione delle componenti e ai progressi soprattutto sul fronte dell’hardware. Bisognava riuscire a costruire una macchina circa mille volte più rapida di quelle in circolazione, pensò Feng-Hsiung, e la sua potenza di calcolo sarebbe stata in grado di gareggiare con un campione del mondo. E magari di batterlo.
Inizialmente, il progetto di Feng-Hsiung venne preso in carico e portato avanti dal gruppo di studenti della Carnegie Mellon chiamato ChipTest. Il primo computer che ne risultò venne chiamato “Deep Thought”. Nello stesso anno in cui Kasparov fece la sua confortevole previsione rimandando tutto oltre l’anno 2000, Deep Thought battè il grande maestro danese Bent Larsen. Ma Kasparov vinse senza difficoltà quando, nel 1989, accettò di sfidare il programma. Commentò la sfida dicendo che un giorno sarebbe venuto fuori un computer con cui si sarebbe dovuto impegnare al 100 per cento per vincere.
Quell’anno il progetto Deep Thought attrasse l’attenzione dell’Ibm e Feng-Hsiung Hu, insieme al suo compagno di studi Murray Campbell, vennero assunti nella sezione di ricerca della multinazionale dell’informatica. Qui trovarono altri informatici con cui fecero squadra nel nuovo progetto chiamato “Deep Blue”.
La squadra di Deep Blue costruì una macchina che, sul piano della potenza di calcolo, surclassava l’uomo. Era in grado di valutare molti milioni di mosse al secondo e possedeva un enorme database di partite giocate, da cui trarre indicazioni su quali fossero, statisticamente, le mosse scelte più spesso in determinate situazioni dai giocatori più forti. Il team dell’Ibm si avvaleva anche dell’aiuto di un giovane grande maestro, Joel Benjamin.
Nel complesso, si stima che Deep Blue fosse in grado di “vedere” sei-otto mosse in avanti, una possibilità che sfuggiva in condizioni normali anche ai grandi maestri più esperti. Dove il computer era più debole era nel pensiero strategico: nelle fasi iniziali della partita, ad esempio, quando tutte o quasi le possibilità sono ancora aperte, il computer non era in grado di scegliere molto bene un obiettivo su cui concentrare i propri sforzi in modo organico.
Un tipico errore del computer (che Kasparov sfruttò nella sua prima partita del 1997) era quello di accettare sempre lo scambio di un pezzo più debole per uno più forte dell’avversario, senza tener conto in modo adeguato delle conseguenze strategiche di quella scelta (ad esempio in termini di posizione e di controllo della scacchiera).
Kasparov incontrò per la prima volta Deep Blue nel febbraio del 1996, a Philadelphia. Il computer vinse la prima partita, ma il campione del mondo – ormai in carica da dieci anni, e con altri dieci di dominio davanti a lui – riprese in fretta il controllo della situazione e battè senza eccessivi sforzi la macchina nel resto della serie di sei partite. Si decise una rivincita l’anno successivo.
La pressione sul nuovo scontro, che cominciò il 3 maggio 1997, non poteva essere più alta. Newsweek titolò «The Brain’s Last Stand», l’ultima resistenza del cervello. Le partite vere e proprie si tennero in uno studio televisivo al 35esimo piano dell’Equitable Building di New York. Da una parte della scacchiera, Kasparov. Dall’altra, Feng-Hsiung o altri due colleghi, che dovevano solo eseguire le mosse suggerite da Deep Blue. Molti piani più sotto, nel seminterrato, un auditorium pieno di spettatori e tre schermi che riprendevano la partita.
La serie di sei partite (vittoria di Kasparov; vittoria di Deep Blue; tre patte; vittoria di Deep Blue nell’ultima, l’11 maggio 1997) è stata analizzata infinite volte, fino ai minimi dettagli. Di certo, Kasparov commise alcuni errori decisivi e, in particolare nell’ultima partita, si presentò in una condizione psico-fisica che apparve a tutti i testimoni come particolarmente difficile.
Il fattore umano fu importante nella sconfitta di Kasparov – che subiva la pressione e la stanchezza in modi che il computer non poteva avvertire – ma c’è un momento della sfida, in particolare, che sembra dare alla vicenda di Deep Blue un senso più profondo.
La mossa della torre
Nel suo libro Il segnale e il rumore. Arte e scienza della previsione (2012), Nate Silver descrive l’episodio, al termine della prima partita. I computer hanno grandi database in cui raccolgono migliaia e migliaia di chiusure, la fase finale del gioco (tutte le partite con meno di sei pezzi sulla scacchiera sono state “risolte”, ovvero è stata trovata l’esatta combinazione di mosse – che possono arrivare a oltre 500 – che eseguite nella giusta sequenza portano alla vittoria uno dei due giocatori, qualunque sia il gioco dell’avversario).
In questa fase, i computer hanno solitamente un vantaggio sull’uomo, dato che conoscono le possibili sequenze vincenti e le possono mettere in pratica senza fare nessun errore.
Alla quarantaquattresima mossa della prima partita, Deep Blue era in una situazione molto svantaggiata. La vittoria di Kasparov era ormai scontata e infatti sarebbe arrivata alla mossa successiva. Ma in quella 44esima mossa, Deep Blue, che muoveva il nero, aveva la possibilità di mettere sotto scacco il re di Kasparov e guadagnare un altro po’ di tempo con un movimento della sua torre. Invece di fare quella mossa ovvia, portò la torre sulla prima traversa del bianco e non sfruttò l’occasione di fare scacco. Al turno successivo Deep Blue si dichiarò sconfitto.
La 44esima mossa non aveva nessun senso, almeno agli occhi di un umano. Kasparov ne rimase interdetto. Quando analizzò il match quella sera provò, insieme ai suoi collaboratori, a trovare una spiegazione a quella mossa sprecata, senza arrivare a una conclusione soddisfacente. Perché il computer non aveva fatto la mossa più logica?
Kasparov trovò che quella mossa da parte di Deep Blue gli avrebbe permesso, alla fine, di arrivare allo scacco matto in venti mosse. Durante la partita non lo poteva sapere, nessun umano “vede” così in avanti in una situazione simile. Ma fino ad allora si pensava che neppure Deep Blue avesse quella capacità: per Kasparov, la prospettiva era abbastanza spaventosa. L’avversario che aveva davanti – a cui il team dell’Ibm aveva lavorato duramente nell’anno trascorso dalla loro prima sfida – era molto, molto più potente del previsto.
(Oppure c’era un imbroglio: Kasparov, alla conferenza stampa il giorno dopo la seconda partita, accusò Ibm di barare e che un giocatore molto esperto, a livello di un grande maestro, stesse decidendo le mosse al posto del computer. Kasparov ha ripetuto altre volte quest’idea, anche se sulla questione si è ammorbidito negli ultimi anni.)
Nate Silver suggerisce che quella paura abbia portato Kasparov a perdersi d’animo e al risultato inatteso della seconda partita, in cui lo scacchista lasciò la vittoria a Deep Blue quando le analisi successive mostrarono che sarebbe stato ancora possibile condurre il gioco a una patta. In altre parole, una mossa inattesa da parte della macchina avrebbe lanciato un messaggio così sorprendente per Kasparov da influenzare in modo decisivo le cinque partite successive.
Non è possibile verificare fino in fondo l’ipotesi di Silver, ma è più semplice cercare di rispondere alla domanda: da dove veniva la 44esima mossa di Deep Blue?
Nel 2010, Silver parlò con Murray Campbell, uno dei padri di Deep Blue. Campbell raccontò che la 44esima mossa era dovuta a un baco informatico. Già in passato i programmatori si erano accorti che, di quando in quando, Deep Blue faceva delle mosse senza senso immediato: il problema, per loro, era semmai che era diventato troppo più abile di loro nel gioco e che quindi ci voleva molto tempo per capire se quella determinata mossa era effettivamente un errore oppure poteva avere un’utilità in futuro.
Gli algoritmi di Deep Blue si basavano su un numero molto alto di variabili, che dovevano guidare il computer nelle sottigliezze del gioco. Restavano però alcune situazioni in cui il programma non era in grado di scegliere una mossa preferibile sulle altre e faceva ricorso a una misura d’emergenza: fare una mossa completamente casuale. Era quanto successo, disse Campbell, al termine della prima partita contro Kasparov nel 1997, con lo spostamento della torre nella prima traversa del bianco. L’errore nel programma venne individuato e corretto il giorno dopo l’incontro.
Feng-Hsiung Hu non ha mai accettato l’idea che si trattasse di una lotta tra il cervello e la macchina. È comprensibile, dato che ha dedicato undici anni della sua vita alla costruzione della macchina che è stata in grado di battere per la prima volta il campione del mondo in carica.
Nella prefazione del suo Behind Deep Blue scrive: «La sfida era in realtà tra uomini, in due ruoli diversi: l’uomo come giocatore e l’uomo come costruttore. Nella partita del 1996, vinse l’uomo come giocatore; nella rivincita del 1997, l’uomo vinse come costruttore». La mossa inattesa della torre, e l’ipotesi di Silver che fu quella mossa a dare un colpo decisivo alla determinazione di Kasparov, danno una nuova lettura a quella storica vittoria della macchina sull’uomo – o del costruttore sul giocatore, come preferisce Feng-Hsiung. L’elemento decisivo fu quanto di più umano si possa immaginare, quello che tutte le macchine sono costruite per evitare e da cui, spesso, ci sembrano al riparo: l’errore.